AU NOM DE QUOI

Bruxelles, notte tra venerdì 13 e sabato 14 novembre. Il telefono ha squillato mentre ero sulla scaletta dell’aereo che dall’Italia mi aveva appena riportato in Belgio: “Hai visto a Parigi? Quando arrivi?”. No, non ho ancora visto nulla, ma mi rendo conto che qualcosa di grave dev’essere successo, perché invece di farci uscire ci portano al controllo passaporti. È un “volo Schengen”, da un Paese comunitario, eppure dobbiamo presentare i documenti, che è una procedura davvero insolita. Mostro al poliziotto non solo la mia carta d’identità italiana, ma anche il documento di soggiorno belga. Che pare essere l’unica cosa che lo interessa. Lo infila nel lettore digitale, me lo rende con uno sguardo serio e mi fa cenno di proseguire. Il telefono squilla una seconda volta, è una collega di Parigi che mi chiede le reazioni a Bruxelles. La telefonata è convulsa, è una professionista seria, ma sta singhiozzando.

Mentre la macchina mi porta alla redazione di DSPRESS (ndr: l’agenzia stampa di Bruxelles di cui l’autore è direttore) comincio il giro del vecchio cronista, portavoce del ministro dell’interno belga, ambasciata di Francia, addetto stampa del Consiglio.

O sono occupati o non rispondono.

Chiamo un collega francese, il respiro è affannato, sta correndo lungo il Boulevard Voltaire, un lungo viale che da République – la piazza diventata simbolo di Je suis Charlie, a pochi passi dalla redazione del giornale Libération – porta sino a Place de la Nation. Mi dice che sta cercando di scappare dalle pattuglie della polizia che ordinano di rientrare a casa, per andare verso il Bataclan, uno storico locale rock della capitale francese in cui sembra sia in corso un altro attacco. Camminavo lungo quel boulevard martedì pomeriggio e mi sembra di vederlo. Il Bataclan è uno di quei miti inossidabili delle notti parigine, è lì dalla metà del 1800 e ci si sono esibite star di ogni tipo, da Lou Reed a David Guetta. Uno di quei posti dove vai senza porti la domanda “ma sarà pericoloso?”.

Come andare al ristorante. Le Petit Cambodge, dove tutto sembra sia cominciato, è un posto chic – sempre pieno – dove rischi di sederti accanto a qualche sconosciuto ad uno dei tavoli semplici, piedi in metallo e sgabelli. È arrivato dopo aver sparato, a pochi passi, nel bar Le Carillon. È entrato gridando e ha aperto il fuoco, secondo alcune testimonianze. “Erano due macchine, hanno sparato dai finestrini”, racconta un altro. Siamo in quattro in redazione e cerchiamo di raccogliere informazioni, le tre televisioni sono sintonizzate sui canali francesi, quando ci confermano la notizia che il Presidente francese è stato evacuato con protocollo di sicurezza dallo stadio, dove pare che due kamikaze si siano fatti esplodere ferendo ed uccidendo altre persone.

Parigi è sotto assedio, il collega francese è arrivato nei pressi del Bataclan ma non riesce ad avvicinarsi, la polizia è in assetto di guerra, sembra stiano ancora sparando nel locale. Obama batte Hollande, è il primo ad apparire in televisione per parlare di Parigi. Pochi minuti dopo, la voce rotta dall’emozione, Hollande annuncia che ci sarà l’attacco delle forze speciali, che ha proclamato lo stato d’emergenza e chiuso le frontiere.

“Cantano, è incredibile, cantano!”. Sono i tifosi francesi che stanno lasciando lo Stade de France. Una collega è al telefono con amici che erano allo stadio per la partita contro la Germania, stanno uscendo e cantano la Marsigliese. “Alle armi cittadini, ognuno è soldato, tremate tiranni, per ogni giovane eroe che cade la terra ne crea di nuovi, contro di voi, pronti a combattere”. È una strofa dell’inno nazionale francese che sembra riassumere lo stato d’animo generale; escono in maniera composta dai tunnel dello stadio, sventolano le bandiere portate per sostenere una squadra di calcio che assumono ora un significato ben differente.

Sono passate le 23, raccogliamo al volo due testimonianze da due luoghi distanti: le forze speciali stanno entrando al Bataclan, hanno obbligato i giornalisti presenti a nascondersi negli androni dei palazzi, sospettano ci possano essere cecchini sui tetti, allo stesso momento, al ristorante di rue Albert, si coprono i corpi stesi a terra con le lenzuola che la gente ha lanciato dalle finestre non osando scendere in strada.

Siamo storditi, le informazioni si accavallano, il numero dei morti accertati aumenta e la sensazione di vivere una notte di guerra a distanza è sempre più forte. Arrivano le prime dichiarazioni ufficiali, hanno tutte in comune due parole, condanna e solidarietà. La Prefettura di Parigi ottiene la sospensione della diretta televisiva dal Bataclan, per non fornire informazioni ad eventuali gruppi di supporto, le immagini riprendono nella notte, all’arrivo del Presidente della Repubblica accompagnato dal Primo ministro e dal ministro dell’interno sul luogo del massacro. È un Presidente di guerra, la voce non trema più come nel primo intervento televisivo, “Combatteremo i terroristi e sarà una lotta senza pietà”.

Ormai è quasi mattina, cerchiamo di fare i primi bilanci e le prime analisi, ma è veramente difficile. Tra gli appelli degli ospedali parigini per donare il sangue e l’annuncio che tutti i luoghi pubblici, scuole comprese, saranno chiusi sabato spunta su twitter un hashtag: #porteouverte, #portaaperta. È un invito a chi avesse bisogno di un rifugio a rivolgersi a chi posta l’hashtag, cittadini che mettono a disposizione le loro case, ambasciate, ospedali.

Nonostante le unanimi dichiarazioni di solidarietà e di collaborazione colpisce un dato: tra le prime reazioni, la decisione di sospendere l’Accordo di Schengen sulla libera circolazione delle persone. Comprensibile, logica forse, ma triste testimonianza di quanto cammino ci sia ancora da fare prima che si possa realmente parlare di Europa Unita. Ancora una volta la risposta è innanzitutto nazionale.

Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI