Dal Museo Internazionale del carnevale e delle Maschere a Binche (Belgio)

Indossare una maschera è un gesto che cela molti significati, può equivalere a omologarsi, ma anche a ribadire la propria unicità: può essere un abbigliamento codificato delle sottoculture giovanili o una barriera che si frappone tra il soggetto e il mondo circostante. Una maschera può essere un elemento uniformante o, al contrario, isolante. In qualsiasi caso, però, indossare una maschera equivale a proporre un sé diverso da quello reale, seguendo modi di attuazione e perseguendo fini differenti. Sul bisogno di indossare una maschera e sugli infiniti riverberi che il termine può avere, numerose discipline hanno espresso la loro opinione. Un oggetto che parte da lontano, si trasforma in un concetto a volte astratto che investe la sfera relazionale e che, soprattutto, diventa un terreno molto fertile su cui si innesta la cultura pop, capace di generare mondi e identità distorte.

La maschera teatrale, nelle rappresentazioni dall’antica Grecia fino alla commedia dell’arte italiana, ha iniziato ad assolvere, in modo molto bizzarro, a un compito: nonostante il suo intento primario fosse quello di celare i tratti somatici dell’attore per creare quel compromesso con il pubblico utile ad accantonare la realtà e ad abbracciare la finzione narrativa, nei fatti, ha portato all’individuazione immediata del personaggio da parte dello spettatore, che, così, ne riconosceva la facies di uomo ora umile, ora avaro, ora arrivista. Un’esemplificazione che, nei secoli, diventa sempre più netta, fino ad arrivare alle maschere della tradizione teatrale popolare e regionale. Cosa sono Pulcinella, Balanzone e Colombina, se non la stigmatizzazione di vizi e virtù? I personaggi del teatro popolare diventano, nel tempo, copia carbone delle caratteristiche umane più diffuse ed estremizzate, strizzate in un costume inequivocabile e caratterizzate da un accento molto marcato: elementi, questi, che contribuiscono a rendere il personaggio subito riconoscibile alla platea ma, contestualmente, anche un universale.

La maschera di Diabolik

L’eroe mascherato

Seguendo una successione aurea in cui si avvicendano identità celate sempre più complesse e intrecciate tra di loro, si arriva alla costruzione del personaggio dal volto coperto par excellence: l’eroe mascherato. Sul perché decenni di fumetti, prima, e cinematografia, poi, si siano concentrati su questa figura, è semplice: sottolinea la fascinazione dell’ignoto, cementa quel vincolo tra personaggio e pubblico già estrinsecato con il teatro e stimola una vasta gamma di interpretazioni. I supereroi, infatti, negli anni, sono entrati sempre più in contatto con il loro dark side, quel lato nascosto e oscuro che ha contribuito a umanizzarli, a veicolare l’eccezionalità di chi non si afferma come… “superuomo”, ma si scopre nelle sue fragilità e nel suo essere ineluttabilmente umano, troppo umano, malgrado dei poteri fuori dall’ordinario.

La fascinazione per la maschera è inscritta nel dna del mondo del fumetto: Spider-Man, Flash, Capitan America, Paperinik, Diabolik (e si potrebbe andare avanti ancora per molto!) indossano maschere a volte totali, altre talmente striminzite da far sussultare all’idea che il personaggio “quotidiano” non venga immediatamente riconosciuto nel supereroe. Un caso che rivela l’unicità di un personaggio sui generis è quello di Joker, il cattivo di Batman che nasconde il suo volto e il suo tormento interiore dietro un trucco perennemente sbiadito. Ma la sublimazione del concetto di maschera si ha con Superman: superato lo sgomento per il labile (troppo labile!) confine tra l’impiegato Clark Kent e il supereroe vulnerabile alla kriptonite, il travestimento, in questo caso, sono i panni quotidiani dell’uomo comune. La narrazione di Superman, infatti, parte dalla sua nascita e dall’arrivo sulla terra mentre il suo pianeta di origine viene distrutto: il costume “di scena” dell’eroe adulto diventa la coperta in cui era avvolto quando fu trovato dai coniugi Kent. Quindi, il suo abbigliamento da cronista altro non è che il tentativo di camuffare la sua unicità, uniformandosi alla massa.

Mimica facciale

Il teatro quotidiano

E se, a cavallo tra gli anni 50 e 60 del secolo scorso il medium fumetto cresce esponenzialmente, parallelamente si assiste anche alla ridefinizione di quelle teorie sulla società e sulla socialità che iniziano a fare i conti con il profondo cambiamento in corso nel mondo e accendono i riflettori su una comunicazione contemporanea e in continuo e rapido fluire. Erving Goffman fa della drammaturgia la metafora più potente e viva dei suoi studi: introduce livelli di interazione che definisce scena e retroscena, il momento sociale diventa una performance e l’attore sociale, l’individuo che si relaziona con la società, vero e proprio performer. Ma ciò che Goffman intuisce è la necessità del coinvolgimento e dell’empatia come prerequisiti a uno scambio attivo di informazioni, verbali e non. Nelle convenzioni occidentali sulla comunicazione, gli individui coinvolti utilizzano lo sguardo, la mimica facciale e l’espressività per mettere in atto i cosiddetti giochi di faccia: vere e proprie maschere connaturate nell’essere umano e attivate durante il momento della socialità.

I drughi di “Arancia Meccanica” (da https://www.dagospia.com/mediagallery/Dago_fotogallery-220063/760292.htm)

Maschera… di sala

E se le interazioni sociali richiedono una mimetizzazione “a volto scoperto”, basata sulle espressioni, altrettanto non si premura di fare il cinema che, in quel capitolo potenzialmente inesauribile che sono gli horror movies, decreta le maschere quasi come un topos inevitabile per ampliare il senso di spaesamento e di terrore. Succede nei grandi classici del genere, come “It”, “Non aprite quella porta” e “Venerdì 13”, per arrivare al recentissimo “Noi”, in cui la maschera altro non è che il volto dei protagonisti, ma duplicato e reso angosciante dalla presenza di doppelgänger.

Ma anche distaccandosi dal filone horror, la valenza della maschera nel cinema non è di opinabile importanza. Probabilmente, il nome di Stanley Kubrick è uno di quelli più facilmente ricollegabili alle maschere: in Rapina a mano armata centrale è quella da clown, i drughi di “Arancia Meccanica” ne indossano di molto inquietanti per compiere rapine e atti di “ultraviolenza”, mentre “Eyes Wide Shut”, l’ultimo film del cineasta americano (naturalizzato britannico), è pervaso da maschere degne del più grottesco dei carnevali di Venezia che diventano testimoni oculari – ora con espressioni inorridite, ora stupefatte o indifferenti – delle vicende allucinate. Una maschera su un cuscino suggella la fine di questi episodi tra onirico e reale, così come in un negozio di abiti di Carnevale si svolgono due delle sequenze più emblematiche del film, in cui agli occhi del protagonista si rivelano travestimenti, finzioni e falsità. Il rapporto tra Kubrick e la maschera potrebbe estrinsecarsi in innumerevoli accezioni, alcune – come si è visto – molto esplicite, altre, più allegoriche, come è tipico dello stile del regista. Del resto, i soldati che intonano la Marcia di Topolino nel finale di “Full Metal Jacket” sembrano quasi suggerire una sproporzione grottesca – come può essere solo quella di un travestimento esagerato – tra la puerilità e l’impreparazione (fuor di metafora, degli Stati Uniti) nei confronti della devastazione, della morte, delle atrocità. In una parola: del Vietnam.

Elephant Man

Ma sono innumerevoli i casi in cui cinema e serie tv hanno legato le loro sequenze più emblematiche alla presenza di maschere e travestimenti: il viso di Guy Fawkes impresso sulla maschera in “V per Vendetta”, quello occultato dell’“Elephant Man” di David Lynch, occultato da un sacco e un cappello, quello di Salvador Dalì che diventa inconsapevole protagonista dei piani per derubare la zecca di stato spagnola nella serie tv “La casa di carta”, o i volti degli ex presidenti statunitensi, che diventano maschere per celare l’identità dei rapinatori di “Point Break” (uno stratagemma diventato iconico, al punto da essere ripreso e riadattato in modo esilarante da Aldo, Giovanni e Giacomo in “Tre uomini e una gamba”, nella celebre scena in cui cercano di riappropriarsi della scultura di legno indossando le maschere di Pertini, Scalfaro, Cossiga e Iotti).

Maschere antigas della prima guerra mondiale (da http://riccardoravizza.com/index.php/articoli/prima-guerra-mondiale/45-la-maschera-antigas-mod-17)

Tante maschere, pochi volti

Maschera, però, significa anche protezione. Dagli agenti tossici, come dimostrano le maschere antigas, ad esempio, che sembrano discendenti dirette della maschera del medico della peste, inquietante e oscura come poche e a sua volta strettamente imparentata con l’omonimo personaggio della commedia dell’arte e del Carnevale veneziano. Ma non solo: una maschera è anche in grado di garantire protezione dall’ignominia: la stessa da cui, per secoli, ha cercato di sfuggire la figura del boia, facendo ricorso a un cappuccio che risulta curiosamente simile a quello di altre figure, tra di loro molto distanti, sia per intenti, che per collocazione geografica e temporale. Fa pensare ai membri del KKK, probabili eredi di un costume già utilizzato da templari e massoni ma, al tempo stesso, forti analogie si rintracciano anche negli abiti tradizionali degli aderenti ad alcune confraternite cattoliche dell’Europa meridionale.

Abu Ghraib

Così come, sempre lo stesso cappuccio, non può non evocare l’immagine dell’hooded man di Abu Ghraib. Una singola immagine di denuncia nei confronti delle violenze perpetrate dai militari statunitensi ai danni dei prigionieri durante la seconda Guerra del Golfo ma che, a causa della sua incredibile potenza visiva, estese il suo significato in modo molto profondo e reticolato, al punto da non essere più solo un documento di denuncia per orrendi crimini di guerra. L’immagine del prigioniero incappucciato diventò, infatti, riattualizzazione del sacrificio cristiano, della derisione e dell’esposizione del corpo del prigioniero allo scherno degli aguzzini. Ma non solo: diventò una freccia scoccata che, dall’antichità, arrivò a un presente – quello di inizi Duemila – già fortemente globalizzato, che accolse con sgomento la raffigurazione della sofferenza inferta a un uomo dai suoi simili.

L’hooded man era ritratto in fotografia, un medium a cui, nonostante la facilità di manipolazione, tendiamo a dare attendibilità e un enorme valore documentale. A differenza dell’iconografia classica, che dell’exemplum doloris ha fatto un fulcro narrativo necessario, e a differenza di opere d’arte come il gruppo marmoreo di Laocoonte in cui pure si evidenzia lo strazio dell’individuo, il caso di Abu Ghraib impressionava per due motivi: non c’era l’intercessione dell’artista ad allontanare lo spettatore dalla verità della scena a cui assisteva e, inoltre, la scena non era edulcorata dall’intervento della divinità e dall’affermazione del mito. Ci si trovava davanti non al verosimile, ma al vero: alla realtà che si apriva, come uno squarcio sul velo di Maya che smascherava la banalità del male.

La maschera di Davide Toffolo (da https://it.wikipedia.org/wiki/ Davide_Toffolo#/media/File: Davide_Toffolo_-_ Lucca_Comics_&_ Games_2015.JPG)

Giù la maschera!

Una maschera, però, nella sua accezione più comune continua a essere dissimulazione. Sin dall’antichità, infatti, sono state centinaia le personalità celebri che hanno protetto la propria identità con una nome d’arte, pubblicando scritti sotto falso nome, per proteggersi da attacchi politici, validare la propria opinione oltre possibili pregiudizi sessisti o, semplicemente per delle boutade artistiche e letterarie. Dalle sorelle Brontë – diventate i fratelli Bell – a Jane Austen, che rimaneva sul vago firmando le sue opere “by a lady”, per arrivare a Stephen King, John Le Carré, Agatha Christie, George Eliot, George Sand e J.K. Rowling. Anne Cécile Desclos, negli anni ’90 rivelò di essere stata Pauline Réage, l’autrice di Histoire d’O, mentre solo attorno al 1940 gli studiosi si resero conto che Louisa May Alcott, autrice del filone Piccole donne, aveva pubblicato, quasi cento anni prima, quattro racconti dell’orrore sotto falso nome. Altri casi di studio sono rappresentati dagli pseudonimi “stabili”, quelli che gli autori in questione avevano adottato non temporaneamente e con i quali hanno raggiunto la fama: come Alberto Moravia, Italo Svevo e Sibilla Aleramo.

C’è, però, un’ulteriore forma di maschera, un “caso particolare”, si potrebbe dire, che sembra coinvolgere e attirare l’attenzione in maniera esponenziale: l’anonimato. Il mondo dell’arte e dello spettacolo continuano ad esserne totalmente succubi: i misteri che si addensano attorno alla figura di Banksy dicono molto a riguardo, così come l’attenzione mediatica riservata, negli anni, a progetti musicali come Burial, Sia, Daft Punk e Slipknot, solo per citarne alcuni. Sul fronte italiano, sono stati numerosi gli artisti che hanno catalizzato l’attenzione di critica e pubblico (anche) in virtù del loro anonimato: probabilmente i più longevi sono i Tre Allegri Ragazzi Morti, band alternative rock che da oltre 25 anni si presenta in pubblico indossando maschere a forma di teschio disegnate dal poliedrico frontman Davide Toffolo (fumettista, oltre che musicista e cantante). O ancora, non si può non citare Niccolò Contessa che, nella prima fase del suo progetto di pop elettronico dal nome singolare de I Cani, si esibiva con in testa un sacchetto di carta, o il rapper Salmo che del suo travestimento dice in un suo brano «Questa maschera non mi nasconde, mi rivela». L’elenco potrebbe continuare ancora, ma ci si limiterà a citare due dei nomi più influenti in un panorama forse più di costume che musicale: M¥SS KETA, la “diva” creata dal collettivo artistico Motel Forlanini, che copre il viso con maschere e occhiali da sole scuri, e il rapper Junior Cally, da qualche giorno uscito con il suo nuovo album e una novità: il volto non più coperto dalla maschera antigas che aveva caratterizzato la sua carriera.

Napoli velata

E guardando all’Italia, un capitolo a parte meritano due dei casi più recenti ed eclatanti che hanno preso piede in modo quasi endemico: Elena Ferrante e Liberato. Non stupisce che, in entrambi i casi, lo sfondo geografico sia rappresentato da Napoli, culla del teatro popolare e terra natia di una maschera simbolo della cultura italiana: Pulcinella. Due ambiti – quello letterario e quello musicale – convergono in una spirale di attenzione mediatica e hype, con un’autrice (o un autore?) di best-seller e un rapper che del capoluogo campano fa il teatro delle vicende amorose cantate nei suoi brani.

Se di Elena Ferrante non risultano uscite pubbliche, neppure sotto mentite spoglie, lo stesso non si può dire di Liberato, che dal maggio 2017 si esibisce in concerti a cui accorrono migliaia di persone. La genesi di questo fenomeno è stata tanto semplice, quanto sapientemente architettata. Nel febbraio 2017 inizia a circolare il video, girato a Scampia, di una canzone che fonde tradizione neomelodica e trap e che desta subito la curiosità di molti. Di lì a breve, segue un altro singolo, che fa da preludio all’annuncio di un’esibizione live: il nome di Liberato compare sul cartellone del festival Mi Ami di Milano dello stesso anno. Quella che sarebbe dovuta essere la presentazione ufficiale al pubblico e che, di conseguenza, si pensava avrebbe potuto interrompere un anno di anonimato, si trasforma in un clamoroso scherzo. Sul palco compaiono altri cantautori, dj e interpreti, che cantano i brani di Liberato insieme al pubblico. Abortito il primo tentativo, necessario anche per avere la misura di un fenomeno nato e diffusosi sui social, quindi poco controllabile nella sua ricaduta reale, iniziano i concerti di Liberato, che si esibisce sempre a volto coperto. Sul suo conto, sono fiorite le più fantasiose e suggestive leggende: c’è chi sostiene sia un detenuto del carcere minorile di Nisida, chi invece il rapper Livio Cori, chi il cantautore Calcutta e chi, infine, il regista di videoclip Francesco Lettieri.

Forse Napoli suggestiona e incentiva la nascita di leggende metropolitane, ma bisogna ammettere che l’attenzione mediatica nei confronti di Liberato e Ferrante è stata sin da subito di proporzioni incredibili e non si è sgonfiata con l’andare del tempo: passato il momento “acuto”, l’interesse non si è affievolito e il pubblico continua a fantasticare su ipotesi e identità celate. Negli ultimi tre anni, poi, il Time ha inserito Elena Ferrante nella top 100 dei personaggi più influenti del 2016, la Rai ha deciso di produrre e mandare in onda una miniserie ispirata ai lavori della scrittrice sconosciuta e il Guardian l’ha assoldata come editorialista. E le identità attribuite al nome di Elena Ferrante si sono moltiplicate: dalla professoressa dell’università Federico II Marcella Marmo a Goffredo Fofi, passando per collaboratori della casa editrice E/O che pubblica i romanzi di Ferrante.

Questi due casi particolari fanno comprendere come il pubblico stenti a definire un confine tra sfera privata e pubblica: dunque, se nel momento in cui il personaggio pubblico è anche riconoscibile, allora la cosa non desta stupore; ma è lo scollamento dei due piani a generare un corto circuito. Come dimostrano le tesi fantasiose sulle possibili identità di Ferrante e Liberato, il pubblico digerisce con difficoltà l’idea di attribuire fama a un volto che non c’è.

«L’anonimato nel mondo degli uomini è meglio della fama in cielo» (J. Kerouac)

Insomma, quello che sembra emergere da queste vicende è che l’opinione pubblica, unitamente alla critica, pare non possa conciliare l’assenza di un volto con la definizione di “personaggio pubblico”. Il viso si deve conoscere e riconoscere, anche a costo di violare la volontà artistica, e soprattutto ignorando ingenuamente che l’anonimato può essere in grado di reggere un physique du rôle in un modo molto più convincente e carismatico di quanto possano fare alcuni volti.

In un contesto che prevede e quasi impone la sovraesposizione mediatica, l’affermazione del modello influencer, la copertura asfissiante della propria vita a mezzo social, allora la maschera diventa quasi un atto di ribellione. Certo: non di sottrazione alle suddette regole (insomma, non stupirebbe uno youtuber con il volto coperto); piuttosto, un’esasperazione di quegli stessi dogmi che decretano la celebrità, intesa come riconoscibilità immediata di un personaggio.

Tuttavia, da buoni predicatori che razzolano male – molto male! – gli utenti, fruitori nonché produttori di contenuti digitali, non ci pensano due volte a mistificare la loro identità, ricorrendo ai filtri della fotocamera dello smartphone, per presentarsi sui social con una maschera (quella ossessiva e imperante della bellezza) che corregge i difetti, ingrandisce gli occhi e le labbra, assottiglia il naso, leviga la pelle o… aggiunge un muso da cagnolino per fare delle foto buffe, sublimando la distanza tra social e socialità.

Letizia Annamaria Dabramo