Il 14 marzo scorso la II sezione della Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza di condanna emessa dal giudice di Tivoli nei confronti di Ercole Viri, sindaco di Affile, e degli assessori Giampiero Frosoni e Lorenzo Peperoni, per apologia del fascismo in relazione alla costruzione del mausoleo celebrativo di Rodolfo Graziani. Sono anche confermate le statuizioni civili tra le quali la condanna al risarcimento di 8.000 euro in favore dell’Anpi nazionale.

Ricapitoliamo la vicenda: Ercole Viri, sindaco di Affile, decide di costruire, a spese dei contribuenti, un mausoleo in onore del nativo più famigerato, Rodolfo Graziani. Un monumento al fascista e al criminale di guerra. L’Anpi promuove l’azione penale presentando una denuncia/querela alla Procura di Tivoli.

Il tribunale di Tivoli condanna per il monumento a Rodolfo Graziani il sindaco e due assessori di Affile: il primo cittadino a 8 mesi di reclusione, i due componenti della giunta a 6 mesi. Ercole Viri se la prende con i giudici di Tivoli: “una sentenza politica”. Ed è certo della vittoria in appello: “Guardi – dice al giornalista di Repubblica l’8 novembre 2017 – che questa è una condanna provvisoria. L’appello ci scagionerà. Stravinceremo. Basta lasciare Tivoli”. Oggi la conferma della condanna.

Ma chi era Graziani? Lo storico Claudio Vercelli ha disegnato un suo ampio profilo per Patria Indipendente.

Redazione

 

Rodolfo Graziani

“Ecco un altro uomo con quale non posso arrabbiarmi perché lo disprezzo”

Benito Mussolini nei confronti di Rodolfo Graziani secondo il Diario di Galeazzo Ciano, in data 25 dicembre 1940

 

La figura di Rodolfo Graziani (1882-1955) attraversa la prima metà del Novecento. Poiché di questo ampio lasso di tempo – che conta in sé l’assestamento dello Stato liberale prima, la sua crisi poi, l’affermazione del regime fascista, il suo consolidamento, l’apoteosi come il suo catastrofico declino, fino alla tragedia dei seicento giorni della Repubblica sociale italiana – ne fu un protagonista attivo. In mezzo si collocano due guerre mondiali, ossia un arco di eventi, di relazioni e di individui, tra il 1914 e il 1945, che definiscono quella che in una parte della storiografia è stato riqualificata come la «Seconda guerra dei trent’anni». Per intenderci, la prima, intercorsa tra il 1618 e il 1648, sconquassò l’Europa di quei tempi. Il violento conflitto si concluse con la pace di Vestfalia. Gli eventi bellici modificarono significativamente il precedente assetto politico delle potenze europee. Cose similari, evidentemente, posso allora essere dette riguardo all’arco di tempo in cui ebbe modo di operare Graziani. Il quale si conquistò il ruolo che poi avrebbe recitato nel fascismo, e per il fascismo, partendo dalla “gavetta”. A modo suo, espressione di quel fenomeno di mobilità sociale, ossia di promozione a ruoli di rilievo nella società, di cui il regime mussoliniano seppe farsi interprete a beneficio dei suoi sodali.

Figlio di un medico, originariamente orientato verso studi religiosi, poi interrotti, si rivolse quindi alla vita militare. Non ebbe la possibilità economica di frequentare quelle che erano le fucine dell’ufficialità, la scuola militare napoletana della Nunziatella e l’Accademia di Modena, dovendo invece svolgere il servizio di leva in un’unità di selezione e addestramento di futuri ufficiali in ruolo subalterno. In tale funzione, frequentò il corso allievi ufficiali di complemento al 94° reggimento di fanteria di Roma; il 4 aprile 1903 fu promosso caporale, il 4 luglio sergente, il 1° maggio 1904 sottotenente. Datano a quegli anni, le sue presunte simpatie socialiste, comunque ben presto accantonate. L’istituzione militare, in tutte le sue diramazioni, era peraltro pervasa non solo da un rigido spirito di corpo ma anche da idee conservatrici che, nella sostanza, stavano sempre più spostandosi verso la destra illiberale. Una decina d’anni prima dell’inizio della Grande guerra Graziani divenne ufficiale effettivo del Regio esercito. Già assegnato al 92° fanteria, di stanza a Viterbo, vinse poi il concorso per diventare ufficiale in servizio permanente effettivo e, per la sua alta statura, fu destinato al 1° reggimento granatieri di Roma. Nell’ottobre 1906 si trasferì a Parma per compiervi il corso superiore presso la Scuola di applicazione di fanteria.

Nel 1908, essendo destinato – per sua stessa sollecitazione, non sopportando la vita di caserma così come l’onerosità economica impostagli dalla residenza in Roma – alla missione militare in Eritrea, ebbe modo di imparare la lingua araba e poi quella tigrina. Anche per questa ragione iniziò a disegnarsi la fama di un esperto delle questioni africane, elemento che poi avrebbe contribuito alla sua futura carriera. La quale proseguì con la mancata partecipazione, essendosi nel mentre ammalato di malaria, alla guerra italo-turca del 1911-1912, il conflitto che avrebbe originato la moderna Libia. Un luogo – quest’ultimo – dove comunque fu stanziato per un primo tempo nel 1914. Ritornato in Italia, partecipò attivamente alla Prima guerra mondiale, che terminò con il grado di colonnello, un buon risultato per un ufficiale ancora giovane, che non proveniva dai ranghi dell’Accademia.

Le belve e la preda: Omar al-Muktar on catene prima dell’impiccagione (da https://it.wikipedia.org/wiki/Il_leone_del_deserto# /media/File:Omar_Mokhtar_arrested_by_Italian_Officials.jpg)

La Libia e l’impiccagione di Omar al-Muktar

In Libia ci tornò nel 1921 (rimanendoci poi per ben tredici anni), incaricato di domare la ribellione delle popolazioni locali, incalzate dalla Senussia, e di estendere il controllo italiano dalle zone litoranee a quelle interne della Cirenaica e della Tripolitania. In tali vesti servì i governi liberali di Bonomi e Facta e poi quello fascista di Mussolini. Grazie ai risultati ottenuti, basati sull’applicazione di una concezione – già sperimentata sui campi di battaglia della Grande guerra – di costante movimento alla quale destinava la truppa (con il supporto della cavalleria locale, composta da reparti indigeni), altrimenti adibita a meri competi di presidio, a 48 anni fu nominato vicegovernatore della Cirenaica. Anche in tali vesti, perfezionando le sue tecniche di direzione e comando delle «unità mobili» nelle quali aveva riorganizzato un considerevole numero di unità del Regio esercito, proseguì nella repressione delle sollevazioni anti-italiane. Così afferma Domenico Quirico: «Aveva intuito la strategia giusta per battere la guerriglia che ci aveva angosciato per vent’anni: mobilità, rapidità negli spostamenti, bisogna essere più veloce del nemico, non dargli tregua, arrivare sempre prima di lui. E gli ascari eritrei e libici, i meharisti e la cavalleria indigena servirono perfettamente allo scopo; integrati nelle “colonne mobili” diedero un apporto fondamentale alla repressione della rivolta libica, grazie alle autoblinde, ai camion, all’aviazione che consentivano di spingersi nel cuore dei santuari nemici dove fino ad allora l’asprezza del deserto aveva fermato perfino l’impeto degli àscari» (in Lo squadrone bianco, Milano, Mondadori, Le Scie, 2002, pp. 309-310).

Data a quegli anni il sodalizio competitivo, basato su una costante collaborazione, a tratti compiaciuta, altre volte sospettosa, con Pietro Badoglio, tra i molti generali italiani senz’altro il maggiore dei fiduciari della Corona. L’azione italiana di controllo del territorio e di distruzione delle “bande” di insorti autoctoni si basava anche sul trasferimento coatto di una parte della popolazione civile in campi di internamento, per tagliare completamente i rapporti tra il partigianato cirenaico e il suo milieu civile e sociale. Le drastiche misure intraprese, come l’impietosa deportazione di massa delle comunità del Gebel (tra il 1929 e il 1931), che comportò il trasferimento coatto e la detenzione amministrativa di circa centomila cirenaici in tredici campi situati nelle regioni arse e inospitali della Sirtica, ottennero l’effetto desiderato. Mentre la resistenza locale si affievoliva (fino alla cattura e all’impiccagione del suo leader, l’imam e «sceicco dei martiri» Omar al-Muktar, il 16 settembre 1931), la popolazione si ridusse considerevolmente, perdendo un terzo dei suoi componenti a causa, perlopiù, delle miserande condizioni in cui era stata obbligata. La stessa struttura civile, sociale ed economica autoctona, piegata agli interessi della colonia italiana, ne risultò completamente alterata. In quello stesso periodo Rodolfo Graziani fece erigere un reticolato di confine della lunghezza quasi di trecento chilometri per separare la Cirenaica dall’Egitto. Nel deserto libico, in quegli anni, il transito di armi, munizioni, viveri così come di rivoltosi era una cosa abituale. Mai l’Italia riuscì peraltro a garantirsi il totale controllo dei territori unificati sotto la sua presenza coloniale.

Una stele per ricordare il massacro voluto da Graziani del monastero copto di Debra Libànos in Etiopia (da https://bottegadinazareth.com/2017/05/23/80-anni-fa-la-strage-di-debre-libanos-in-etiopia-quando-i-martiri-sono-gli-altri-e-noi-i-persecutori/)

L’Abissinia, l’iprite e il fosgene

Nel 1934 Graziani lasciò la Libia per andare a comandare le operazioni militari contro l’Abissinia. A quel punto, la fama di comandante abile e tatticamente scaltro, capace di affrontare non solo una guerra “africana” ma anche e soprattutto mobile (di contro alla dottrina ancora prevalente tra il Regio esercito, che privilegiava la stanzialità o la mobilità rallentata), si era definitivamente consolidata. Così lo raffigura Angelo Del Boca, tra i massimi studioso del colonialismo italiano: «a ogni conquista si rinsaldava la fama del Graziani, astro nascente nel firmamento coloniale libico. Una fama che il fascismo, in cerca di consensi e di nuovi miti, aveva tutto l’interesse a consolidare, anche se le penne compiacenti che già paragonavano il Graziani a Publio Cornelio Scipione l’Africano avevano chiaramente oltrepassato la misura. Lo stesso Mussolini teneva d’occhio il giovane generale, nel quale individuava quelle qualità di fierezza e di audacia che egli attribuiva all’italiano nuovo, rigenerato dal fascismo […]. A meno di cinquant’anni era l’ufficiale più celebrato in Italia, godeva della protezione di De Bono, diventato nel frattempo ministro delle Colonie, ed era ora alle dirette dipendenze del maresciallo Badoglio, nuovo governatore della Libia» (così nell’Enciclopedia Treccani online, all’omonima voce).

L’azione di combattimento di Graziani (e del suo sodale, superiore e competitore Badoglio) iniziò quindi ad avvalersi del ricorso ai gas asfissianti. Il ricorso all’iprite, al fosgene e a sostanze altrimenti vietate dalla Convenzione di Ginevra del 1925, fu autorizzato dallo stesso Mussolini (che in pubblico, tuttavia, negò tale circostanza, benché la documentazione archivista comprovi insindacabilmente l’esatto opposto). La vicenda della gassazione all’aperto di combattenti e civili da parte delle regie forze armate costituisce un capitolo a sé di una guerra di conquista che sommava già tutti gli elementi dell’azione criminale: deportazione dei civili, violenze sistematiche contro gli inermi e gli indifesi, ricorso ad armi proibite, distruzione della cultura locale (etnocidio), negazione se non omissione dell’evidenza. A riscontro della cattiva coscienza italiana è sufficiente rimandare allo stesso Graziani quando, alcuni anni dopo, nella redazione di un suo memoriale in forma di libro intitolato «Fronte Sud», sostenne che il ricorso a misure e ad armi non convenzionali fosse motivato esclusivamente dalla necessità di dare seguito alle rappresaglie contro le atrocità attribuite agli avversari (tra di esse, la tortura dei prigionieri italiani e l’evirazione dei cadaveri).

Se nel 1932 era già stato promosso a generale di corpo d’armata e due anni dopo a generale d’armata (il grado più elevato nel Regio esercito), nel 1936, infine, fu nominato Maresciallo d’Italia (nonché marchese di Neghelli), carica condivisa con pochi altri esponenti dell’élite militare. Divenuto quindi vicerè d’Etiopia, in sostituzione di Badoglio, continuò ad adoperarsi nella durissima repressione della resistenza autoctona così come nell’edificazione (grazie anche all’abbondante disponibilità di manodopera locale e di materia prima a basso costo) di edifici pubblici e villaggi che avrebbero dovuto concorrere all’opera di definitiva colonizzazione del territorio dell’Africa orientale italiana. La resistenza autoctona, tuttavia, era ben lontana dall’essere domata. In questo quadro, per nulla idilliaco, si inserì quindi l’attentato, con il conseguente ferimento, che Graziani subì il 19 febbraio del 1937, durante una manifestazione pubblica ad Addis Abeba. La rappresaglia che ne derivò nei giorni successivi avrebbe portato ad una serie di eccidi, con la morte – mai definitivamente accertata nell’esatto numero – di migliaia di etiopi. Peraltro le violenze proseguirono nelle settimane e nei mesi successivi, con l’uccisione di una parte del clero copto, considerato ispiratore e corresponsabile del colpo di mano contro il vicerè. Solo la nomina del Duca d’Aosta, nel novembre del 1937, al posto di Graziani (già soprannominato «macellaio d’Etiopia»), nel mentre ristabilitosi dalla lunga degenza e dalla convalescenza, diminuì l’intensità (e la gratuità) delle violenze.

Erwin Rommel

La sconfitta

Ritornato in Italia, ad Arcinazzo Romano, quando nel 1938 sottoscrisse il «manifesto della razza» contro gli ebrei, divenne quindi capo di stato maggiore dell’Esercito. In realtà, la carica – mal congegnata per un militare d’azione qual era – lo consegnava a dipendere da Badoglio e da Vittorio Emanuele III, nei confronti dell’operato dei quali nutriva crescenti perplessità che, verso il primo, si trasformavano ben presto in una malcelata avversione. Per Graziani, dopo l’intesa pressoché perfetta in Libia e quella maggiormente aggressiva in Etiopia, l’approssimarsi della guerra comportò infatti l’apertura di un sordo conflitto politico sempre più evidente con Badoglio, accusato di nascondere a Mussolini il vero grado di assoluta impreparazione del Regio esercito. Con l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale fu quindi inviato da Mussolini in Libia, in sostituzione di Italo Balbo, nel mentre ucciso dalla contraerea italiana sui cieli di Tobruk. Oltre a diventarne governatore avrebbe quindi dovuto invadere l’Egitto, scalzando i britannici. Benché il presidio italiano fosse numeroso di uomini e quindi di molto superiore a quello inglese, difettava tuttavia della mobilità e di una logistica in grado di tenere il passo negli spostamenti in aree perlopiù desertiche e ad ampia estensione. Gli avversari, inoltre, si rivelarono da subito abilissimi nel condurre una guerra di movimento, sfibrando sapientemente i reparti italiani.

Dopo la prima avanzata seguì quindi la controffensiva inglese che travolse le truppe italiane. Graziani, che dirigeva le operazioni da un posto di comando lontano più di cento chilometri dalla linea del fronte, si rivelò incapace di fare fronte alle truppe inglesi, comunque ben addestrate, rifornite, attrezzate e motivate. Nel febbraio del 1941 la Cirenaica risulta quindi totalmente perduta e con essa almeno centomila militari con i rispettivi equipaggiamenti pesanti. Dinanzi al rischio che anche la Tripolitania finisse in mani inglesi intervenne il corpo di spedizione tedesco, l’Afrika Korps, comandato dal generale Erwin Rommel. Da quel momento, gli italiani furono di fatto subordinati, tatticamente e strategicamente, alla volontà e ai calcoli di Berlino. Graziani, sull’orlo del tracollo emotivo, dopo una serie di patetici e retorici messaggi rivolti ad un Mussolini sempre più adirato, fu richiamato in Italia, venendo quindi sottoposto all’indagine di una commissione appositamente nominata per analizzare il succedersi degli eventi (ma in realtà incaricata di esautorarlo, essendo inviso oramai a diversi gerarchi fascisti, a partire da Roberto Farinacci). Il risultato, tuttavia, fu un nulla di fatto.

Da https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_della_ renitenza_alla_leva_in_Italia#/media/ File:Pena_di_morte_ai_disertori.jpg

Il ministro delle Forze Armate della Rsi

Rodolfo Graziani sembrava comunque a quel punto avere terminato il suo impegno di comandante militare, vivendo perlopiù ad Anagni, nel frusinate, in una sorte di esilio in patria. Il suo ritorno sulla scena fu segnato dal tracollo militare dell’8 settembre 1943. Anche se in origine pare avesse manifestato qualche reticenza, all’atto di divenire ministro della Difesa nazionale (poi, dal gennaio del 1944, ministero delle Forze armate), già nel primo autunno di quell’anno, avviò la pratica di firmare ripetutamente bandi di arruolamento obbligatorio che prevedevano l’incorporazione delle leve giovanili comprese tra il 1920 e il 1926 (ed infine anche di quelle nate dal 1916) nei reparti della Repubblica sociale italiana, di fatto al servizio esclusivo del «camerata germanico». L’inadempienza dell’obbligo era sanzionata dalla fucilazione dei renitenti.

Nei fatti Graziani si impegnò per contrastare quelli che per lui erano i due maggiori pericoli ai quali erano sottoposte le milizie repubblichine: la dispersione in una serie di gruppi in competizione tra di loro (e completamente incapaci di contrastare militarmente gli avversari) e la loro politicizzazione attraverso l’azione del Partito fascista repubblicano. Il maresciallo d’Italia era consapevole della completa dipendenza dalla Germania, da tutti i punti di vista, ma cercava di sottrarre al segretario del partito Alessandro Pavolini la discrezionalità che quest’ultimo cercava invece di garantirsi. Solo con l’estate del 1944, quando fu sanzionata formalmente, con un decreto di Mussolini, la nascita di un unico esercito nazionale repubblicano, Graziani poté considerarsi soddisfatto. Anche se il “suo” esercito, a quel punto, era ridotto a ben poca cosa, senza nessuna reale capacità operativa. Da una parte i tedeschi non intendevano offrirgli alcuna autonomia, diffidando degli italiani in generale e dei fascisti in particolare. L’obiettivo strategico di Berlino era di tenere lontani dai confini del Reich (corrispondenti al Brennero), gli angloamerciani. Dall’altro, l’effetto dei bandi di arruolamento (in parte preventivato dallo stesso Graziani) era stato quello di incrementare la renitenza, le diserzioni tra gli stessi incorporati e, più in generale, la capacità offensiva del partigiano italiano.

Operativamente Graziani rivestì tra il 1944 e il 1945 il ruolo di comandante delle armate repubblicane (comprese prima nell’«Armata Liguria», e poi nel «Gruppo Armate» che operava sulla linea Gotica). La veste formale era quella di un capo militare, quella reale era di esecutore, molto ai margini, della volontà tedesca. Nella seconda metà di aprile del 1945, quando lo sfondamento della linea del Po da parte degli Alleati e l’azione partigiana nelle aree urbane decretarono il tracollo della pencolante Rsi, Graziani si assicurò di potersi consegnare agli americani attraverso la mediazione dei servizi segreti di Washington. Fu quindi considerato prigionieri di guerra, recluso a Roma, in Algeria e poi, infine, a Procida, quando venne consegnato alla giustizia italiana. Quella che gli americani offrirono all’oramai ex Maresciallo d’Italia fu non solo la protezione della vita da pressoché certe ritorsioni, essendo considerato diretto corresponsabile delle condotte della Rsi, ma anche dalle ripetute richieste di incriminazione come criminale di guerra, avanzate dalle autorità etiopiche.

Graziani nella vecchiaia (da https://it.wikipedia.org/wiki/Rodolfo_Graziani)

La condanna senza pena e il Msi

Un robusto velo di calcolate tutele, giocate sul piano politico e diplomatico, impedì a Graziani di dovere rispondere delle sue responsabilità in Africa. Un processo si aprì, invece, nell’ottobre del 1948 dinanzi alla Corte d’assise straordinaria di Roma per ciò che concerneva il suo ruolo nei seicento giorni della Repubblica di Salò. Tra alterne vicende, come il trasferimento del procedimento ad un tribunale militare, Graziani fu condannato a diciannove anni per «collaborazionismo», vedendosene però condonati la maggior parte. Da ciò, la liberazione che seguì nei mesi successivi alla pronuncia stessa della sentenza. Nei fatti l’imputato fu generosamente giudicato come incapace di incidere per davvero sulle scelte politiche di fondo della Rsi. Nel 1952, infine, poco prima della sua morte avvenuta tre anni dopo, entrò nel Movimento sociale italiano di cui poi fu nominato presidente onorario.

Ciò che resta di Graziani, sul piano storico come soprattutto su quello storiografico, è la figura di un militare privo di effettiva autonomia, dotato di alcune competenza tattiche, senz’altro ispirato dalle moderne dottrine di combattimento ma incapace di elaborare una strategia di ampio respiro, cosa che invece fu interpretata, e con efficacia, da altri protagonisti della scena bellica, che fossero tedeschi o angloamericani. Irrisolto risultò poi il rapporto con Badoglio, al quale lo legava prima una reciprocità e poi un’insofferenza cortesemente ricambiategli. Quest’ultimo, tra i veri registi dell’Italia in guerra, artefice di primo piano di tutte le vicende più importanti del Paese, soprattutto dal 1943 al 1945, poté sempre e comunque contrapporre a Graziani il suo pedigree monarchico. Mentre Graziani, che non poteva vantare una diretta filazione fascista tale da contrastare la forza del primo, dopo esserne stato un fedele e zelante esecutore, si trovò a dovervi frizionare ripetutamente. Peraltro di Mussolini fu comunque un estimatore (dopo il 1940 non ricambiato), applicando tutte le dottrine di controllo del territorio che questi andava proponendo, soprattutto all’atto della costruzione dell’«impero». La sua attività ai tempi della Repubblica di Salò fu sospesa tra l’attivismo vuoto e irresponsabile di chi si trovava a recitare il ruolo di marionetta in mano ai tedeschi, e la funzione notarile di esecutore delle mortifere volontà dell’ultimo fascismo. Non pagò comunque, per l’una e l’altra cosa.

Claudio Vercelli, storico, Università cattolica del Sacro Cuore