Giovanni De Luna

 Nell’agosto del 2004, in una Parigi in festa per il 60° anniversario della Liberazione, Jacques Chirac colse l’occasione delle celebrazioni per un discorso dal forte significato politico: utilizzò il ricordo dello sbarco in Normandia per riannodare i suoi rapporti con gli Usa, dopo la guerra irakena; quello dello sbarco in Provenza, per un’abile operazione diplomatica con il conferimento della Legion d’onore alla città di Algeri, capitale della Francia Libera nel corso della guerra; quello della città di Parigi, per chiamare il Paese a unirsi contro i rigurgiti di razzismo e di antisemitismo. Fu uno di quei discorsi che si incontrano frequentemente nell’arena dell’uso pubblico della storia, tutto declinato al presente e tutto legato alle ragioni del presente. Ma quello che ancora oggi lo rende interessante è che, a un certo punto, Chirac, affrontando il tema della memoria condivisa, dopo aver ribadito la sua netta scelta di campo (la Francia di De Gaulle sì, quella di Vichy no), indicò una dimensione diversa, non direttamente politica, al cui interno i francesi avrebbero potuto ritrovarsi tutti insieme, evocando con grande partecipazione emotiva il “tempo di guerra”, un’esperienza vissuta “sotto” Vichy, “sotto” l’occupazione straniera, in tutta la Francia, segnata dalla convivenza con la paura, la morte, con l’incubo di una guerra totale in grado di snidare le singole esistenze dalle loro nicchie particolaristiche per precipitarle tutte insieme in un grande crogiuolo di sofferenze e di privazioni.

Mi stupisce ancora oggi come quel discorso sia stato allora praticamente ignorato dal dibattito politico italiano che pure, proprio in quegli anni, sul tema della memoria condivisa si esercitava assiduamente, soprattutto per gli sforzi del presidente Ciampi e – su un altro versante – per la robusta spinta di un revisionismo particolarmente aggressivo. Nessuno dei protagonisti di quel dibattito si accorse, infatti, di come “il tempo di guerra” presentasse tratti profondamente unitari anche per gli italiani, quali ne fossero state le collocazioni geografiche o le appartenenze politiche, sia che fossero “sotto” la Rsi, o “sotto” il Regno del Sud, sia che fossero per la Resistenza, sia che fossero contro gli angloamericani. Nei cinque anni dal 1940 al 1945 molte delle “fratture” più tipiche della nostra storia nazionale, (Nord/Sud, città/campagna, centro/periferia) trovarono una loro momentanea ricomposizione all’interno di un’esistenza collettiva le cui coordinate si presentavano con una straordinaria uniformità, ripetendo dal Sud al Nord un percorso scandito dalla paura, dalla fame, da uno straordinario “affidamento” al divino, da una strenua voglia di vivere, dall’esperienza “tellurica” dei bombardamenti, da quella carica di orrore delle stragi e delle rappresaglie naziste, dal complesso di una “guerra totale” diventata per tutti una guerra sull’uscio di casa.

Diciamolo francamente. Una memoria condivisa che tenga insieme la Resistenza e la Repubblica sociale è impossibile e nemmeno auspicabile. Il tentativo di mettere nello stesso calderone Cefalonia e el Alamein, la Resistenza e i “ragazzi di Salò”, le foibe e i lager, ha prodotto solo guasti. Il “patto di memoria” su cui si fonda la nostra religione civile e che ci aiuta a sentirci cittadini dello stesso Stato è stato reso più debole e inefficace da una deriva che ha caratterizzato tutto il ventennio della Seconda Repubblica. Nel segno della compassione per le vittime (“i morti sono tutti uguali”), lo spazio pubblico della politica è stato invaso da una memoria avvinta dall’emozione e assorbita dalla sofferenza, una memoria in cui tutte le vittime sono sullo stesso piano, in cui si smarriscono i valori fondanti delle virtù civili. Scegliere di tenere il fascismo e i suoi eredi fuori dal nostro “patto” di cittadinanza, vuol dire assumersi la responsabilità di una scelta. Proprio quello che fece Chirac.

Per i fascisti di Salò possono esserci il rispetto e la considerazione che si debbono a tutte le memorie private. Nient’altro. Non è questione di vittime, né di carnefici. Semplicemente i valori della nostra Costituzione si imposero contro il fascismo, recepirono le spinte più innovative della Resistenza, riunirono gli italiani in una comunità fondata sull’inclusione e sulla democrazia contro i pilastri di un regime fondato sull’esclusione e sulla dittatura.

Ma anche se si sceglie il ricordo unificante del “tempo di guerra”, non si può prescindere dal rapporto diretto che si stabilì allora tra il rifiuto del totalitarismo, dopo il suo fallimento nella gestione della guerra, e la scoperta della libertà.

Riconsegnare al vissuto e all’esperienza collettiva di tutti gli italiani il paradigma di fondazione della nostra Repubblica indica comunque come elemento di legittimazione del nostro patto di memoria “il popolo dei morti” evocato da Piero Calamandrei (“di quei morti che noi conosciamo uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e sulle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti..”); presentato non più nella dimensione “vittimaria” dell’innocenza e della inconsapevolezza, ma come fonte attiva a cui attingere i lineamenti della nostra religione civile.

 Giovanni De Luna, storico