Albertina Soliani e Aung San Suu Kyi

Sono tornata una settimana fa dalla Birmania, tornerò là il 17 novembre. Tutto è così naturale, finché la vita mi sostiene. L’amicizia è condivisione, specialmente nei momenti difficili. E oggi la Birmania ha tutto davanti a sé, lo sviluppo, la democrazia, la pace.

Aung San Suu Kyi mi aspettava. Mi ha parlato a lungo, mi aveva anche chiesto di organizzazioni non governative italiane disposte ad aiutare le popolazioni del Rakhine State, oggi il luogo più caldo, al confine con il Bangladesh: i rohingya, gli indù, i buddisti. Poveri e da sempre in conflitto. Va sulla fiducia.

Era con me Virginia, interprete non solo delle parole ma dell’anima del suo Paese. Portavo con me la pena della voce dell’Occidente, dura con lei. Volevo capire, non mi era mai bastato quello che i media dicevano, sotto c’era dell’altro. Ho sperimentato che il mondo e i problemi si vedono in modo diverso a seconda del luogo in cui sei. L’orizzonte è sempre più largo. Là ho capito, su quel dramma, che vi sono intrecciate regie diverse. La regia dei militari, tesa a indebolire lei e il suo governo, a legittimarli di nuovo come i salvatori. La regia dei terroristi, del gruppo Arsa, impegnato a tenere aperto il conflitto, forse con l’obiettivo di costituire là uno stato islamico, usando i rohingya contro l’esercito e spingendoli in Bangladesh sotto la minaccia delle armi. Uccidono, incendiano, è stata trovata una fossa comune di un centinaio di indù. C’è la regia dei Paesi occidentali, certo solidali con i musulmani vittime dell’ondata di violenze, senza patria da secoli, ma anche interessati, con una campagna senza sosta, a delegittimare Aung San Suu Kyi, a colpirne l’immagine sul punto più esposto: i diritti umani. Il fatto è che si aspettavano da lei, una volta andata al potere, che aprisse il Paese ai loro interessi, che fosse un baluardo contro la Cina. Questo non è accaduto, non poteva accadere. Mi ha detto Thant Zin: lei non è stupida. E allora si può togliere, con un gesto simbolico e plateale, il suo ritratto da Oxford, demolirne l’immagine. Davvero il denaro, il potere, le armi pretendono di governare il mondo, passando sopra in un baleno la verità delle cose e delle persone. Con i media al loro servizio, perfino con le notizie false. E Aung San Suu Kyi? Sa tutto, la debolezza politica dell’Occidente, con il ruolo dell’informazione e il condizionamento del consenso, gli interessi e le convenienze, l’incognita del terrorismo. Temevo fosse provata. Mi ha accolto con queste parole, come vi ho detto a caldo: Albertina, sei pronta a correre?

Sta accelerando. Il tempo è breve, i rischi sempre in agguato. Con forza e fiducia, con grande vicinanza ci ha raccontato la sua strategia. Percorre il sentiero stretto che le è consentito, sostenuta dal suo popolo. E dai suoi vicini, la Cina, il Giappone, l’India, la Corea del Sud, l’Australia. Dopo il Rapporto di Kofi Annan, che aveva scelto subito come guida per il Rakhine, ha dato vita a Union Enterprise for Humanitarian assistance, Resettlement and Development in Rakhine (Uehrd). Da lei presieduta.

Per realizzare tre obiettivi: il ritorno dei rohingya, l’aiuto umanitario e l’assestamento della popolazione, lo sviluppo. Se entrano nel territorio i civili, le istituzioni, gli aiuti internazionali, forse si restringe il campo del conflitto. Di questo ho parlato con i miei interlocutori, e della responsabilità di fronte a sé e al mondo che oggi investe per la prima volta nella sua storia il Myanmar. Il giorno dopo il nostro incontro Aung San Suu Kyi ha visto gli industriali del suo Paese, ha detto che toccava a tutti nel Myanmar contribuire per aiutare il Rakhine. La risposta è stata molto forte, hanno fiducia in lei.

Un gruppo di Rohingya (da http://www.theshillongtimes.com/wp-content/uploads/2017/09/Rohingya-1.jpg)

Ho incontrato il Chief Minister U Phyo Min Thein e la Ministra Nilar Kyaw, appena rientrata dal Rakhine. Nella grande casa che è stata la residenza di Ne Win, il primo dittatore. Ho pensato a Giuseppe. Avevano desiderio di parlare, di ascoltare.

Il Myanmar, appena venuto al mondo dopo il dominio coloniale e il regime dittatoriale, si è trovato nella bufera. Mentre la democrazia è solo un germoglio e tutto è possibile.

Eppure lavorano prendendosi cura delle cose, pensano di potercela fare con la guida di Aung San Suu Kyi. Che vede più di tutti le sfide e i rischi, eppure apre la strada a tutti.

È l’unità del Paese, compresi i militari. Me lo ha detto Phyu Phyu Thin, una sera nella sua casupola di parlamentare a Naypyidaw, una stanza divisa da un armadio, c’erano sua mamma, sua sorella, una collega.

Quando siamo arrivati in Birmania era stato arrestato il figlio di un Ministro del governo precedente, trafficava in armi. Mentre eravamo là, c’è stato un grande incendio in un grande albergo storico, lì c’eravamo fermate a prendere un caffè qualche giorno prima. Forse l’incendio copriva traffici di armi. Tutto il mondo è paese, ma là è un paese speciale. La corruzione, i conflitti, la violenza convivono con la non violenza e il sogno di pace.

Ho incontrato il Ministro dell’Industria Aung Kyaw Zan e ho capito meglio l’interesse per il vetro. La Birmania di vetro, non di plastica, è il Paese che vogliono costruire, il sogno di bellezza di Aung San Suu Kyi. Forse l’ha pensato a lungo, dice Virginia, da quando era agli arresti. Ho visto il piano dei nuovi grattacieli di vetro di Yangon. Ho immaginato la lastra a colori di vetro soffiato di Michele Canzoneri, forse sarebbe l’unica in Asia. Il Ministro ama il design italiano, guarda all’Italia nonostante gli investimenti dei vicini asiatici. Spero che possa venire in Italia. Le loro industrie sono ferme da anni.

Ho incontrato i docenti della Facoltà di Medicina in rapporto con l’Università di Parma, e i medici di base della G.P. Society, e la dottoressa Wha Wha del Centro delle cure palliative, appena all’inizio. È invitata a Parma a marzo.

L’hotel Max a Naypyida in Birmania (da https://images.trvl-media.com/ hotels/18000000/17440000/ 17436700/17436623/f325aef3_y.jpg)

Ho parlato a lungo con Thant Zin, ho condiviso i suoi pensieri politici. Andrà presto a Sittwe, nel Rakhine, per fare un laboratorio di dialogo tra le religioni e le culture con gli insegnanti. A Rangoon accade anche che lo puoi incontrare per caso al ristorante Ko Tar, in una città di quattro milioni di persone. Oppure, all’Hotel Max di Naypyidaw, a colazione, ti può avvicinare una signora australiana, lì per insegnare inglese e comportamenti nuovi alle forze di polizia, e ti chiede: lei è qui per il Monaco? (un famoso monaco buddista che è lì per incontrare gli adepti). Rispondo no, per Aung San Suu Kyi. Incredula e raggiante. Aung San Suu Kyi è il suo Paese, la senti ovunque. Incontro lì un giovane medico, Than Zoe, di G.P. Society, vuole aiutare da cittadino lei e il suo Paese, sta elaborando progetti di sanità.

Aung San Suu Kyi è una forza spirituale, checché ne dicano i media occidentali. Che peraltro di spirito si intendono poco. E così questa parte del mondo, la nostra, rischia di perdere l’anima e il resto. Una grande pena.

Attendono con speranza la visita del Papa a fine novembre. Incontrerà la spiritualità di Aung San Suu Kyi, loro si intendono. Così affrontano le sofferenze del mondo. Dopo credo che niente sarà come prima.

Una sera, a Rangoon, sulla riva del lago Inja, ci siamo uniti alla preghiera interreligiosa di centinaia di persone: buddisti, musulmani, indù, cristiani. La spiritualità in Asia sarà una componente potente del mondo di domani. Insieme alla loro popolazione giovane, e all’economia della Cina.

Con la famiglia di Virginia e altri amici, e Thura, siamo stati alla Pagoda Swedagon, abbiamo acceso centinaia di luci. Un altro modo per dire la speranza. Thura a terra inchinato davanti al Budda, nella sera. Il suo piccolo Sithu Giuseppe cresce molto bene.

Tornerò là presto, a metà novembre e fino alla fine del mese. Compresa la visita del Papa. Per condividere con loro.

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Il 18 novembre ALMA di Colorno porterà là la Settimana della Cucina Italiana. Proprio in questi giorni è uscito il libro che ne racconta il sogno avverato di Albino Ivardi Ganapini. Grazie, Albino, di avere portato Parma e l’Italia nel mondo con ALMA. Anche in Birmania, formando Ye Ko, oggi capo cuoco in un ristorante sul golfo del Bengala nel sud del Rakhine. Verranno anche Leo Sarli e Clelia D’Apice per partecipare al Congresso di G.P.Society e costruire rapporti di collaborazione. Verrà Alberto con qualche imprenditore interessato a operare in Myanmar. Verranno amici di Bergamo, anche per incontrare là il Papa. E a novembre partirà Caterina, per un anno di ricerca su Hiv e disabilità per la Bicocca di Milano. A febbraio Sabrina, che di professione fa consulenza e certificazione dei sistemi di gestione nel settore agro-alimentare, per tre mesi andrà in Birmania dai contadini per consigliarli sulla produzione di qualità del sesamo.

Ecco l’amicizia con la Birmania. Quella che Giuseppe ha cominciato con me, quando tutto era buio e chiuso, e ha proseguito con noi in questi anni straordinari. Incontrando le persone, il tesoro della Birmania, dell’Italia, del mondo.

Vi confermo che l’Italia c’è, con la sua politica, con la sua valorosa e apprezzata Ambasciata, con la sua Agenzia per la cooperazione e lo sviluppo tenacemente impegnata. La cultura, il cinema italiano, il Made in Italy sono presenti a Rangoon grazie alle iniziative dell’Ambasciata. Anche nelle sedi internazionali l’Italia si muove con saggezza.

Può sembrare strana questa parte della mia vita. Eppure accolgo quello che mi viene incontro. Ciò che sto facendo, e mi sta coinvolgendo, dal Cervi alla Birmania, non nasce ora. Mi porta al cuore della resistenza morale per la democrazia e per il cambiamento del mondo che mi ha segnato la vita fin dall’inizio. Non importa dove. Importa invece che siamo insieme, in tanti.

Con Aung San Suu Kyi, per sostenerne lo sforzo, oggi come ieri. Oggi mi appare perfino, se si può dire, più grande di ieri, così coerente e limpida nell’impegno di ogni giorno dentro la storia.

Il lavoro con le scuole, a Parma come a Treviglio, accompagna loro e noi nel cammino per un mondo migliore.

Poi torneremo là a dicembre con il viaggio di amicizia. E chissà, qualcuno prima o poi arriverà anche nel Rakhine. È la stessa terra, è la medesima umanità. Vi darò notizie. Ma ormai il fiume della vita e della storia le parole non riescono più a contenerlo. Capisco il silenzio di Aung San Suu Kyi. Talvolta non vi sono parole per dire pesi così grandi, o contraddizioni così dolorose, o di fronte a interessi di potere coperti dall’ipocrisia. Capisco la sua accelerazione, sa che il tempo è questo. Il tempo per lei è sempre stato “ora”. So che lavora tantissimo. E medita.

Resiste, come il giacinto d’acqua, beda, portando il fiore. Uscendo dalla sua casa nella sera, c’era nell’ingresso un grande vaso con foglie di beda, una con un fiore. Guardandolo mi ha detto: è fiorita per te.

Internazionale di questa settimana così intitolava la copertina: “La fine della favola birmana”. La Birmania è sempre stata un dramma, dietro il fascino della sua bellezza e del suo spirito. È questo che stentiamo a capire, la grande sofferenza di cui oggi è parte anche la tragedia dei rohingya. Ma la favola vive, nel grande coraggio di un popolo, nella volontà di riscatto. È questo che incarna Aung San Suu Kyi. Pochi al mondo sono come lei. Diceva Caterina da Siena: “È meglio perdere la reputazione che la carità”. In Birmania a vivere ci vuole coraggio, e pazienza, si pagano dei prezzi. Si capisce il valore della vita e della politica. Sono la stessa cosa. Avremmo bisogno qui di questo spirito. Il mio spirito, lì, si sente a casa.

Albertina Soliani, Presidente dell’Istituto Cervi