Da http://www.west-info.eu/files/SAMUDARIPEN.Mustapha.El_.Guezouli.jpg
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I secoli, la diaspora ripetuta, le stragi, hanno trasformato la lingua dei rom in un puzzle di parlate. Per alcune di queste, porrajmos è un termine osceno. Pertanto preferiamo l’altro, Samudaripen, l’uccisione di tutti, che richiama con chiarezza persecuzioni e massacri, di cui gli zingari furono vittime durante la Seconda Guerra Mondiale. Per molti, soprattutto i più giovani, questa è un’oscura pagina di un passato remoto. Per affrontare la realtà di rom e sinti in Italia, riteniamo sia illuminante partire dalle attuali condizioni di questo popolo.

Lo facciamo con una storia vera, che l’ombra d’un male terribile fa risaltare.

Dopo anni di relativa calma, in un’importante città del Nord, B. di sette anni, G. da dieci affetta da un tumore ricorrente, e i loro genitori, fratelli e sorelle sono tornati a vivere in un furgone scassato e privo ormai di assicurazione. Cacciati dal terreno di loro proprietà, distrutte le loro case mobili, derubati sotto gli occhi dei vigili preposti a impedire che loro vi tornassero, ridotti a campare tra un parcheggio e l’altro, secondo benevolenza o meno di altri vigili, poliziotti, carabinieri. Fermati e multati, perché “non si può abitare in un camper”, rovesciate con una stivalata nella terra e nella cenere le salsicce che cuocevano per la misera cena; vigilati, seguiti, perseguiti senza sosta. Tornati a vivere nel carro, ormai senza cavalli, come cent’anni fa. Insomma, Erode è vivo e lotta contro di loro: ha dalla sua molte amministrazioni “democratiche”, tutte ugualmente accanite, di destra quanto di sinistra.

Da http://www.ilmessaggero.it/photos/PANORAMA/75/98/697598_20141115_campo_nomadi_salviati.jpg
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È una famiglia di rom bosniaci, profughi dalle guerre etniche dei primi anni Novanta in Jugoslavia, come tante altre che hanno lasciato case, attività, le scuole dei loro figli. La Jugoslavia era uno dei Paesi in cui la condizione dei rom era migliore, pare per volontà di Tito stesso, avendo essi a migliaia partecipato alla Guerra di Liberazione. Oggi quelle persone, uomini donne bambini vecchi – qui ridotti a nomadi che non erano e un tempo ebbero una casa – continuano a vivere nei campi cosiddetti “nomadi”, a dispetto della sollecita legge 390/92 “Interventi straordinari di carattere umanitario a favore degli sfollati delle repubbliche sorte nei territori della ex Jugoslavia”. A Milano, il C.I.R. fu incaricato di censire i profughi presenti nel territorio: lavoro fatto, consegnato, pagato. Visitabile ancora oggi in un armadio municipale, a memoria d’una pronta applicazione della legge, senz’altra conseguenza. Poi, in tempi più recenti e altrove, le vicende dei comitati d’affari cresciuti intorno alla gestione dei campi.

In Italia, l’unico Paese europeo provvisto di campi stabili, vivono circa 180.000 fra rom e sinti, gran parte dei quali lo fa “normalmente” in case, lavora e manda i figli a scuola. Tutto il bailamme razzista che infuria sui media si abbatte sui 35-40.000 ospiti, a caro prezzo esistenziale, appunto dei campi. Avessero dato loro i soldi che costano, al netto degli altrui affari, si sarebbero trovata un’abitazione come chiunque altro. Dunque parrebbe che i campi siano utili. Certo, a fini elettorali.

rom-e-sintiGli sgomberi sono infatti esibizione muscolare, tesa a mettere il territorio municipale, come sempre si sottolinea, “in sicurezza”. Da chi? Ma dalle terribili invasioni dei nomadi. Come alla caduta dell’Impero. Rom e sinti che non vivano in campi comunali sono soggetti di un diritto parziale e discrezionale. Vivono costantemente sotto la minaccia dello sgombero, che neanche si fa beffe delle prescrizioni: le ignora. Ha una logica e dei tempi propri: l’urgenza dimostrativa. Durante queste azioni vengono sgomberate anche la dignità delle persone e la credibilità delle istituzioni. Uno scempio.

Le ruspe distruggono per prime le case. Cos’è una “casa”? La casa, catoio, baracca di assi o lamiere, anche tenda, perfino grotta, qualunque cosa sia, è il luogo dove si è nati o cresciuti, il riparo cui tornare. La propria sicurezza. Contiene le suppellettili del cibarsi e riposare, forse attrezzi di lavoro, sicuramente quelli del lavoro infantile: giochi, libri, quaderni astucci, zainetti. Anche soldi e documenti personali. Le case vengono abbattute insieme a tutto quanto contengono, oggetti e sentimenti.

Si è arrivati a chiudere persino un campo comunale regolare, esistente da 30 anni, il più integrato della città, spargendone gli abitanti in collocazioni provvisorie e largamente inferiori per qualità a quelle di partenza, con la prospettiva della strada.

È proprio su questo che l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa ci richiamano duramente e ripetutamente: siamo sulla soglia della procedura d’infrazione, perché non diamo opportunità abitative a queste persone. Con la conseguente violazione dei diritti fondamentali: lavoro, scuola, salute.

A parte quel che costa alle vittime, costa moltissimo anche alle amministrazioni e quindi a noi cittadini: 30 – 50mila euro a sgombero. Vi sono amministrazioni, di destra come di sinistra, che ne hanno effettuati centinaia e centinaia in pochi anni. Ancor più costa la mancata integrazione: persone che potrebbero lavorare, produrre, corrispondere tributi e tasse; adolescenti che potrebbero progettare il futuro della comune società; bambini che invece di andare a scuola a costruire il proprio avvenire, lo perdono. Tutti trascinati nella polvere dello sgombero.

vignetta nazismoIl Samudaripen non appartiene allora solo al passato. Si sta ripetendo anche oggi, sotto tutt’altro aspetto, in condizioni del tutto diverse, qualcosa che richiama in un modo impressionante ciò che portò, allora, alle stragi e allo sterminio: le persecuzioni a macchia crescente; il disprezzo per le persone; gli individui ridotti a categoria, a massa indistinta; la distruzione ripetuta, immotivata e mai punita, dei poveri averi personali; la mancanza di considerazione e soccorso per le malattie; la mancanza di rispetto per le leggi e prescrizioni nazionali e internazionali. È un’uscita, un’evasione dall’ambito del Diritto, di persone che saranno poi alla mercé di chiunque per qualunque cosa: Istituzioni, nella maggior parte dei casi, singoli gruppi o individui. La distruzione della dignità: obiettivo prioritario, basilare, della violenza nazifascista di ieri; oggi, sterminio virtuale.

Tutto questo mentre ci apprestiamo a celebrare la 72a Giornata della Memoria, una ricorrenza internazionale: la data prescelta è quella dell’abbattimento dei cancelli del campo di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945, ad opera delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa, ed è stata indicata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005.

Lo sterminio causò, fuori dai campi di battaglia, quindici milioni di morti, appartenenti alle categorie ritenute dal regime nazista “indesiderabili” nella “nuova” società che il Terzo Reich avrebbe costruito: Goebbels utilizzò, a questo proposito, la sua parabola del buon giardiniere, che strappa le male erbe dall’orto per far crescere bene piante e ortaggi. Fra queste “erbacce”, circa 5-6 milioni di ebrei: una vera Shoah, l’ebraico per “catastrofe, distruzione”. Ma al tragico totale di queste vittime vanno aggiunti: oppositori politici e comunisti, partigiani, prigionieri di guerra, soprattutto russi, Testimoni di Geova, disabili e malati mentali, omosessuali, lesbiche e transessuali… e Zingari, cioè rom e sinti.

Considerati dal Reich “asociali”, già schedati durante la Repubblica di Weimar, divennero l’unico altro popolo, oltre agli ebrei, da estirpare dalla faccia della terra, proseguendo una lunga storia di persecuzioni e stragi che raggiungeva col nazismo il suo culmine. Così, fin dai primi anni del potere hitleriano furono rastrellati e collocati in appositi campi, per essere poi inviati ad Auschwitz. Impossibile ricostruire il numero delle vittime: dai 175.000 delle prime valutazioni nel dopoguerra ai 5-600.000 solitamente accreditati, fino al milione e più che alcuni storici ipotizzano. Dai campi di sterminio a qualunque sperduto villaggio si trovasse lungo l’avanzata delle truppe tedesche sul confine orientale, fino all’iniziativa di governi fantoccio o alleati, furono spesso massacrati a vista. Un conto impossibile: solo il ragionier Eichmann, con le sue meticolose registrazioni, ce ne ha lasciato qualche memoria. Gli altri sono persi, a loro stessi e a noi. A ogni memoria.

Auschwitz-Birkenau
Auschwitz-Birkenau

Eppure, il 16 maggio 1944, 4.000 rom internati nello Zigeunerlager di Auschwitz-Birkenau decisero di opporsi ai loro aguzzini, venuti a prelevarli per condurli nelle camere a gas. Di fronte a un’umanità ridotta in condizioni pietose – formata da nugoli di bambini pelle e ossa, donne e capifamiglia scalzi – era schierata la più potente e organizzata macchina di oppressione e morte di tutti i tempi. Uomini, donne coi piccoli in braccio, bambini, tutti decisi a non piegare il capo, raccolsero pietre, mattoni, spranghe, assi divelte dalle baracche, rudimentali lame e fronteggiarono le SS armate fino ai denti. Le prime file furono falciate, ma la massa arrivò ugualmente addosso agli assassini, strappando loro alcuni fucili e mitra.

Anche i nazisti cominciarono a cadere, finché le SS, esterrefatte davanti a quell’imprevedibile ribellione, a quell’eroismo, a quel coraggio sovrumano che affrontava le pallottole e le baionette con la carne nuda, decisero di ritirarsi, portando con sé molti caduti.

Solo il 2 agosto 1944 i nazisti – dopo aver progressivamente allontanato dal campo gli uomini più validi e ridotto in fin di vita la popolazione rom prigioniera, limitando al minimo il suo sostentamento alimentare – riuscirono a liquidare lo Zigeunerlager. 2.897 eroi rom furono assassinati in una sola notte nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau. La data del 2 agosto 1944 è stata simbolicamente scelta dall’Unione Mondiale dei Rom come Kalò Memorijalno Dives, il giorno nero della memoria, per ricordare tutti i sinti e rom vittime del genocidio[1]. E quell’episodio eroico cui diedero vita, come in un canto finale di riscossa, quegli oltre 2000 rom e sinti rivoltosi è l’inizio della loro Resistenza.

Nell’assistere a rievocazioni di quelle vicende, si ode spesso il solenne “Mai più”, a significare il nobile e fermo proposito che non si debbano mai più ripetere simili infamie. Ma cosa non dovrebbe succedere “mai più”, se non conosciamo appieno ciò che è successo? E quali sarebbero i presupposti per attenerci a questo proposito se, mentre nuove stragi, guerre e genocidi si avvicendano su altri sfondi lontani, proprio nelle cronache quotidiane del nostro paese si ripetono nei confronti di questo popolo la stessa emarginazione, l’esclusione, il disprezzo che prepararono, allora, la strada dello sterminio?

Rom e sinti, non hanno mai causato una guerra, distrutto una città, sterminato una popolazione. Diceva Günter Grass che bisognerebbe attribuire al popolo sinto e rom il Nobel per la pace. E impiegò parte del cospicuo assegno ricevuto con il Nobel per la letteratura per costituire una fondazione loro dedicata. Forse il tanto accanimento è dovuto proprio alla loro innocenza nella Storia? Scrisse, parlando non solo di sé, un grande poeta ungherese ebreo, Miklos Radnóti, morto durante una marcia forzata nel gelo: “Uno di quelli che alla fine uccisi verranno / perché mai non hanno ucciso”.

rom-sinti - manifestazioneQuest’anno ricorre il 72° anniversario della Liberazione, ma non per loro: la persecuzione continua. I loro diritti, che sono i nostri stessi, a loro vengono negati. Sono gli stessi Diritti Fondamentali, proclamati solennemente dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine della Seconda Guerra Mondiale; appartengono a tutti, anche loro.

Ci permettiamo di rovesciare la drammatica invocazione di Primo Levi ‘ditemi se questo è un uomo’. La rivoltiamo verso coloro che così agiscono: ditemi che uomini sono questi, che cacciano davanti a sé uomini, donne e bambini come armenti, col solleone o col gelo, di giorno come di notte. Peggio, perché la pecorella smarrita la vai a cercare: è del tuo gregge! roba tua. Questi non sono di nessuno. Come Giulia, a Milano: 6 anni, 15 sgomberi subiti.

Li chiamano nomadi perché lo siano.

Così, mentre lodevolmente ci sforziamo di ricordarla e trasmetterla ad altri, la Storia si ripete. Si ripete, proprio com’è stato detto della vita, mentre siamo occupati con altro. “La Storia insegna”, diceva Gramsci, “ma non ha scolari”.

Curzio Malaparte, di fronte alla violenza e al disprezzo dei nazisti contro gli ebrei, usò espressioni che dovrebbero far riflettere: “Una misteriosa paura degli inermi”, disse, induce, provoca “il furor d’abiezione”. Da dove nasce oggi questa paura dei più deboli in chi avrebbe il compito di proteggerli? Forse dal non sapere, o dal rifiuto di sapere, che è la vera ignoranza: bisogna arrestare il contagio della incultura dei diritti e della dignità della persona, che oggi nella nostra società si sta sempre più diffondendo. Occorre rispondere alla domanda di diritti.

Il problema del nostro tempo è la dignità, la mancanza di dignità. È un tempo caotico, ricco di possibilità, ma confuso sui valori, su ciò che veramente conta. Chi non ha o non cura la propria dignità, è portato a calpestare quella degli altri. E il sonno della ragione genera mostri.

Ernesto Rossi, Presidente associazione ApertaMente

[1] Alcuni passaggi di questo paragrafo sono ripresi dall’articolo “Siamo tutti Rom: raccogliamo l’eredità degli eroi”, di Roberto Malini, 2008