Antoniazzi“Chi dice che il lavoro non è più centrale nel mondo attuale dice una solenne sciocchezza”. Sandro Antoniazzi, ex segretario della CISL Lombardia, ex consigliere comunale a Milano e osservatore attento del mondo del lavoro, su cui ha scritto dei pregevoli libri, alla favola malevola della “fine della storia” non ci crede. Ritiene, anzi, che oggi il mondo del lavoro sia un aspro campo di battaglia. “Solo che si combatte per resistere, resistere a condizioni di vita sempre più precarie, ai bassi salari, alla perdita di diritti che si pensavano acquisiti una volta per sempre”.

Chi oggi osservasse il nostro panorama industriale vedrebbe silenzio e desolazione dove prima si sentiva, per dirla con parole antiche, battere il martello.

Io che sul finire degli anni Sessanta seguivo i metalmeccanici; ricordo che a Sesto San Giovanni 4 fabbriche da sole occupavano 30mila dipendenti. Quelle che superavano i mille erano oltre una trentina. Oggi non ce n’è una che superi i mille dipendenti. Epperò questo non vuol dire che il lavoro ha perso d’importanza. I lavoratori sono in tutto il pianeta circa 3,5 miliardi di persone. In Cina c’è una fabbrica che da sola occupa un milione e mezzo di lavoratori. Questo per dire che spesso il dibattito si ferma all’apparenza delle cose. Il nodo oggi è fare una battaglia mondializzata. Le lotte a livello locale non hanno più senso e sono destinate alla sconfitta.

La Breda di Sesto San Giovanni all’inizio degli anni 70 (da http://storiaefuturo.eu/la-fondazione-isec-di-sesto-san-giovanni-archivi-e-biblioteche-per-la-storia/)
La Breda di Sesto San Giovanni all’inizio degli anni 70 (da http://storiaefuturo.eu/la-fondazione-isec-di-sesto-san-giovanni-archivi-e-biblioteche-per-la-storia/)

Non è possibile costruire un nuovo modello di società se non si entra nei meccanismi dell’economia, se non si affronta il tema della finanziarizzazione. I padroni queste cose le hanno capite bene, è la nostra parte che ancora arranca. A livello mondiale c’è una partita in cui scende in campo una squadra sola: quella liberista, fatta dalla banca mondiale, dal Fmi, dalla finanza internazionale, dalla tecnocrazia. L’altra squadra quella dei lavoratori, della società, della solidarietà, non scende ancora in campo. Insomma, perché il capitalismo non vinca la partita a tavolino, occorre che il sindacato e i lavoratori comincino a capire che solo intervenendo sull’economia, sui suoi meccanismi produttivi e distributivi possiamo produrre un cambiamento verso una società più giusta. È questa la sfida. Ma per vincerla occorre appunto capire che il mondo del lavoro è una realtà che va oltre i nostri confini e che i lavoratori sono oggi diversi da quelli del passato.

quotazione-oroL’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, recita la Costituzione all’articolo 1. Una collocazione non casuale. I padri costituenti pensavano che la nuova patria democratica e antifascista poteva nascere solo a partire dal lavoro e dai lavoratori. Nell’Italia di oggi ha ancora senso quell’articolo? O l’Italia è diventata una repubblica fondata sul liberismo?

I principi rimangono sempre validi e la Costituzione è per tutti noi un riferimento fondamentale. Mettere il lavoro nel primo articolo ha voluto significare dare una visione ed una prospettiva. Che va attuata. L’articolo uno della Carta ci parla di un impegno e di una trasformazione sociale ed economica. Ecco perché insisto molto sull’economia. È davanti agli occhi di tutti che l’economia, priva di regole, produce diseguaglianza e sfruttamento. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochissime persone è aumentata anziché diminuire. Ma appunto per questo penso che i lavoratori di oggi debbano riappropriarsi dell’economia per portarla su un terreno diverso. Si è fatto un gran parlare in questi mesi di leggi sul lavoro. Ma le leggi da sole non bastano. Non sono le leggi che mandano avanti l’economia: occorrono investimenti, orizzonti industriali, una idea di società. Umanizzare l’economia, riportarla con i piedi in terra, tra gli uomini e per gli uomini, liberarla dall’abbraccio mortifero della finanziarizzazione: ecco, far vivere l’articolo uno significa anche questo.

Call center
Call center

Recentemente sono usciti i risultati di un sondaggio commissionato da Federmeccanica. L’operaio oggi non vede il suo futuro come parte di un gruppo ma in termini individuali. E alla domanda su come pensa possa cambiare in meglio le proprie condizioni in azienda, il 92% degli intervistati risponde “facendo bene il proprio lavoro” (erano circa il 60% invece in uno studio analogo di fine anni Novanta). Insomma la coscienza di classe, le rivendicazioni collettive vanno in pensione per un approccio più individualista?

Noi siamo tutti individualizzati, non individualisti. C’è una individualizzazione di base strutturale. Sul lavoro il problema è che bisogna dar vita ad una solidarietà che non sia quella di una volta – il marxiano “è la condizione che forma la coscienza” – ma che parta dalla soggettività dei lavoratori. D’altronde oggi il 70% dell’occupazione è nel terziario dove non si lavora con le macchine, ma in una dimensione relazionale. La relazione, se viene utilizzata e valorizzata, può essere uno strumento positivo. L’impresa moderna ha bisogno dell’intelligenza dei lavoratori. Per dirla con il sociologo Durkheim, siamo passati da una solidarietà meccanica, dove gli individui differiscono poco gli uni dagli altri, ad una solidarietà organica che richiede la complessità e nella quale il consenso si realizza con la differenziazione e la responsabilità delle persone.

In Italia, a differenza della Germania dove i lavoratori hanno un potere significativo nella gestione delle aziende, la cogestione o Mitbestimmung non ha fatto molta strada, nonostante sia prevista anche in Costituzione. Come mai?

La ragioni sono molteplici. Per sintetizzare possiamo dire che in Germania hanno giocato a favore della compartecipazione le dimensioni delle aziende, dei grandi complessi industriali, e l’intesa politico-sindacale. In Germania poi fino a poco tempo fa c’era un solo grande unico sindacato e questo ha molto favorito il processo della cogestione. Ritengo però che il punto oggi non sia tanto quello della cogestione ma del come valorizzare al meglio la capacità che il lavoratore ha di partecipare direttamente all’impresa.sindacati- loghi

Unità sindacale: secondo lei è un obiettivo possibile?

L’unità sindacale non è che arriva con la divina provvidenza. Va voluta e costruita. Mi par di capire che oggi non c’è una spinta della base in questo senso né una dirigenza capace di comprendere l’importanza del traguardo. Non è sempre stato così. Il dibattito sull’unità sindacale attraversa la storia di questo Paese. Uomini come Giuseppe Di Vittorio e Achille Grandi furono nell’immediato dopoguerra convinti sostenitori dell’unità sindacale, ma la loro volontà poté ben poco in un mondo che andava verso la logica dei blocchi contrapposti. Un altro gruppo dirigente di valore e che ha portato l’unità sindacale il più avanti possibile è stato quello di Lama, Trentin, Carniti, Storti e Benvenuto. All’inizio degli anni Novanta il tema è andato in soffitta. A mio giudizio, con calma e pazienza, andrebbe rilanciato e ripreso. Con la convinzione profonda che il sindacato non è un’organizzazione al servizio dei lavoratori. Il sindacato lo fanno i lavoratori.

Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra; oggi collabora col Venerdì di Repubblica