Militari italiani catturati durante la disfatta di Caporetto reclusi in un campo di prigionia a Cividale del Friuli (Archivio Corbis – da http://www.scenaillustrata.com/public/spip.php?page=anteprimastampa&id_article=4198)

Su seicentomila soldati italiani internati nel 1918 nei campi di concentramento austriaci e tedeschi, (Mauthausen e Theresienstadt, Rastadt, Wittenberg, per citarne alcuni, nomi impressi nella memoria collettiva), centomila non fecero ritorno alle loro case, morirono letteralmente di fame perché i nostri capi di governo, Sonnino e Orlando in testa, rispettivamente presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, si rifiutarono di inviare gli aiuti alimentari necessari al loro sostentamento.

Alla base di questa ecatombe, ignorata dalla stragrande maggioranza degli italiani e portata alla luce solo nel 2000 da Giovanna Procacci, [Soldati e prigionieri italiani nella Grande guerra, Bollati Boringhieri], ci furono dunque precise responsabilità politiche.

Le condizioni dei prigionieri italiani erano spaventose, i soldati erano denutriti, molti di loro arrivarono a pesare in media 42 kg, si ammalavano di tubercolosi o di tifo petecchiale o morivano di freddo perché gli indumenti erano inadatti per quelle rigide temperature invernali.

Si legga questa lettera sfuggita alla censura militare e spedita il 24 febbraio 1917 dal campo di Mauthausen (Austria) a Roma:

“[…] qui mia cara moglie ci fanno morire di freddo e di fame, come anche per i pidocchi. Da mangiare ci danno una pagnotta ogni otto soldati, che dobbiamo dividerci, toccando appena cento grammi di pane per ognuno che si mangia in sei bocconi. Riceviamo un’aringa per uno la sera con tre o quattro pezzetti di patate o carote ed un mescolo di acqua calda; ecco tutto il rancio che ci passano giornalmente; questo serve per sostenerci, dato che non ci reggiamo più in piedi per la gran fame. I nostri panni sono stracciati e moriamo di freddo con la neve e siamo costretti a dormire per terra con dei grossi pidocchi mai visti sulle mie carni”.

Per attenuare la fame i prigionieri bevevano grandi quantità di acqua, ingoiavano erba, terra, pezzetti di legno e carta, anche sassi, per raccattare qualche avanzo delle cucine di campo si gettavano in pieno inverno nei canali di scolo col rischio di contrarre la dissenteria o la polmonite. I nostri prigionieri si trovavano dunque in condizioni disumane, condizioni note al nostro ceto politico che si oppose risolutamente all’invio di aiuti che venivano sollecitati da più parti e che erano stati autorizzati dalle stesse Austria e Germania, incapaci di far fronte alla forte domanda di pane, indumenti e medicine visto il numero esorbitante di prigionieri.

Un’ulteriore conferma di questa spaventosa situazione ci giunge dalla testimonianza dell’ufficiale Carlo Salsa, autore del famoso memoriale “Trincee”, dal campo di Theresienstadt, ov’era anch’egli prigioniero dopo la rotta di Caporetto: “Al campo della truppa, i nostri soldati vengono lasciati morire di fame come per una distruzione sistematica: nessun aiuto giunge dalla patria che sembra aver rinnegato questi combattenti sfortunati, caduti in prigionia durante le prime eroiche offensive del Carso per quella fatalità che solo chi non ha vissuto la realtà della guerra può rifiutarsi di comprendere […] Pare che un sordo rancore incomba su questi soldati: mentre i prigionieri francesi, inglesi, perfino russi vengono forniti di viveri direttamente dai loro governi, i nostri sono abbandonati”.

Il disinteresse del governo italiano per i suoi prigionieri fu aspramente criticato all’estero assumendo i contorni di uno scandalo internazionale, nessun Paese belligerante si comportava alla stessa maniera dell’Italia; francesi e inglesi, ad esempio, avevano organizzato un servizio per i loro prigionieri per il quale ogni soldato riceveva due chili di pane la settimana. La Francia, nostra alleata, si era offerta di inviare grano e farine anche ai nostri prigionieri in Germania, se lo Stato italiano si fosse impegnato a pagarne l’importo. La risposta fu negativa. Pressioni sul nostro governo vennero fatte anche dalla Croce Rossa Internazionale, per tutta risposta le fu intimato, espressamente da Sonnino, di cessare l’invio di pane ai prigionieri “continuando invece a consentire tale invio si effettui da parte delle famiglie e dei Comitati”. Affidandosi al solo aiuto delle famiglie, Sonnino non teneva conto di due fattori: il primo, che un terzo dei prigionieri italiani non riceveva alcun tipo di soccorso dalle famiglie perché poverissime; il secondo, che la distribuzione dei pacchi individuali inviati dagli enti caritatevoli, da semplici cittadini solidali e dalle famiglie che se lo potevano permettere era del tutto disorganizzata e priva di ogni controllo, i pacchi difficilmente giungevano a destinazione perché venivano manomessi o trafugati durante il trasporto o peggio ancora i viveri si guastavano perché i treni restavano fermi alla dogana per giorni interi.

Anche in Italia l’opinione pubblica informata dei fatti cominciava a protestare ed alcuni esponenti politici investirono il governo di una serie di interrogazioni parlamentari. Ma il governo era ormai arroccato su posizioni di rifiuto assoluto di invio dei soccorsi, giustificandosi col fatto che il mantenimento dei prigionieri spettava allo Stato che li aveva resi prigionieri, come stabilivano gli accordi internazionali. La convenzione dell’Aja del 1907, in effetti, prevedeva che l’assistenza dei prigionieri spettasse al governo ospitante, tuttavia il quadro storico era radicalmente mutato e le norme della convenzione si rivelarono immediatamente inadeguate a risolvere un problema di quella portata. Quelle norme erano state pensate per guerre limitate e di breve durata, e conseguentemente anche i periodi di prigionia sarebbero stati brevi, e non per una guerra di massa come la Prima guerra mondiale che aveva mobilitato milioni di uomini. Con le cifre impressionanti di decine di migliaia di prigionieri fin dalle prime battaglie del ’14 (45.000 russi fatti prigionieri dai tedeschi a Tannesberg e 85.000 austriaci catturati dai russi nella battaglia di Leopoli) risultava impossibile rispettare l’accordo; i governi erano oggettivamente incapaci di mantenere sul proprio territorio centinaia di migliaia di prigionieri (si pensi che in Germania alla fine del 1916 ce n’erano ben 1.750.000!). Il problema dell’assistenza ai prigionieri s’impose quindi a tutti i Paesi belligeranti, pertanto alcuni di essi, come la Francia e la Gran Bretagna, si convinsero di attuare un piano di aiuto diretto ai propri soldati, inviando a proprie spese viveri, medicine e vestiario, per tutelare la sopravvivenza dei propri uomini. L’Italia invece si ostinò a non prendere in carico la sorte dei suoi prigionieri, adducendo motivazioni a questo punto pretestuose e determinando perciò la morte di centomila prigionieri.

Prigionieri italiani a Cividale (da http://www.scenaillustrata.com/public/spip.php?page=imgpage&id_document=8900)

Furono dunque i governi nemici colpevoli di questa immane crudeltà come sempre hanno sostenuto i nostri governanti o sono stati proprio questi ultimi responsabili della loro morte? Non ha dubbi la storica Procacci secondo la quale “la morte in massa dei soldati prigionieri fu provocata, e addirittura voluta, dal governo italiano, e soprattutto dal Comando Supremo”.

Colpisce la precisazione della Procacci, notoriamente prudente nei suoi giudizi, circa la deliberata volontà del ceto politico e militare di lasciar crepare di fame i nostri soldati.

E qui si aprono alcune ipotesi agghiaccianti: l’immagine dei prigionieri italiani malati e sofferenti sino allo stremo veniva brandita dal nostro Comando Supremo per spaventare i nostri soldati impegnati al fronte e dissuaderli da eventuali tentativi di arrendevolezza al nemico. Essi dovevano preferire il piombo delle mitragliatrici nemiche piuttosto che finire prigioniero in un lager austriaco o tedesco.

L’altra ragione ancora più raccapricciante che spiegherebbe il rifiuto del governo italiano di prestare soccorso ai nostri prigionieri è che essi, in particolare dopo la rotta di Caporetto (300.000 prigionieri) furono tutti considerati disertori, soldati che si erano consegnati volontariamente al nemico per non continuare a combattere. In realtà, la percentuale dei soldati che commisero il reato di diserzione, passando al nemico, fu minima. Il Comando Supremo arriva addirittura a diffondere voci calunniose presso le famiglie dei soldati prigionieri, come possiamo dedurre da questa lettera del 21 agosto 1917 di un padre al proprio figlio internato a Mauthausen. Il giovane non figura negli elenchi dei disertori: “Tu mi chiedi il mangiare, ma a un vigliacco come te non mando nulla; se non ti fucilano quelle canaglie d’austriaci ti fucileranno in Italia. Tu sei un farabutto un traditore; ti dovresti ammazzare da te. Viva sempre l’Italia, morte all’Austria e a tutte le canaglie tedesche: mascalzoni. […] Non scriver più che ci fai un piacere”.

Prigionieri italiani in Austria con le divise di prigionieri morti anche di altre nazionalità (da http://www.scenaillustrata.com/public/spip.php?page=imgpage&id_document=8896)

L’equazione prigioniero-disertore autorizzava lo Stato italiano a non sentirsi moralmente responsabile della vita dei suoi uomini che potevano al contrario essere messi pubblicamente alla gogna. Così non fu preso alcun provvedimento e i soccorsi furono affidati all’assistenza privata. Solo alla fine della guerra il governo italiano decise di inviare in via sperimentale soccorsi alimentari ai prigionieri. Ma era troppo tardi, migliaia e migliaia di prigionieri erano già morti nei campi.

In conclusione, la questione umanitaria venne deliberatamente ignorata dalle nostre autorità civili e militari con pretesti e motivazioni false. Un atteggiamento che ha condannato a morte centomila soldati italiani che avevano combattuto per la patria. Dalle “città dei morenti”, come venivano chiamati i lager austriaci e tedeschi, si leva sommessa la voce di chi oggi chiede verità e giustizia.

Salvatore Pugliese, ricercatore universitario a Paris X-Nanterre