“Se un Cristo c’è, è in mezzo a loro” dice, al microfono di un inviato Tv, un italiano che, da anni, abita in Ungheria. Poi indica, con un largo gesto della mano, il gruppo dei migranti cenciosi e laceri che tentano di superare un blocco della polizia del primo ministro Orban. È lui che ha ordinato muri e filo spinato per tentare di bloccare la marea umana che arriva in Europa dalla guerra e dalla fame della Siria, dell’Afghanistan, della Libia, dell’Iraq, della Turchia e da quei monti brulli e polverosi dove ci si scanna tra i tagliagola dell’Isis, i sunniti, gli sciiti, gli azeri, i soldati del despota siriano e i ribelli anti Assad.

E cosa trovano alle porte dell’Europa quelli che scappano dal terrore? Muri, confini, polizia, soldati, candelotti lacrimogeni, manganellate, rifugi improvvisati nei quali vengono spinti come pecore nello stazzo, per afferrare a volo un pezzo di pane. Il sogno di un’Europa dei popoli, spesso si infrange nelle campagne sconosciute o lungo autostrade lunghissime e deserte percorse a piedi per centinaia di chilometri sotto la pioggia e sotto il sole, con i bambini in braccio e mille fagotti di roba sulle spalle. Poi l’assalto ai treni, agli autobus e il correre, nella piena disperazione, da una frontiera all’altra senza sapere niente di dove ci si trovi e quale sia la direzione di marcia. E c’è anche l’assalto alle isole greche per chi non ha paura del mare e le coste italiane per chi è disposto a rischiare la vita sui barconi dei trafficanti di uomini. Lungo la rotta balcanica via terra e nel Mediterraneo, la marea umana non si ferma più. Ma come si fa a distinguere chi scappa dalle bombe e chi dalla fame e dalla miseria? I primi forse trovano un po’ d’aiuto e i secondi crepino pure perché non hanno diritto a nulla. Tutto assurdo, tutto follemente disumano.

Poi, gira per il mondo la foto del piccolo Eylan annegato lungo le coste turche e allora milioni di persone hanno come un sussulto e la Germania e l’Austria aprono le frontiere alle migliaia e migliaia di disperati e si vede, in televisione, la gente che accorre, porge acqua, da mangiare, da bere, un po’ di vestiti e agita cartelli di benvenuto. Dunque c’è un’Europa che fa sognare, c’è un’Europa buona, un’Europa dei popoli, un’Europa che non dimentica le colonne dei profughi del secondo dopoguerra, quando milioni di poveri esseri umani cercavano di tornare alle loro case e magari non le trovavano più, come non trovavano più mogli figli o genitori. La memoria, dunque. È la memoria che deve insegnare. Fa male quando, in televisione, si sentono gruppi di cittadini italiani che insultano gli immigrati, ne hanno paura, non vogliono che siano sistemati nel loro paese, dicono che puzzano, sporcano, violentano le ragazze e rubano e magari ammazzano.

Certo, niente è facile e i problemi sono mille e tutto appare complicato e difficile. Ma spesso, in tanti, non si rendono nemmeno conto che le cose che vengono dette con rabbia e con aria di sufficienza, sono le stesse che gli americani della buona borghesia o gli argentini delle grandi proprietà terriere, dicevano dei nostri emigranti, dei calabresi, dei napoletani, dei veneti, dei friulani. Dicevano anche che eravamo dei violentatori di ragazze e che portavamo la delinquenza e la mafia. Il che, in parte, era vero, ma era anche vero che milioni di nostri emigranti erano persone brave e oneste, cercavano solo lavoro e non scappavano neanche da un Paese in guerra. Scappavano dalla miseria, dalla disoccupazione, dal sottosviluppo. Per l’America, l’Argentina o i grandi e piccoli stati del Continente, affrontavano viaggi terribili e morivano annegati in mare o consumati dalle malattie. Il vapore “Sirio” partì da Genova con 1.500 emigranti a bordo ma non arrivò mai in America. Le vecchie navi che salpavano da Genova o da Napoli, portavano sempre il doppio e anche il triplo di passeggeri che affrontavano la traversata in condizioni subumane. Quando i nostri arrivavano nei grandi cameroni di Ellis Island, sotto la statua della Libertà, dovevano rimanere in quarantena e chi veniva trovato con qualche malattia veniva rispedito in Italia anche se prima di partire aveva dovuto vendere tutto.

Dai primi del ’900 furono circa venti milioni gli italiani che partirono “per terre assai lontane”. E anche dopo la seconda guerra mondiale i nostri continuarono ancora ad emigrare in Germania, in Svizzera, in Francia, in Belgio. Siamo tutti figli o nipoti di emigranti, questa è la verità.

In una precedente “Fotostoria” (Patria Indipendente N° 11 del 2007), abbiamo presentato le immagini terribili della nostra emigrazione. Ora ne pubblichiamo altre. Presso il Centro Studi per l’emigrazione dei padri Scalabriniani, diretto da don Gian Fausto Rosoli, se ne trovano a centinaia. Sono tutte indimenticabili. Furono scattate, tra la fine dell’800 e gli anni 20 del ’900 dai sacerdoti che seguirono nell’emigrazione i loro paesani. Poi ci sono quelle straordinarie e terribili scattate da due grandi studiosi e fotografi americani agli italiani di New York: Jacob A. Riis e Lewis W. Hine. Il primo era un giovane cronista che entrava negli “slum” della città dove vivevano i “paesani”. Hine era invece un sociologo e appassionato fotografo. Con quelle foto pubblicarono un libro che sconvolse tutti i democratici americani e provocò una grande campagna di stampa per aiutare quei disperati che venivano da così tanto lontano. Certo, puzzavano, erano sporchi, non sapevano una parola di inglese ed erano quasi tutti analfabeti “ma erano pur sempre esseri umani”.


PER NON DIMENTICARE

Questo testo è tratto da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, ottobre 1912.

“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura.

Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.

Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.

Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.

Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.

Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.

Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.

Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.

Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.

Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.

I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali”.

 

“Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare.

Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario.

Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia.

Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.


Ecco come eravamo

(clicca sull’immagine per ingrandire e leggere la didascalia)

foto 1
Un bambino tenuto in braccio dalla madre, in casa di emigranti italiani (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 2
Festa patronale degli italiani per le strade di “Little Italy” a New York (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 3
La traversata verso l’America (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 4
Lavoratori italiani ed ebrei ad una manifestazione comune per le 8 ore lavorative (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 5
Una strada di New York con le abitazioni degli italiani (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 6
Il testo di una celebre canzone cantata dagli emigranti italiani (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 7
Il ponte di una nave carica di emigranti (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 8
Una mensa pubblica riservata ai lavoratori italiani (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 9
Giornali e giornaletti stampati in America dagli emigranti italiani (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 10
Un vecchio piroscafo per gli emigranti attraccato nel porto di Genova (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 11
Emigranti in attesa della partenza nel porto di Genova (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 12
A Udine, le vetrine di un’agenzia di viaggi per chi voleva partire per le Americhe (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 13
Emigranti italiani in attesa della partenza nel porto di Napoli (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 14
Ancora in viaggio per l’America. I migranti sono stipati anche sui ponti (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 15
Lo statuto di una società di Mutuo Soccorso creata a New York dai cittadini napoletani (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 16
Una foto ricordo in attesa della partenza. La foto è stata scattata nel porto di Genova (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 17
Appena arrivati a Ellis Island, l’isoletta per la quarantena a New York, gli emigranti italiani affollano il salone mensa (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 18
Un laboratorio casalingo di immigrati italiani in una casa tra gli “slum” di New York (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 19
In viaggio verso l’America, caricati sulle navi come bestiame (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 20
Si vive per le strade tra gli “slum” di New York (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 21
Chi ha superato la quarantena si avvia verso la città con la scorta della polizia (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 22
In attesa negli stanzoni di accoglienza a Ellis Island (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 23
Gruppo di italiani appena sbarcati (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 24
Una famiglia italiana del ceto medio al controllo dei documenti (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 25
All’arrivo, in attesa dei controlli (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 26
Madre e figlio in una mensa pubblica (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 27
A “Little Italy” si vive sulle terrazze. I più piccoli sono alla ricerca di un po’ di aria (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 28
La casa di una famiglia di emigranti italiani (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 29
Le case e i cortili degli emigranti italiani a New York. Dopo una lunga campagna di stampa, tutto verrà abbattuto (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 30
In una casa di emigranti italiani, si lavano i bambini (foto archivio Wladimiro Settimelli)
foto 31
Ancora la strada degli italiani a New York (foto archivio Wladimiro Settimelli)