Povera Italia venduta ed oppressa, il tuo gran nome il fascismo sporcò”, cantavano i partigiani fiorentini nei giorni della Liberazione. E quella “povera Italia”, nel 1946, tentava di rinascere, di rialzarsi, di ripartire.

Era tornata la libertà, le città erano insorte, i partigiani erano scesi dalle montagne ed erano arrivati gli alleati. Mussolini e i suoi erano stati fucilati, il nazismo era stato sconfitto e il Giappone si era arreso dopo due bombe atomiche. La lunga lotta antifascista, costellata da tante morti e da secoli di galera, pareva conclusa. L’Europa intera, ora, faceva i conti con il dolore, la tragedia, le distruzioni immani, la fame. Erano stati scoperti i campi di sterminio e, da noi, l’elenco angoscioso delle stragi naziste continuava ad allungarsi: le Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema. Marzabotto, Padule di Fucecchio, Cefalonia, la Risiera di San Sabba. E poi la scoperta dei fucilati, dei massacrati, dei torturati di via Tasso, quelli della pensione Jaccarino a Roma, quelli massacrati dalla banda Koch a Villa Triste a Firenze e a Milano.

La data del 1946, settanta anni fa, è però fondante per il nostro cuore e per la nostra intelligenza, perché in quell’anno nacque la Repubblica e le donne – che avevano tenuto in piedi il Paese sotto le bombe, in montagna e nei lunghi mesi della tragedia senza avere accanto i loro uomini – votarono per la prima volta: non era mai accaduto prima nell’Italia unita.

Pareva che il mondo, il nostro piccolo mondo di povera gente, stesse davvero cambiando nel profondo, avviandosi verso la “rossa primavera”.

Il “vento del Nord”, in quel 1946, soffiava davvero fortissimo e aveva spazzato via i Savoia colpevoli di aver dato il potere al fascismo. Però quel “vento” non era riuscito a cancellare i ricordi, a cacciare tutti gli ex fascisti dai vecchi posti di comando, a ridare fiducia, fede, dignità a tutti, a riportare la calma a far sopire gli odii inutili, a dare giustizia totale a chi la chiedeva e ne aveva diritto.

Il Paese appariva ancora ripiegato su se stesso, mezzo sepolto dalle macerie, in mano a tanti indegni trafficoni, aveva fame ed era assediato da milioni di disoccupati e percorso in lungo e in largo dai soldati di tanti eserciti, con i pochi generi alimentari ancora quasi tutti razionati e la “borsa nera” che stava distruggendo quel poco che era rimasto in piedi dell’economia di guerra. Il primo governo della Liberazione era presieduto da Ferruccio Parri, il “Maurizio” della Resistenza e sostenuto da tutti i piccoli e grandi partiti espressione dei Comitati di Liberazione: La Democrazia Cristiana, il Psiup di Pietro Nenni, il Partito Comunista, il Partito d’Azione, i Liberali, e gli antifascisti indipendenti e i gruppi legati alla monarchia. L’esperienza di Parri durò un pugno di mesi e poi toccò ad Alcide De Gasperi.

Il Paese era davvero nella disperazione: il Governo militare alleato controllava ancora tutto, assegnava la carta per stampare i giornali, distribuiva viveri, cariche, e si occupava anche di ordine pubblico. In Sicilia era già sorto il movimento separatista di Finocchiaro Aprile ed era aperta la questione di Trieste, delle foibe e dell’esodo degli italiani. Intanto, dal nulla, era sbucato il commediografo e scrittore Guglielmo Giannini che aveva fondato un giornale e poi un partito al quale aveva messo il nome “L’Uomo qualunque” che predicava il “tutto contro tutti” e attaccava il governo in modo becero e sbracato. Si era fatto un gran nome anche il colonnello americano Charles Poletti che prima aveva governato, per conto degli alleati, Palermo, poi Napoli, Roma e Milano. Era un personaggio energico che ficcava il naso ovunque, creando equivoci e pasticci. A Napoli, la città delle Quattro giornate – un mondo a parte davvero martirizzato dalla guerra – lo stesso Poletti aveva, forse senza rendersene conto, aiutato il contrabbando. Nel cuore della metropoli meridionale, migliaia di persone vivevano ancora nelle grotte e i ragazzini “vendevano” ai soldati stranieri le madri e le sorelle pur di mettere insieme pane e companatico.

Il problema degli sfollati e dei senza casa era davvero immenso in tutta Italia. A Roma, gli studi cinematografici di Cinecittà erano strapieni di poveracci che vi “abitavano” non avendo più nulla e la stessa situazione si registrava a Firenze, a Genova, a Milano, a Torino. Ed era, da parte degli sfollati, tutto un percorrere in ogni senso le poche strade ancora integre del Paese per tornare a casa dalle campagne, per cercare parenti o amici, per avere notizie dei soldati dispersi. A Milano erano state organizzate delle “mense popolari” per aiutare chi non aveva soldi per mangiare perché le grandi fabbriche avevano appena appena iniziato a funzionare di nuovo, ma con personale ridotto perché mancavano le materie prime e i macchinari erano a pezzi.

Ovunque giravano ancora troppe armi e traversare alcuni passi di montagna poteva costare la vita per la presenza dei banditi. In Emilia-Romagna c’era, invece, il problema delle troppe vendette da parte di presunti partigiani contro presunti fascisti e i morti ammazzati non si contavano più.

Viaggiare in quell’anno, era ancora una tragedia: erano stati bombardati e distrutti centinaia di ponti, strade, stazioni ferroviarie e depositi di treni e tram. Nelle grandi città, solo nelle zone centrali, i servizi pubblici avevano ripreso a funzionare. Per raggiungere le periferie bisognava, invece, salire su camion e motocarrozzette trasformate in autobus con tanto di numero, controllori dei biglietti e “porgi scaletta” alle fermate.

E i soldi? L’Italia era ancora sommersa dalle famose “amlire” e cioè la carta moneta che americani e inglesi si stampavano in proprio per pagare le truppe con stipendi altissimi. Con quei soldi, i militari alleati potevano comprarsi anche dieci volte quello che un italiano poteva portare a casa con le sue povere lire. È proprio intorno a quelle “amlire” che nasce il grande giro del contrabbando, delle “segnorine” e degli “sciuscià” che lucidavano, per strada, le scarpe ai soldati alleati. Nasce così a Tombolo, in una grande pineta a due passi da Livorno, interamente distrutta, la più grande base militare alleata, con migliaia di militari che spendono e spandono tonnellate di “amlire”. I comandi americani organizzano addirittura un servizio di camion che percorrono mezza Italia per portare in quella pineta prostitute giovani e vecchie. Così Tombolo diventa il centro di delitti terribili, di violenze, di furti, di rapine o di ammazzamenti rimasti per sempre impuniti.

Tutti, comunque, vogliono dimenticare e lasciarsi alle spalle le tragedie della guerra. Ovunque, nei cortili dei condomini, nelle balere e nelle case del popolo, come una ossessione, tutti ballano, per ore e ore, il boogie-woogie masticando gomme americane, per poi sedersi a tavola e mangiare la scoperta del momento: le minestre in polvere, le scatolette di carne e il pane bianco che gli italiani non avevano mai conosciuto prima.

Si cantano ancora le canzoni del passato: “Mamma”, “Baciami piccina sulla bocca”, “Solo me ne vo per la città”, “Lilì Marlen” e quelle del celeberrimo Trio Lescano, di Alberto Rabagliati o le romanze di Beniamino Gigli e di Ernesto Bonino.

Il dolore torna di nuovo su tutti i visi per quei treni che arrivano nelle grandi città. Sono carichi di superstiti dei campi di sterminio, ma soprattutto dei nostri poveri soldati che tornano da mezzo mondo: sono magri, stanchi con le divise a brandelli e senza una lira in tasca. Arrivano dalla Germania, dalla Francia, dalla Grecia, dall’Unione Sovietica, dalla Polonia, dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra. Alcuni hanno fatto migliaia di chilometri a piedi. Altri rientrano dopo mesi e mesi, perché, prigionieri degli inglesi, erano finiti in India o in Sudafrica. Tornano e non sanno se ritroveranno la casa ancora in piedi, la moglie e i figli vivi. Sono accolti nelle grandi stazioni dalle donne dell’UDI (l’Unione Donne Italiane) e da quelle delle organizzazioni cattoliche che offrono loro un panino, un bicchiere di vino o un caffè, per poi proseguire il viaggio. La gente che si avvicina a quei treni non è vestita meglio e va in giro con i vecchi cappotti rovesciati e con vestiti ricavati dalle coperte militari. E tutti chiedono notizie, vogliono sapere, s’informano se la tal città o questo o quel paese sono stati bombardati. È un groviglio immane di sentimenti: rabbia, amarezza, tristezza o gioia per averla scampata.

Sì, il 1946 è un anno ancora terribile, ma il governo di unità antifascista non si è fermato. Tanti disoccupati vengono assunti per sgombrare le macerie, si ricostruiscono le case distrutte, si “sminano” le zone pericolose, torna l’acqua e la corrente elettrica in molte case. In altri centri più piccoli e nelle periferie urbane ci si serve ancora delle fontanelle e si formano lunghe code.

Il 9 maggio, nel piccolo regno del Sud, il re Vittorio Emanuele III, fuggito il 9 settembre 1943 da Roma con la famiglia lasciando l’Italia nel caos e in mano ai nazisti, abdica a favore del Principe Umberto che arriva a Roma come “Luogotenente del Regno”. Il padre, con la regina, parte per l’Egitto e si stabilisce ad Alessandria, dove poi morrà.

Il governo bada anche ai simboli che possono, in qualche modo, unificare il Paese. Il Teatro alla Scala, di Milano, distrutto dai bombardamenti e subito ricostruito, inaugura la prima stagione del dopoguerra con un grande concerto diretto da Arturo Toscanini, tornato appositamente dall’America dove si era autoesiliato per sfuggire al fascismo. È l’11 maggio e sarà una serata memorabile anche per tutti gli italiani che ascoltano la radio. Quando l’orchestra e il coro attaccano il “Nabucco”, nel grande teatro ancora odoroso di vernice, piangono tutti.

La questione monarchia o repubblica, accantonata con la svolta togliattiana di Salerno, viene finalmente affrontata il 2 giugno con il referendum popolare. I voti alla Repubblica sono 12.718.641 e quelli alla monarchia 10.718.502. Dunque l’Italia è una repubblica, la nostra repubblica. Soprattutto a Sud ci sono scontri con morti e feriti tra repubblicani e sostenitori monarchici. Il 13 giugno anche il principe Umberto, che sarà chiamato “il re di maggio”, lascia l’Italia per il Portogallo. Il 25 si insedia l’Assemblea Costituente e il 28 Enrico De Nicola viene nominato capo provvisorio dello Stato

A Cannes, intanto, il film Roma città aperta, di Roberto Rossellini con Anna Magnani e Aldo Fabrizi, vince la Palma d’Oro e segna la nascita del neorealismo. La corsa disperata di Anna Magnani, uccisa dalla raffica di mitra di un nazista mentre rincorre il camion che le porta via il marito, diventa la scena più famosa del cinema italiano di tutti i tempi.

Il 1946 racconta, però, anche altre storie: il 24 aprile tremila detenuti del carcere di San Vittore, sempre a Milano, organizzano una rivolta che sarà soffocata solo con l’intervento dell’esercito. Mentre gli italiani cominciano ad appassionarsi allo scontro sportivo tra Gino Bartali e Fausto Coppi, il 30 novembre, nel cuore della città meneghina, Rina Fort, amante del commerciante Giuseppe Ricciardi che l’ha appena lasciata, uccide la moglie e i suoi tre figli a colpi di spranga. Il più piccolo verrà massacrato sul seggiolone. A Roma, invece, il 26 dicembre, nasce, per iniziativa di un gruppo di ex repubblichini, il Movimento Sociale Italiano. Sono presenti Giorgio Almirante, Arturo Michelini, Pino Romualdi, Giovanni Tonelli e un gruppo di giovanissimi neofascisti. Di loro e di quel partito si sentirà, purtroppo, ancora a lungo parlare.

Wladimiro Settimelli, giornalista, già direttore di Patria Indipendente


 1943-45 – quell’Italia in guerra

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1946: l’Italia ricomincia a vivere

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