Esperia (Frosinone), 1923

«Ritenuto che questo grande cittadino che sente potentemente in sé l’afflato divino di Dante e Machiavelli, salito, per forza d’ingegno e dirittura d’animo, ai supremi fastigi del potere, riaccesa la fiaccola di Roma immortale all’ara dei martiri santi, avvia l’Italia caramente diletta a nuove glorie, a nuovi trionfi delibera a voti unanimi di conferire la Cittadinanza Onoraria». È il 3 giugno 1923 e ad Esperia, in provincia di Frosinone il consiglio comunale, con toni enfatici e grondanti retorica, delibera all’unanimità di conferire la cittadinanza a «Sua Eccellenza, Benito Mussolini». Il comune ciociaro è uno dei primi in Italia a compiere tale gesto. Di lì a poco le cittadinanze onorarie saranno una valanga, dal piccolo centro alla grande città, decretate la gran parte a ridosso della vittoria del Partito nazionale fascista alla elezioni del 6 aprile 1924. Normale – si dirà -, erano gli anni del regime e le amministrazioni locali, chi per servilismo, chi per convinta adesione, chi per paura e quieto vivere (tutte in ogni caso perché sollecitate in tal senso dai prefetti), si ingraziavano il dittatore. Meno normale è che con la riconquistata libertà quelle cittadinanza – tranne alcune rarissime eccezioni – non siano state subito revocate.

Il boom delle “Predappio d’Italia” è il periodo 1923-1924. Non è un biennio qualunque. Sono gli anni dell’arresto di Piero Gobetti, delle bastonature e dell’olio di ricino, degli assalti squadristi ai giornali dell’opposizione, dell’assassinio di Giovanni Minzoni, dell’aggressione a Giovanni Amendola. Sono gli anni delle elezioni che – complice la legge Acerbo – assicurano ai fascisti la maggioranza del Parlamento, della censura sui giornali della sinistra. Sono, ancora, gli anni segnati dall’omicidio del deputato socialista Giacomo Matteotti, reo di aver accusato in Parlamento i fascisti di aver compiuto intimidazioni e violenze di ogni tipo pur di vincere le elezioni. Quel biennio nero avrà il suo esito finale il 3 gennaio 1925 con il famoso e cupo discorso di Mussolini alla Camera («Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! (…) L’Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario») che segnerà la fine della fragile democrazia liberale e il passaggio allo Stato totalitario.

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Ricordiamo questo triste rosario di violenze per dire che quel riconoscimento al Duce del fascismo cade in un momento in cui il regime si appresta a conculcare le libertà degli italiani. Pur sepolto in qualche polveroso archivio comunale, mantenere oggi quel riconoscimento rappresenta un atto pilatesco non solo per quel che riguarda il giudizio storico – e già sarebbe esecrabile – ma anche e soprattutto perché, di fatto, dà fiato a quei gruppi politici organizzati che nei loro programmi, nelle loro parole d’ordine razziste, nella loro visione del mondo, si rifanno al fascismo.

Ricostruire una mappa delle amministrazioni comunali che omaggiarono Mussolini è impresa non semplice. Probabilmente sono centinaia. Al punto che in una interrogazione parlamentare del 26 giugno scorso i deputati di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, Daniele Farina e Giulio Marcon hanno chiesto al ministro dell’Interno un censimento per sapere quali Comuni «conferirono la cittadinanza, in quale data e quanti l’abbiano successivamente revocata» e, soprattutto una iniziativa di natura legislativa per revocare quei provvedimenti. Si tratterebbe di una scelta – recita l’interrogazione – «in linea con la Costituzione repubblicana, perché non si possono “onorare” nello stesso elenco, il fondatore e massimo esponente del fascismo e chi lo ha combattuto insieme agli antifascisti o a coloro a cui oggi la cittadinanza onoraria viene conferita per l’impegno nel dare concretezza ai principi costituzionali».

I parlamentari di Si ritengono che la concessione della cittadinanza a Mussolini «fu uno degli anelli di una catena di tragiche complicità, cecità, calcoli, vigliaccherie, che portarono l’Italia alla catastrofe del fascismo e della guerra». E sottolineano che quella concessione di massa non fu, nella stragrande maggioranza dei casi, per nulla spontanea. Anzi, «potrebbe essere stata coordinata e pretesa dai vertici del partito fascista per ulteriormente impressionare le istituzioni e il re bloccando eventuali iniziative tese a ostacolare la prospettiva della dittatura».

Carlo e Nello Rosselli, assassinati il 9 giugno 1937 a Bagnoles-de-l’Orne in Francia da una banda di squadristi dell’organizzazione parafascista francese “La Cagoule” su ordine del servizio segreto militare italiano

Ebbene, ci immagineremmo i sindaci italiani pronti a sostenere nei rispettivi consigli comunali la necessità inderogabile della revoca. E invece no. Non è sempre così. Segno di un passato che non passa. Capita che alcuni comuni – ad esempio Aosta, Brescia e Ravenna – abbiano votato contro la revoca, continuando ad annoverare tra i loro concittadini Mussolini; in altri – Bergamo – la discussione attraversa, lacerandolo, perfino il Pd. In altri ancora, vedi Augusta in Sicilia, Trieste, Aquileia, la cosa sembra invece non interessare più di tanto gli amministratori locali.

Tra tanti attendisti vecchi e nuovi il plauso va al Comune di Napoli che nel 1944, con una delle prime deliberazioni nella città liberata, annullò il conferimento della cittadinanza concessa per acclamazione nel luglio del 1923 perché «mai sentimenti, speranze, aspettative e fiducia popolari rimasero, forse, nel corso dei tempi, tanto e così duramente delusi, quanto quelli che, in nome della cittadinanza napoletana, vennero, nella cennata occasione, enfaticamente e con scarso senso di misura espressi». Sempre nel 1944, in ottobre, anche la giunta comunale di Matera delibera con voto unanime di togliere quella cittadinanza concessa nel maggio del ’24.

Ma la gran parte delle revoche dovrà aspettare gli anni 2000. Nel 2005 è la volta del Comune di Fossombrone e di quello bolzanino di Salorno.

Si dà anche il caso di comuni all’oscuro del sì ingombrante cittadino. Come Torre Pellice, in Piemonte, che solo nel 2014 si è accorto di avere il capo del fascismo tra i suoi “illustri”. Il municipio storicamente più importante delle valli valdesi non ci ha pensato un attimo: via subito il nome di Mussolini. E non solo. Nello stesso giorno in cui è stato ritirato il riconoscimento assegnato al Duce nel 1924, il Comune ha conferito la cittadinanza onoraria a tutti i 50 stranieri nati in Italia, dagli 0 ai 18 anni, residenti a Torre Pellice.

Rimaniamo in Piemonte, a Torino, città Medaglia d’Oro della Resistenza, che sempre nel 2014 ha proceduto alla revoca. Sotto la Mole non sono mancate le polemiche. Il centrodestra ha espresso voto contrario, mentre la Lega si è astenuta (non senza aver prima srotolato in segno di protesta una bandiera dell’Urss chiedendo la cancellazione dalla toponomastica di Corso Unione Sovietica). A Termoli la revoca è del 2015. Anche qui non mancano le riletture assolutorie e un tanto al chilo della storia (Francesco Roberti del Nuovo Centrodestra, dirà: «Se a Mussolini hanno dato la cittadinanza a Termoli vuol dire che ha fatto qualcosa di buono per Termoli»).

A Pisa la rimessa in discussione della cittadinanza al duce del fascismo è cosa di questi giorni. La quarta commissione consiliare del Comune a maggio scorso ha approvato la proposta dal consigliere Giovanni Garzella. Nel testo della delibera c’è scritto che la figura storica di Benito Mussolini è «in conflitto con i principi di pace, uguaglianza, democrazia e libertà che oggi ispirano e guidano la comunità cittadina e la Costituzione italiana». La delibera dovrebbe essere approvata il 5 settembre, giorno nel quale Mussolini firmò proprio a Pisa le leggi razziali. Speriamo bene. La destra nella città della Torre pendente è uscita dall’aula quando in commissione è stata votata la delibera. Il consigliere di Fi-Pdl Riccardo Buscemi ha sostenuto che «è una cittadinanza quella a Mussolini che non si può revocare perché è morto mentre quella a Silvia Baraldini è revocabile perché è ancora viva».

C’è anche chi a revocare la cittadinanza all’italico dittatore non ci pensa proprio. Ed è Giorgio Gori, sindaco Pd di Bergamo. Tra fine novembre 2015 e febbraio 2016 l’Anpi, l’Istituto storico della Resistenza, i Giovani democratici e il Comitato antifascista hanno consegnato al Consiglio comunale una petizione con più di 1500 firme in cui chiedevano di togliere il nome di Mussolini dall’elenco dei cittadini onorari. Dal primo cittadino renziano è venuto però un granitico quanto poco convincente niet. «Ci viene chiesto di cancellare – ha scritto su l’Eco di Bergamo – un fatto politico ormai consolidato e storicizzato». Aggiungendo che «se la storia è memoria, quegli avvenimenti – ancorché criticabili in base alla nostra sensibilità di oggi – meritano d’essere preservati». Interessante notare l’uso del termine “sensibilità”, come se il confine tra fascismo e antifascismo fosse, in fondo, una questione di “sensibilità”. Ovvero di sfumature.

Ancora dal palco del 25 aprile scorso il giornalista di Repubblica Paolo Berizzi ha invitato Gori a rivedere la sua posizione, perché «se la storia non si cancella, è vero anche che è giusto che si rimedi ai suoi errori, azzerando le onorificenze ai dittatori. Credo non ci sia alcuna ragione per cui il duce debba essere considerato ancora cittadino onorario di Bergamo. Credo che Bergamo ci farebbe una bella figura». Ma anche in quest’occasione l’ex direttore di Canale 5 ha ripetuto, come un mantra, che revocare la cittadinanza «sarebbe un errore che creerebbe fratture, sarebbe revisionismo: invece rimane lì un monito bello forte per ricordare come a volte si può sbagliare». Il relativismo e lo storicismo di Gori si scontrano con la realtà di una città dove i fascisti del terzo millennio, come amano definirsi, si fanno ogni giorno di più aggressivi. Basti pensare che un mese fa le strade erano tappezzate di manifesti di CasaPound con la scritta razzista “Basta feccia” rivolta ai migranti.

A fare “buona” compagnia a Bergamo è Varese. Qui nel 2013 la maggioranza targata Pdl e Lega di fronte alla mozione presentata dal Pd si è trincerata dietro la libertà di coscienza. Conclusione: il nome di Benito Mussolini resta sul registro comunale. Illuminanti le parole pronunciate allora dall’assessore Pdl Stefano Clerici, secondo cui Varese «al Fascismo deve molto, moltissimo, è e sarà sempre legata indissolubilmente alla figura di Benito Mussolini, piaccia o meno».

Se nella gran parte della città italiane il Pd, pur con l’eccezione di Bergamo, si è schierato per mettere mano al registro dei cittadini illustri, a Ravenna nel 2014 ha imboccato tutt’altra strada rispetto a quella che andavano prendendo nello stesso periodo Torino e Bologna (in quest’ultima città comunque Mussolini risulta ancora cittadino onorario): il consiglio comunale, a maggioranza Pd, ha infatti respinto la proposta di revoca: «È un errore da ricordare», ha detto in quell’occasione l’allora sindaco Fabrizio Matteucci, convinto che il nome di Mussolini debba restare come monito, perché «è un’occasione di riflessione sul perché il fascismo non deve tornare mai». Però il ragionamento si potrebbe benissimo ribaltare: quale migliore occasione per riflettere sul fascismo e sulle dittatura che la solenne cancellazione del nome di Mussolini dal registro dei cittadini illustri? Insomma, se è pacifico che la cancellazione non debba ridursi a un semplice e “revisionista” tratto di penna, ebbene il compito di costruire attorno a quell’atto consapevolezza e riflessione storico-politica spetta appunto alle amministrazioni locali.

 Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra; oggi collabora col Venerdì di Repubblica