Laura Wronowski, nella sua casa, circondata dai libri (da http://www.popolis.it/wp-content/uploads/2016/03/IMG_2591.jpg)

Laura Wronowski, nome di battesimo completo Francesca Laura Margherita Beatrice, milanese doc, un casato aristocratico di origini polacche, nipote di Giacomo Matteotti (sua madre e la moglie del deputato socialista erano sorelle), figlia, moglie e madre di giornalisti, partigiana combattente tra la Liguria e l’Emilia, quest’anno ha vinto il premio nazionale Anpi “Renato Fabrizi”.

Nelle ultime settimane si stanno ripetendo episodi violenti a sfondo razzista, in un clima generale che sembra di livore misto a odio e rabbia, che Italia è questa Wronowski?

Un clima contrassegnato dall’odio è sempre esistito. Non siamo affatto un popolo pacifico e tantomeno buono, anzi la nostra caratteristica principale è l’invidia, immotivata naturalmente. Di virtù il popolo italiano ne ha molte, è coraggioso, ha inventiva, ma è anche pieno di grandi difetti.

Teme il dilagare del razzismo?

Il razzismo è la reazione irrazionale del povero che non ha dimenticato la povertà. Il povero si difende, sempre, continuamente, da chi può danneggiare il suo minuscolo mondo. Ed è una protezione strenua e al contempo gretta e meschina.

Ci sono responsabilità?

Secondo me è la mancanza, tutta nostrana, del senso delle istituzioni che, siano buone o cattive, sono quelle che ci siamo dati e vanno rispettate. Semplicemente non abbiamo il concetto di Stato, come ordinamento, come comunità: siamo una tribù. Abbiamo fatto moltissimi passi avanti, ma ancora annaspiamo. E spesso chi è al vertice non si assume la responsabilità del ruolo, non dice a sé stesso “Io rappresento le istituzioni, è mio dovere cercare il confronto per capire, tutti insieme, come la pensiamo”. Andrebbero applicate le regole stabilite, invece chi deve prendere decisioni è uso farlo a ruota libera. Le leggi, a volte pur dolenti o crude, vanno rispettate, e da tutti. Altrimenti diveniamo disponibili a qualunque tipo di regime. Siamo un Paese un po’ fascistello…

Anche durante il fascismo si respirava un’aria simile?

Eccome, dettata dall’ignoranza, profonda. L’odio è figlio dell’ignoranza, non va mai dimenticato. Il fascismo è stato un regime sanguinario, ha ucciso e incarcerato. Quell’Italia era figlia dell’ignoranza, le scuole erano di modestissimo livello, le scuole per tutti, intendo. Licei e Università erano ottimi, riservati però a pochissimi.

È una questione di cultura democratica?

La cultura è importante. Infatti nazismo e fascismo non sono stati movimenti culturali, sono nati in difesa di privilegi economici.

E i partiti di opposizione?

Adesso è il vuoto. Badi bene, è una personalissima opinione: non sono una storica e neppure una studiosa. I cittadini singoli spesso possono fare poco e i movimenti dal basso muoiono quasi subito, perché comporta fatica sostenerli. La classe politica può contare solo su pochissime personalità di alto profilo, che nessuno vota perché fermarsi a riflettere, prima di scegliere, è impegnativo. Resta comunque, credo, l’attitudine a svicolare quando possibile, a non impelagarsi: restare a guardare fino a quando non si è trascinati dagli eventi, “non impegnarsi in prima persona” è la parola d’ordine generalizzata. È quanto ho imparato nell’arco della mia vita. Anche durante la Resistenza.

È stata partigiana in Liguria nella Divisione Giustizia e Libertà, aveva vent’anni.

La Resistenza è stata una breve e assolutamente anomala parentesi nella storia italiana. Considerata quasi “una stravaganza”. La maggioranza del Paese era attendista, aspettava passasse la bufera e attendeva l’arrivo degli Alleati, con la cioccolata e la democrazia. Figuriamoci… non sapevamo neppure cosa fosse la democrazia. “Qualcuno ci libererà, qualcuno ci penserà”, era il pensiero corrente, ma quel qualcuno eravamo noi. È stato difficile e faticoso farlo capire. Il senso della dignità di essere cittadini italiani, di dare il proprio contributo alla nostra Liberazione, apparteneva a una ristretta e isolata minoranza.

Giacomo Matteotti. Nel giugno 1924 il deputato socialista viene rapito e assassinato da una banda di sicari fascisti.

Il 7 luglio, con una maglietta rossa, in tanti sono scesi in piazza per esprimere solidarietà ai migranti e chiedere umanità e accoglienza. Sui social c’è chi ha scritto di voler “sputare in faccia” ai manifestanti.

Sui migranti non si tratta di essere pietisti. Dobbiamo aiutare ma, se avessimo coltivato il senso dello Stato, saremmo rispettati dagli altri Paesi. Potremmo concordare strumenti idonei per accogliere. Tutti dobbiamo accogliere, non solo noi. Quanto mai propositi comparsi sui social, si tratta di una mentalità molto volgare, e fa parte anche questa dell’essere italiano: cioè reagire senza ragionare. Mia madre raccontava che, dopo il delitto Matteotti, usciva ovviamente vestita di nero, a lutto, e tornava a casa ricoperta di sputi. Se fosse accaduto oggi, sicuramente si sarebbe trattato di insulti verbali sui social network, immagino. Ho 93 anni e non li frequento, ma è tipico del carattere italiano insultare la vittima. Mio padre era caporedattore al “Corriere della Sera” e, dopo l’omicidio, si dimise per protesta contro la posizione assunta dal giornale durante la crisi. Era l’unica vera arma civile di cui poteva disporre, anche se alla nostra famiglia, abbastanza agiata, costò un prezzo altissimo. Con lui si dimisero altri colleghi e anche il direttore, Alberto Albertini. Però erano ricchi di famiglia, mentre mio padre viveva del suo lavoro ed è rimasto disoccupato per anni. Da Milano ci trasferimmo in Liguria, nelle valli si poteva campare con poco. La vita è stata durissima.

La sua famiglia era di origine polacca, pensa possano trovare spazio in Italia tentazioni autoritarie, come sta accadendo in Polonia o in Ungheria?

Dobbiamo stare sempre in guardia. In Italia il concetto di democrazia è molto fragile, siamo il Paese del provvisorio che poi diventa sempre definitivo. Naturalmente non ci sarebbero olio di ricino e manganelli, tuttavia è un rischio latente, pronto a esplodere.

Ultimamente è stata avanzata anche l’idea di abolire a breve il Parlamento, perché superato, inutile.

Per carità, teniamoci stretto il Parlamento. In un Paese come l’Italia, in cui tutti si sentono padreterni, saremmo allo sbando.

La memoria della Resistenza potrebbe essere di aiuto, oggi, per cementare la democrazia?

La caratterista principale degli italiani è dimenticare, e senza memoria storica è complesso cercare di migliorare, cercare di camminare in maniera energica e dignitosa. La Resistenza, purtroppo, è stata per decenni solo una pesante celebrazione retorica, da ricordare unicamente in occasione di alcune date. È un modo, anche questo tipicamente italiano, di annientare fatti e avvenimenti. Giorno dopo giorno si è steso un velo che, uno strato dopo l’altro, è divenuto una coperta di amianto.

La giovane Laura Wronowski (da http://images.milano.corriereobjects.it/methode_image/2014/04/23/Milano/Foto-Milano-Trattate/FILMROSSIFOTO2-U430101781838639MAI-223×114@Corriere-Print-Milano-k2vH-U4301017981096442ED-512×384@Corriere-Web-Milano.jpg)

La sua scelta di combattere è stata “naturale”?

La mia famiglia era antifascista. Ribadisco: la Resistenza è stata opera di un numero molto esiguo di persone e, per quel che mi riguarda, la tradizione ed il clima familiare, insieme al mio temperamento, mi hanno portato a quella scelta. Mia madre aveva un istinto formidabile della libertà e della dignità, trasmesso ai figli con l’educazione e l’esempio. Amava la cultura ed era una grande lettrice. Gli avvenimenti di famiglia hanno poi inciso parecchio. Tante persone vicine a noi, anche a me, hanno pagato con l’esilio o la vita la loro opposizione alla dittatura. Erano pochi, scelti ma pochi. Nei loro confronti c’era insofferenza, dovevamo essere tutti conigli.

Si racconta che lei avesse buona mira.

Tutta la mia famiglia ha fatto la sua scelta e non si trattava di essere eroi. Mia sorella, per esempio, non ha combattuto ma si è comportata con dignità, ha fatto la sua parte. Sia chiaro, la nostra lotta poteva offrire appena un piccolo contributo di fronte a un esercito come quello nazista, armato fino ai denti, e il prezzo che abbiamo pagato è stato altissimo. Il “liberiamoci da noi”, agire, rischiare, cominciare a ideare una struttura istituzionale era considerato un pensiero rivoluzionario, molto poco accettato. C’è sempre stata, e c’è tuttora, una prudenza che frena: invece bisognerebbe ribellarsi, buttarsi nella battaglia, ovviamente solo verbale perché la democrazia è esclusivamente battaglia verbale, forte di argomenti, idee e confronto. E oggi è possibile. Indignarsi è ancora rivoluzionario. A me piaceva il rischio. Ancora adesso ho qualche tentazione, poi ricordo la mia veneranda età e gli acciacchi che ho.

Però va ancora nelle scuole a incontrare gli studenti e testimoniare la Resistenza.

Mi invitano e vado volentieri, pur uscendone talvolta con animo depresso. A scuola si dovrebbero formare i cittadini, invece gli insegnanti sono abbandonati, non hanno risorse né strumenti e sono demotivati. I ragazzi – tranne una ridotta minoranza – non sono interessati a imparare, convinti che uno smartphone o la tv spalanchino le porte della sapienza e della consapevolezza. Hanno difficoltà a capire che lo Stato non è qualcosa da occupare: siamo noi lo Stato. Purtroppo, la parola “comunità” è misconosciuta o invisa, e così la parola “impegno”.

Oggi cosa farebbe Wornowski? La sua voce non ha risentito dell’età.

Oggi abbiamo la possibilità di argomentare, di far valere il nostro pensiero verbalmente, giustamente aggiungo. Bisogna comprendere che la democrazia è battaglia quotidiana, sia sulle grandi idee sia sui piccoli progetti. E va intrapresa da ciascuno di noi. Certamente chiede tanto sforzo e impegno, ma dà immense soddisfazioni.