Erbil (Arbil), a sud est nel Kurdistan iracheno (da http://4.bp.blogspot.com/_UBiDrc6-RF8/ TMIiicOmTkI/AAAAAAAAAGs/1SH8pA-LGwQ/ s1600/mapofiraq.jpg)

In cosa consiste il tuo lavoro?

Con “Terre Des Hommes” mi occupo di protezione dei minori. Diamo supporto psicosociale in situazioni di disagio. Lavoro in territorio curdo anche se la maggior parte dei nostri beneficiari sono iracheni scappati dalle zone del nord occupate da Isis. Insieme a loro, ci sono anche profughi siriani e tutti gli abitanti che già vi vivevano. In primo luogo abbiamo un problema di accesso al diritto allo studio perché i bambini nei due anni in cui sono stati sotto il regime di Isis non sono andati a scuola e in molti campi profughi oggi l’istruzione non è garantita.

Inoltre, a causa della guerra per le famiglie sono aumentati i problemi economici e così anche i minori sono costretti a lavorare, fenomeno purtroppo molto presente in tutto il Paese.

 Cosa ti raccontano le persone che incontri dei mesi vissuti sotto il controllo di Isis?

C’è da affrontare un grande disagio sia tra gli adulti sia tra i bambini. Due anni sotto Isis ha significato lavaggio del cervello, paura. Le donne non uscivano di casa, soprattutto le giovani perché temevano di subire violenze o di essere punite se avessero mostrato una parte di corpo in più. Le famiglie temevano che le ragazzine più piccole fossero prese come spose dai mujaheddin, per scampare questo pericolo i genitori preferivano farle sposare al altri precocemente, per questo motivo in quei mesi sono aumentati di molto i casi di matrimonio minorile. Ho raccolto tante testimonianze dirette di violenze in pubblico, come esecuzioni in piazza o sommarie, che anche i bambini hanno visto coi loro occhi.

Durante la guerra c’è stato un periodo in cui ti sei trovata a vivere a dieci chilometri di distanza dal fronte con Isis; com’era la vita in quella situazione?

Ad Erbil, in realtà, non si è mai sentita particolarmente la guerra, è sempre stata un’isola felice. In strada non vedevi molti militari, anche perché il Kurdistan ha un efficiente sistema di intelligence che lavora in borghese.

L’Iraq è un Paese di cui abbiamo sentito parlare spesso a causa della grande avanzata di Isis, che ha perseguitato le tante e diverse minoranze della regione che vivono da secoli nello stesso territorio. Ci aiuti a comprenderne meglio le varie sfaccettature e le dinamiche?

Le minoranze principali, oltre ai curdi, sono quelle cristiane e yazide. C’è anche una piccolissima comunità di curdi ebrei di antichissima origine. La maggior parte di questi, tuttavia, negli anni ha fatto l’aliyah (immigrazione) per andare a vivere in Israele. I curdi sono una delle etnie principali dell’Iraq, molto rappresentati e con una larga autonomia da parte del governo centrale. Gli yazidi sono sempre stati bistrattati un po’ da tutti gli altri gruppi, soprattutto per via dei loro riti religiosi che sono assimilati al demonio. Il loro credo è un sincretismo molto antico tra animismo e parti dell’Islam. Si tratta di una minoranza di cui si conosce poco, non si sa bene neanche quanti siano. In passato, sono sempre stati sfruttati anche a fini demografici per bilanciare gli equilibri tra gli arabi e i curdi. Con la calata di Isis abbiamo assistito al loro genocidio e alla schiavizzazione sessuale delle donne, anche se dopo non se ne è più parlato. Anche i cristiani hanno una origine antichissima, tanto che nelle funzioni religiose parlano l’aramaico, la stessa lingua che parlava Cristo. Ora la presenza di questa minoranza nel Paese è molto ridotta, non solo a causa del terrorismo, ma anche per l’instabilità politica che ha caratterizzato l’Iraq dal 2003; durante il regime di Saddam Hussein i cristiani avevano una serie di benefici sociali e politici.

Miriam Ambrosini (da https://www.facebook.com/photo.php?fbid= 10207434933176370&set=a. 1382739413381.2051182.1378833168 &type=3&theater)

Tra loro, in Europa era famoso il vice Primo ministro (fino alla caduta del regime) Tareq Aziz, di discendenza greca e di fede cattolica caldea…

Esattamente. Oltre ai benefici statali, i cristiani ricevevano aiuto anche dalla Chiesa Cattolica: ad esempio, durante l’embargo godevano di doppi aiuti alimentari: sia quelli razionati dallo Stato iracheno per tutti i cittadini, sia quelli della Chiesa locale. Per questo non erano particolarmente ben visti dagli altri gruppi. E dopo il 2003, quando gli sciiti hanno preso il potere, si sono rifatti contro tutti i gruppi etnici che in precedenza erano tutelati: i sunniti, i palestinesi rifugiati e i cristiani. Questi ultimi due, essendo numericamente minori, sono in gran parte emigrati all’estero. Da allora cominciò la diaspora dei cristiani dal Paese.

Insomma, è un rapporto complicato quello tra iracheni e minoranze.

La convivenza in Iraq è stata abbastanza pacifica fino a circa il 2006-2007 quando, in seguito alla caduta di Saddam Hussein e con la nascita di realtà fondamentaliste, sono iniziate una serie di lotte più tribali che etniche che hanno trascinato con sé anche il tema religioso.

Tareq Aziz, viceprimo ministro iracheno ai tempi di Saddam Hussein (da http://www.barbadillo.it/43343-esteri-ballario-aziz-storia-baath/)

E le persecuzioni di Isis?

Tra Isis e le minoranze non si è trattato di guerra di religione: i terroristi non sono andati a cercare solo i cristiani, ma cacciavano tutti quelli (sunniti compresi) che non la pensavano come loro. Nell’occupazione dello Stato Islamico persistevano comunque delle vaste zone a maggioranza cristiana come, ad esempio, il villaggio di Qaraqosh. Mentre, ad esempio, alcuni musulmani sunniti hanno accettato di sottostare alla legge di Isis, per i cristiani questo non è stato possibile e così molti sono fuggiti a Erbil e tanti altri sono emigrati in Europa.

 Secondo te, questi gruppi torneranno mai ad abitare quelle terre?

È molto complicato, adesso c’è una forte spinta religiosa e politica a tornare ad abitare quei luoghi che si teme vengano islamizzati. È anche vero che i cristiani, accolti molto bene dai curdi (molto più degli altri arabi iracheni) non sono sempre motivati a tornare a vivere nei villaggi di origine perché sono stati distrutti, minati e non c’è lavoro.

In occidente pensiamo ai curdi come un unico popolo sotto il giogo e la persecuzione etnica dei vari Paesi dentro i cui confini vivono. È proprio così o si tratta di uno stereotipo?

I curdi hanno molte differenze che li dividono tra loro. Per questo il mito dello Stato curdo con il quale siamo cresciuti è fallito da un pezzo. Anche gli stessi attivisti ormai sembra si siano convinti di questo: non parlano neppure la stessa lingua tra loro. Bisogna vedere se i curdi del Rojava, nel nord della Siria, riusciranno a mantenere la forma di governo, interessantissima, basata sul socialismo, e con una parità di genere per cui ogni carica pubblica deve essere condivisa da un uomo e una donna. Loro, ad esempio, se resisteranno militarmente, mirano a un confederalismo democratico all’interno dello Stato siriano. Diversamente, i curdi iracheni inseguono il desiderio di un raggiungimento di maggiore autonomia. La scena politica di quest’area è segnata in particolare da due partiti-tribù: quello di Barzani e quello di Talebani, della parte vicina all’Iran, di ispirazione sciita e più filogovernativo con Baghdad, con il quale il Governo ha trattato il giorno successivo al referendum indipendentista voluto da Barzani. Dalla caduta di Saddam fino a settembre 2017, infatti, i curdi iracheni hanno goduto di una quasi totale autonomia rispetto al governo nazionale. Hanno un loro esercito e leggi diverse in materia di immigrazione, con controllo diretto dei propri confini, l’unica cosa che gli mancava era battere moneta. Con le leggi varate sulla ripartizione dei proventi della vendita del petrolio si erano talmente arricchiti da poter godere, solo per l’appartenenza etnica, di una sorta di reddito di cittadinanza di circa 800 euro. Con questo sistema, un dipendente pubblico non dirigente (circa il 90% dei lavoratori) arrivava a guadagnare anche 5.000 euro al mese. Tutto questo flusso di ricchezza è arrivato in un sistema statale basato sulle tribù, con un tasso di corruzione altissimo che li avrebbe portati prima o poi al collasso. A settembre è stato indetto un referendum per l’indipendenza dall’Iraq, ma la classe politica non ha calcolato che tutto il mondo intorno gli avrebbe remato contro. Questo ha segnato la disfatta di Barzani: il giorno dopo le votazioni, il Governo iracheno, con il sostegno delle potenze occidentali, ha reagito revocando gran parte delle autonomie di cui quei curdi godevano precedentemente e chiudendo per sei mesi l’aeroporto con un enorme danno economico. Tra i curdi iracheni e quelli siriani non corre buon sangue, anche perché con l’arrivo dei profughi dal nord della Siria sono cominciate le stesse dinamiche che vediamo in Italia del “dovrebbero dare prima il lavoro ai curdi iracheni” o “tutti aiutano i rifugiati e non aiutano noi”.

Mas’ud Barzani, già Presidente della regione del Kurdistan iracheno, provincia autonoma dell’Iraq, dal 2005 al 2017 (da http://www.kurdistan24.net/en/news/1d237ea1-070a-476e-80f6-f4b361df0f9f/Barzani–%25E2%2580%2598Iraq-a-failed-enterprise%25E2%2580%2599)

Com’è il presente e come sarà soprattutto il futuro di quelle terre?

Innanzitutto per capirlo si dovrà attendere il 12 maggio, quando ci saranno le elezioni. Sicuramente il partito “indipendentista” di Barzani si è indebolito, tant’è che è sparito dalla scena politica e lui sembra non si trovi neppure nel Paese, ufficialmente per motivi di salute. L’esito elettorale tra il suo partito e quello di Talebani è comunque molto incerto e si spera non porti a uno scontro tra sunniti e sciiti, come sta avvenendo in gran parte del mondo arabo oggi. Al momento, gli sciiti in Iraq (influenzati tantissimo dall’Iran) detengono il potere ma allo stesso tempo la Turchia sta facendo sempre più sentire il proprio peso nella regione ed è concreto il rischio che l’Iraq si trasformi in uno scacchiere dove mostrare la propria forza nell’area. Ci sono alla base una serie di problemi irrisolti tra le varie etnie. Inoltre, ci sono i rischi di vendette personali con i jihadisti e i loro familiari, anche se per ora non ci sono stati molti casi.

Qual è stato il tuo impatto la prima volta che sei arrivata a Erbil e come ti sei sentita accolta?

Forse non me l’aspettavo così. Come tutti, immaginavo un Paese molto più povero e in guerra. Invece Erbil è come una città media della provincia italiana, anche a livello di servizi, ha assolutamente tutto. Più approfondivo, più avevo una grande confusione in testa: il Medioriente non è facile da capire nelle sue dinamiche. L’accoglienza che ho ricevuto è stata positiva, anche se nelle zone un po’ più rurali in cui lavoro lo straniero è visto ancora con sospetto. In generale, il Paese è aperto e moderato e la gente è abituata a vedere gli stranieri perché ci sono sempre stati, essendo fin dall’antichità una terra di scambi. Anche il fatto di non essere musulmana non rappresenta un problema, anche se inserirsi nel contesto della Chiesa locale non è facile, per via della lingua e dei riti liturgici molto diversi dai nostri. La Chiesa dispone anche di milizie proprie, che hanno contribuito a liberare la zona da Isis e che vengono impiegate per sorvegliare i luoghi di culto.

Tornando in Italia, come ti sembra il dibattito su ciò che accade in quell’area?

Si fa un sacco di confusione e di semplificazione, come ritenere che tutti gli immigrati siano musulmani e terroristi. Si propugna l’idea che un rifugiato politico sia un immigrato irregolare, ma non è così: noi abbiamo degli obblighi umanitari di cui non si parla. Si fanno un sacco di generalizzazioni sulle donne, si presume siano sottomesse da mariti violenti, condizione ben lontana dalla realtà. Non si fa neppure lo sforzo di provare a spiegare cosa succede, forse anche perché un po’ di responsabilità noi occidentali l’abbiamo per quello che è successo in Iraq dopo il 2003.