Shama (Tiro, Libano) – «Ci vorrà almeno un’altra generazione di persone per tracciare il confine. Abbiamo avuto dieci anni di pace e questo è fondamentale perché le cose proseguano nella giusta direzione». Il tenente colonnello Paul Kennedy, irlandese, è la memoria vivente della Missione UNIFIL, cioè la Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite. Lui era in Libano nel 1978 e – ricordando quella guerra e poi l’ultima del 2006 – nutre concrete speranze per il futuro: «nessuno vuole tornare a quei giorni, ora le cose vanno meglio e si guarda avanti».

Questa missione nacque quasi quarant’anni fa, nel marzo 1978, a seguito dell’invasione del Libano da parte di Israele. Lo scopo fu quello di mantenere il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano, garantire la pace e la sicurezza nell’area e supportare il governo libanese nel ripristino della sua autorità attraverso le LAF, cioè le forze armate libanesi.

Nel giugno del 1982 però Israele invase il Libano per la seconda volta e stabilì una zona di sicurezza all’interno del Paese che restò invariata fino al ritiro del 2000.

In seguito, in preparazione del ritiro dal Libano da parte delle forze israeliane (IDF), le Nazioni Unite identificarono la cosiddetta “linea del ritiro”, nota come Blue Line cioè la zona di confine del Libano internazionalmente riconosciuta. Oggi 51 km di questa “linea immaginaria”, perché non è un confine vero e proprio, sono sotto la responsabilità italiana. Il contingente italiano è – dopo quello indonesiano – il più numeroso. E lo scopo principale dei caschi blu italiani è proprio quello di monitorare la Blue Line: ogni giorno ci sono una media di 7-8 violazioni da parte sia israeliana sia libanese. I militari italiani però ovviamente non fanno da arbitro, ma da guardalinee, devono annotare tutto e riferire al comandante UNIFIL ogni violazione, ogni provocazione, ogni movimento.

Nel tempo successive risoluzioni delle Nazioni Unite, con cadenza semestrale, hanno prorogato la missione. Gli ultimi scontri militari tra Libano e Israele però risalgono al 2006. Allora ci furono 34 giorni di guerra tra le forze di difesa israeliane e le milizie di Hezbollah, conosciute anche come “il partito di Dio”, una formazione politica sciita del Libano.

Dopo un’intensa attività diplomatica e tantissimi danni alle infrastrutture civili, soprattutto nel sud del Paese dei cedri, si ottenne una tregua culminata con la risoluzione n. 1701 del 2006 che integrò e rafforzò la missione Unifil già presente.

Siamo a sud del fiume Litani, dove il confine di Israele è visibile a occhio nudo, l’animata vita notturna di Beirut sembra lontana quasi quanto quella di New York, e della guerra in Siria invece si sente perfino l’odore. Questa “sottile linea blu” – cioè un confine/non confine che è la migliore approssimazione possibile – appartiene a un’area delicata e speciale del Medio Oriente che tiene insieme tante realtà e diverse aspirazioni.

«Gli italiani sono i più prospicienti all’Israele attivo, hanno nella loro zona di monitoraggio tre basi avanzate», ci spiega Massimo Crocco Barisano Colizza, il comandante dell’Italbatt cioè l’unità di manovra operativa del settore occidentale di UNIFIL.

«La quotidianità della Blue Line è fatta da militari italiani in assetto da peacekeeper che pattugliano 24 ore su 24, in tutte le direzioni, questa linea di demarcazione tra Libano meridionale e Israele – continua Crocco -. Lungo la Blue Line tra i due Paesi ci sono i cosiddetti Blue pillar, cioè dei serbatoi dipinti di blu con la scritta UN che identificano i punti di confine già tracciati». Ad oggi sono stati posizionati solo 313 pillar su 527. In ogni caso la demarcazione di questa linea tramite i piloni blu dell’Onu non ha effetti su possibili accordi futuri.

Poi ci sono parti della Blue line che sono ancora oggetto di contenzioso, villaggi turistici divisi, famiglie al di qua e al di là della linea di separazione tra i due paesi e porzioni di territorio attraversati da fiumiciattoli o avvallamenti che restano ambigui, sospesi. Non si sa a chi appartengono, se al Libano o a Israele. Sembra tutto irreale, kafkiano. Tra le ambiguità che potrebbero sfociare in nuove tensioni c’è la questione del confine marino: le boe blu a forma di omini che identificano la linea di demarcazione anche in mare vengono ripetutamente spostate dagli israeliani in maniera unilaterale, come ci dicono i militari, perché in quell’area ci sarebbe un grosso giacimento di gas.

Mentre attraversiamo scortati la “linea blu” – e osservati a distanza – il silenzio, l’ocra della terra, la polvere sollevata dai mezzi blindati, il paesaggio mediterraneo si mischiano e creano una specie di gabbia. Ogni tanto i cartelli rossi di pericolo ci avvertono che ci sono ancora le mine, ordigni inesplosi lasciati là durante la guerra. Purtroppo è frequente che qualche bambino che si avventura giocando ne faccia le spese. L’attività di sminamento prosegue ma stiamo parlando della zona del mondo in cui è più alto il numero di questi ordigni.

Militari italiani della missione UNIFIL in Libano (da http://www.lapresse.it/sites/default/files/styles/737×415/ public/import_images/20130904_0092.JPG?itok=wVisjJzu)

Ci avviciniamo in coincidenza del confine marittimo e terrestre, dove c’è l’unico cancello di ingresso verso Israele. Anche questa base avanzata, la 1-32 α, è gestita dagli italiani.

Quando Israele per esempio decide di rilasciare un prigioniero libanese lo fa passare da qui, dal gate degli italiani.

Questa base avanzata ospita anche gli incontri del Tripartito, cioè l’unico momento ufficiale dove l’ONU – attraverso il comandante della missione – ospita le due parti contendenti, israeliane e libanesi, cercando di implementare i rapporti di pace.

Tra i compiti della missione UNIFIL c’è anche quello di dare assistenza alla popolazione locale attraverso diversi progetti. Accompagniamo alcuni medici del contingente italiano nella loro attività di Medical care. Una mattina durante la settimana ci rechiamo ad Al Mansouri, una località a pochi chilometri da Tiro. Entriamo al piano terra di un edificio messo a disposizione dall’unione delle municipalità di Tiro. Mohamed Zein è il responsabile generale dell’ambulatorio, membro del consiglio delle municipalità. Ci accoglie con sorriso affabile e pieno di gratitudine per i medici. Nella sala d’attesa si vedono le bandiere di Amal, altra formazione politica libanese sciita presente in Parlamento.

Ci sono tanti anziani e donne in fila per la visita medica, oltre a bambini molto piccoli. Si aspetta in silenzio. Molti sono venuti dai villaggi vicini. Una giovane donna è appena arrivata con la sua bambina di quasi due anni e suo marito, non ha molta voglia di parlare: ci dice che è siriana di Aleppo, è scappata con poche cose due anni fa e ora vive in un insediamento informale con altre famiglie. Anche un’altra donna di mezza età ci dice che viene da un piccolo villaggio della Siria: «Sono qui in Libano con mio marito, i miei due figli e i nipoti. Abbiamo perso tutto a causa della guerra. Ho saputo da altri siriani che qui ci sono medici che curano gratis, che sono italiani e sono venuta», dice con un filo di voce. In questo ambulatorio, oltre ai libanesi in difficoltà, troviamo molti siriani.

Il Libano è un paese che, oltre ad aver accolto nel corso degli anni rifugiati palestinesi e iracheni, ospita anche molti siriani. Nel Paese dei cedri ci sono circa un milione di rifugiati: è nel mondo il numero più alto rispetto alla popolazione del piccolo Stato mediorientale, secondo il rapporto annuale dell’UNHCR.

Alla fine della giornata i medici, oltre alle visite, hanno dato ai pazienti anche medicinali frutto di donazioni raccolte in Italia. Molte volte queste persone, non importa se cittadini libanesi o siriani non registrati, se hanno urgenze si presentano ai cancelli della base di Shama, uno dei luoghi in cui è presente il contingente italiano in Libano.

Mentre andiamo via i bambini e anche ragazzi più grandi per strada salutano i caschi blu. La cosiddetta generazione UNIFIL, nata e vissuta durante la guerra, che conosce solo i paesaggi puntellati di macerie di questo angolo di Libano, che vede arrivare ogni giorno i fuggitivi di un’altra guerra vicinissima oltre confine, sarà quella che si farà carico un giorno della transizione e forse della pace.

Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi