I TRASCORSI FASCISTI DEL GIOVANE TAMBRONI

Fernando Tambroni
Fernando Tambroni

Ancona, 13 novembre 1926

al cospetto del mondo.

 «L’Avvocato Fernando Tambroni, già segretario provinciale del Partito Popolare, ha oggi rilasciato nelle mani del triumviro federale rag. Adenanti la seguente dichiarazione autografa:

«II sottoscritto dichiara sul suo onore di cittadino e di italiano di abiurare la sua fede politica nel disciolto Partito Popolare e di disinteressarsi di ogni e qualsiasi forma di attività che sia comunque contraria con il volere ed il pensiero del regime fascista che rappresenta oggi la nazione risorta nella coscienza di se stessa. Quanto oggi il sottoscritto afferma è la conclusione logica del suo atteggiamento politico da più di un anno a questa parte, atteggiamento alieno da ogni velleità di pensiero e di opere pubblicamente o privatamente esplicate ed espresse.

Dichiara inoltre che i dettami del regime, i quali hanno riconosciuto come forza spirituale ed elevatrice del popolo italiano la religione cattolica, identificano il suo passalo ed il suo presente di cattolico; riconosce in S.E. Benito Mussolini, restauratore della Patria italiana, l’uomo designato dalla provvidenza di Dio a forgiare la grandezza di un popolo al cospetto del mondo».

Avvocato Fernando Tambroni»

Dal libro “I fatti del 7 luglio – documentazione e testimonianze” di Giulio Bigi con prefazione di Ferruccio Parri, Edito sotto il patrocinio del Comitato di solidarietà antifascista di Reggio Emilia –1960


Da http://dellarepubblica.it.s3.amazonaws.com/Legislature/III-CRONOLOGIA/images/L3_60_07_10.jpg
Da http://dellarepubblica.it.s3.amazonaws.com/Legislature/III-CRONOLOGIA/images/L3_60_07_10.jpg

II 25 febbraio (ndr: 1960) si insediò il governo di Fernando Tambroni, che fruiva dell’appoggio esplicito del Movimento Sociale. Punto di svolta, sia pure in un contesto di una certa continuità. Si passava da sostegni più o meno sottobanco, più o meno sottaciuti, proprio all’eventualità che Zoli aveva teso ad escludere con il suo ultimo discorso, vale a dire alla collaborazione aperta.

II voto parlamentare di fiducia, avvenuto con queste modalità, innescò reazioni immediate. Si dimisero i tre ministri della sinistra democristiana Giorgo Bo, Giulio Pastore e Fiorentino Sullo. Sulla loro scia, ai primi di aprile, rassegnò le dimissioni l’intero governo.

Il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi
Il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi

II presidente della Repubblica Gronchi respinse queste dimissioni e rinviò il governo alle Camere. Era una decisione corretta dal punto di vista formale – il ministero aveva avuto la fiducia delle Camere, quindi era legittimamente in carica – ma tale, negli agitati frangenti di quelle giornate, da far precipitare la situazione.

L’ANPI prese immediata posizione contro il governo Tambroni con questa appello: «A quindici anni di distanza dalla fine della vittoriosa guerra di Liberazione che il popolo italiano si accinge a celebrare con l’animo e le aspirazioni più che mai rivolte a una maggiore apertura democratica della vita nazionale, la cecità della classe dirigente italiana regala al Paese un governo il cui contenuto politico e programmatico ha trovato soltanto l’entusiastico consenso dei fascisti. Nel momento in cui l’Italia celebra il centenario dell’impresa dei Mille, tappa gloriosa della nostra storia risorgimentale, si presenta alla ribalta politica del Paese un governo dichiaratamente conservatore, tale bollato senza possibilità di fallo dall’appoggio fascista che segna una tappa nera sulla strada della degenerazione antidemocratica. L’ANPI denuncia al Paese questo grave atto che offende i sentimenti democratici e patriottici del popolo italiano e il suo immenso sacrificio nel corso della lotta antifascista e partigiana. Nessuna fiducia della Resistenza a un governo che tresca con chi abbandonò l’Italia ai nazisti invasori, affiancandone la feroce oppressione. Nessuna esitazione: non si va contro la storia; non si governa contro il popolo. L’avvenire, lo sviluppo democratico, le fortune del Paese, sono legate alla sua avanzata sulla strada indicata dalla Resistenza e tracciata dalla Costituzione repubblicana. Dell’una e dell’altra il fascismo è la negazione e chi si allea con esso è destinato a dividerne la vergogna e la responsabilità. L’ANPI chiama i partigiani di tutta Italia alla vigilanza e alla lotta democratica e unitaria contro questa pericolosa involuzione che minaccia di paralizzare la Nazione. Tutti gli uomini – laici e cattolici – che si richiamano alla Resistenza e alla Costituzione per guardare con fiducia all’avvenire del Paese sapranno unire le loro forze perché l’Italia abbia finalmente un governo che esprima la sua storia, le sue aspirazioni, la sua decisa volontà di rinnovamento e di progresso. Ciò è possibile e necessario».

Rispetto ai numerosi documenti che ci è capitato di ricordare, questo suonava come un chiaro appello alla mobilitazione, nella consapevolezza che non c’erano ormai più margini e che non erano ulteriormente rinviabili chiarimenti di fondo nella situazione italiana.

È il discorso che il giornale dell’ANPI faceva all’organo della FIVL. Europa Libera aveva pubblicato un fondo intitolato «Un governo che non ci piace»; aveva denunciato torbidi risvolti: «… le forze eversive di destra (della destra economica come della destra politica) hanno imposto le loro preclusioni per impedire il logico sviluppo della crisi stessa, cioè di risolverla con un governo di “centro-sinistra”», per concludere ancora con una dichiarazione di attesa.

Patria indipendente incalzava, affermando che ormai il tempo delle attese era finito. Non era più sufficiente protestare e denunciare. Bisognava che i dirigenti dei partigiani cattolici superassero vecchie pregiudiziali ormai parecchio svuotate dei loro significati originari e si battessero insieme con le forze politicamente riunificate della Resistenza.

A rendere letteralmente incandescente una situazione già più che tesa intervenne la decisione del Msi di tenere il suo Congresso Nazionale a Genova, città Medaglia d’Oro al valor militare per il contributo dato alla lotta di Liberazione, in un cinema vicino al sacrario della Resistenza. Oltre a tutto, era annunciata la partecipazione al Congresso di Carlo Emanuele Basile, già prefetto della città durante la Repubblica Sociale, condannato a morte nel 1946 con sentenza poi commutata in 30 anni di reclusione.

licata-1960Ai primi di luglio, la deflagrazione. La polizia intervenne sparando per disperdere manifestazioni popolari in diverse città. Cinque i morti a Reggio Emilia, altri morti e feriti a Licata, Catania, Palermo; carica della polizia a cavallo a Roma, a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza della città ai nazisti, con ferimento di diverse persone, tra cui alcuni parlamentari. A Ravenna, il 2 luglio, ci fu un attentato fascista contro Arrigo Boldrini, medaglia d’oro e presidente dell’ANPI. La sua abitazione, in via Santi Muratori, fu incendiata. Danneggiato l’ingresso. «Non mi sono lasciato spaventare allora, figurati adesso!», lo scarno commento del partigiano Bülow.

Nel corso di questi avvenimenti intervennero anche le dimissioni dalla presidenza della FIVL di Raffaele Cadorna, per il suo atteggiamento di disponibilità di fronte al governo Tambroni e l’elezione, al suo posto, di Enrico Mattei.

Tutto il Paese stava esplodendo, con una mobilitazione di proporzioni tali che ne rendeva difficile l’attribuzione in esclusiva all’iniziativa di partiti o movimenti. II governo, con una Dc sempre più defilata, perplessa e dilaniata al suo interno rispetto a quello che stava avvenendo, non poteva reggere. Fu revocata la convocazione del Congresso del Msi.

Il Presidente del Senato Cesare Merzagora
Il Presidente del Senato Cesare Merzagora

II presidente del Senato Cesare Merzagora, seconda carica della Repubblica, avviò un’iniziativa di mediazione tendente ad evitare ulteriori tragedie nelle piazze e nelle strade italiane: forze politiche e sociali avrebbero dovuto impegnarsi a sospendere ogni agitazione per quindici giorni; il governo avrebbe dovuto ritirare la polizia nelle caserme; si sarebbe dovuto svolgere in Parlamento un dibattito sulla situazione politica. II Consiglio federativo della Resistenza, con una scelta responsabile, accolse subito le proposte di Merzagora.

Ma la battaglia era ormai sostanzialmente vinta. Il governo, dopo vari tentativi di non prendere atto della situazione, abbandonato a se stesso anche dalla segreteria della Democrazia cristiana, si dimise.

All’indomani dei fatti del luglio 1960 ci fu qualche screzio tra l’ANPI e il Pci, che tendeva ad ascrivere la mobilitazione popolare a suo esclusivo titolo. A nostro parere, così non era. La risposta era stata tanto imponente da non poter essere ricondotta all’iniziativa di un solo partito, per quanto forte e organizzato.

Uno dei commenti più adeguati ci pare quello di Paul Ginsborg nella sua «Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi»: «La vicenda Tambroni chiarì una volta per tutte quella che doveva essere una costante nella storia politica della Repubblica: l’antifascismo era divenuto parte integrante dell’ideologia egemone, specialmente nel Nord e nel Centro Italia. Ogni tentativo di svolta autoritaria e ogni attacco alle libertà costituzionali avrebbe incontrato l’opposizione di un grandioso e incontrollabile movimento di massa di cui le forze comuniste sarebbero state una componente importante ma non certo unica. […] I fatti di Genova erano strettamente legati alla Resistenza, da cui ricevevano la loro legittimazione».

Dagli avvenimenti di quel luglio derivava, inoltre, una precisa conclusione: «Le rapide dimissioni di Tambroni – è ancora Ginsborg a parlare – stabilirono anche un’altra regola della politica italiana: la Democrazia Cristiana non poteva sperare di governare con l’appoggio del Msi o dei monarchici. La strada verso destra era così definitivamente chiusa, quella a sinistra era aperta ma ancora del tutto inesplorata».

(da: “Per la libertà d’Italia per l’Italia delle libertà – Profilo storico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia” di Lucio Cecchini – Volume 1° – 1944-1960)