stampa-guerra-finitaL’armistizio e la resa dell’Italia agli alleati, l’8 settembre ’43, si sono appena abbattuti sul Paese attonito e smarrito, stremato da tre anni di guerra disastrosa come non mai, voluta dal fascismo e persa, che l’abituale disprezzo tedesco trova rinnovata espressione nelle parole che il ministro alla cultura e propaganda Joseph Goebbels scrive nel suo diario: «Mussolini è l’ultimo romano, ma dietro la sua figura potente un popolo di zingari terminerà di imputridire».

Joseph Goebbels
Joseph Goebbels

È il 10 settembre e a Berlino l’alto dirigente nazista, accecato dall’alterigia, non immagina che in diverse piazze e strade italiane quel «popolo di zingari» affronta armi alla mano, affiancando vari reparti militari, le potenti truppe tedesche calate numerose nella penisola all’indomani del crollo del fascismo il 25 luglio. Così a Roma, Gorizia, Sestri, Piombino, La Maddalena, Milano, Ferrara, Piacenza, Cuneo, Savona, Ascoli Piceno, Treviso, Verona, Trieste, Capodistria. In Puglia, a Putignano, Bitetto, Canosa, Barletta, Trani, soldati e popolani attaccano e sparano sulla Wehrmacht. Nei giorni che seguono, la tracotanza germanica dovrà addirittura trattare con gli insorti di Napoli l’abbandono della città in rivolta e restituire 47 ostaggi dopo 4 giorni di furiosi combattimenti che meravigliano i nazisti. II colonnello Scholl e il maggiore Sakau si umiliano a parlamentare con gli insorti protetti dalla bandiera bianca. Dopo Napoli i tedeschi dovranno fronteggiare altre sollevazioni popolari a Lanciano, Capua, Matera, Santa Maria Capua Vetere. A Gorizia le truppe naziste verranno impegnate in battaglia aperta dagli operai dei cantieri navali di Monfalcone. A Bosco Martese, nel Teramano, civili e militari danno vita a un forte gruppo armato che attacca i soldati del Reich. Ovunque la reazione tedesca è devastante: a Roma e Monterotondo ci sono 414 militari e 156 civili uccisi, oltre 700 feriti (dati del Ministero della Difesa), 211 caduti civili e militari e 162 feriti a Napoli, 21 ostaggi uccisi a Matera, 7 a Grazzano, 54 a Bellona, 11 giovani uccisi a Lanciano, 11 ufficiali fucilati a Nola, 16 massacrati a Rionero in Vulture, altre centinaia a Maddaloni, Teverda, Riardo, Sparanise, Mondragone, Galluccio, Teano, Grazzanise, Piedimonte d’Alife, Rocca d’Evandro, Aversa, Ascoli Satriano, Cerignola, Serracapriola.

«È la prima volta nella storia d’Italia – nota lo storico Roberto Battaglia – dal ’48 (il 1848, n.d.a.) in poi che il popolo interviene spontaneamente a fianco delle Forze Armate, supera d’un balzo il distacco tradizionale» (Storia della Resistenza, Einaudi, 1953). E a proposito dell’incontro tra militari e civili per la difesa di Roma osserva ancora – anche con valenza più generale – che l’intervento dei civili «svela tutta la sua importanza non solo militare, ma politica… Sono episodi assai confusi, di cui è difficile rintracciare volta per volta l’origine e il risultato; ma certo è che quella resistenza disperata, dispersi in uno spazio quanto mai vasto, isolati l’uno dall’altro, si mischiano insieme i vari ceti sociali e le generazioni diverse, l’operaio e l’ufficiale, il vecchio e il ragazzo; i primi bagliori dell’unità della Resistenza».

Giaime Pintor (da http://www.khorakhane.eu/wp-content/uploads/2013/11/giaime_pintor-229x300.png)
Giaime Pintor (da http://www.khorakhane.eu/wp-content/uploads/2013/11/giaime_pintor-229×300.png)

Bisogna sempre ricordare che l’8 e il 9 settembre 1943 segnano il precipizio dell’intera nazione nel baratro della dissoluzione delle forze armate, della fuga del Re e del capo del governo Badoglio al sud seguiti, nel caos, dai massimi comandi militari, che sanciscono l’occupazione tedesca della penisola. Tra le tante amare testimonianze, il senso dell’immane tragedia è riassunto nelle notazioni stese da Giaime Pintor, un giovane ufficiale che qualche settimana dopo perde la vita nel tentativo di passare la linea del fronte per arruolarsi nel nuovo esercito italiano. Ricorda Pintor: “I soldati che nel settembre scorso traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti» (Il sangue d’Europa, Einaudi, 1950).

Tedeschi dell’Afrika Korp (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/96/Bundesarchiv_Bild_101I-782-0016-34A,_Nordafrika,_Halbkettenfahrzeug_mit_Pak.jpg)
Tedeschi dell’Afrika Korp (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/96/Bundesarchiv_Bild_101I-782-0016-34A,_Nordafrika,_Halbkettenfahrzeug_mit_Pak.jpg)

Rammento che all’epoca, studente a Mestre, il senso della disfatta immensa in cui il fascismo aveva gettato il Paese e la gente, poteva essere riassunto – anche simbolicamente – dalle incredibili scene del disarmo di centinaia di soldati della caserma Matter ad opera di una decina di tedeschi dell’Afrika Korp, in pantaloni corti color sabbia, berretto di tela e occhiali, mitragliatori spianati, con due sole autoblindo. Disfatti, come annichiliti, avviliti più nello spirito che nel fisico, i nostri soldati vengono ammassati sul Terraglio (strada Mestre-Treviso) e spinti verso la stazione ferroviaria, caricati sui treni verso la prigionia in Germania. Alle Olme di Mogliano Veneto la caserma era stata via via abbandonata. Con l’apporto di un sergente rimasto, aiutati da un gruppetto di coetanei e da alcuni militari già sbandati, ci adoperammo per raccogliere e nascondere un piccolo quantitativo di armi, munizioni, bombe a mano servite il mese successive al nucleo partigiano costituito nelle vicinanze. Come osserva lo storico Claudio Pavone, dell’Università di Pisa, “II quadro deve essere arricchito con il ricordo delle manifestazioni di solidarietà e di aiuto che gran parte della popolazione subito offrì agli sbandati e ai fuggiaschi. Era una solidarietà la cui essenza stava nel suo manifestarsi attraverso atti concreti. Accanto ai primi barlumi di resistenza attiva, in quei giorni furono largamente gettati i semi della resistenza passiva, intesa come creazione di un clima e di un ambiente favorevoli alla prima» (Una guerra civile – Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati-Boringhieri editore, Torino, 1991).

Herbert Kesserling
Herbert Kesserling

È una solidarietà spesso originata spontaneamente da sentimenti che si possono definire inconsciamente traslati: nelle campagne del Trevigiano ricordo di donne che aiutano i soldati sbandati esprimendo la speranza che altre madri, spose e sorelle facessero la stessa cosa verso i propri congiunti in altre località e all’estero. Appena nominato da Hitler al comando generale del gruppo di armate tedesche del Sud, I’11 settembre, il maresciallo Herbert Kesselring (dichiarato criminale di guerra da un Tribunale militare inglese, processato a Venezia nel ’47, riconosciuto colpevole, condannato alla pena capitale, commutata in ergastolo, scarcerato nel ’52) emana la seguente ordinanza: “Il territorio d’Italia a me sottoposto è dichiarato territorio tedesco. In esso sono valide le leggi tedesche di guerra”. Quindi non solo di occupazione militare si tratta ma di vera e propria annessione di fatto, accompagnata dall’imperio della legislazione di guerra germanica. L’agghiacciante ordinanza provocherà lutti, stragi e distruzioni quali l’Italia non aveva mai sofferto nella sua millenaria storia.

Se Roma, e altre località costituiscono gli esempi più estesi della presenza dei popolani accanto ai militari contro le forze tedesche, altri importanti fatti d’arme non sono mancati. A Piombino il 9 e 10 settembre folti gruppi di operai si schierano con la guarnigione per respingere uno sbarco germanico proveniente dalla Corsica. Operai e marinai si alternano ai cannoni costieri, servendo le batterie, sparando dalle trincee, costruendo sbarramenti al porto. La sconfitta tedesca è completa: diversi soldati fatti prigionieri, mezzi da sbarco affondati, un cacciatorpediniere danneggiato (E. Azzolini: Fuoco a Piombino, in «Vie Nuove», n. 35, 1952). In Sardegna l’isola de La Maddalena diviene teatro di un’altra accesa battaglia tra la guarnigione tedesca e gruppi di marinai e operai armati tra il 9 e il 12. Dopo ripetuti scontri l’isola viene riconquistata con la sconfitta e la resa del presidio germanico, gli ufficiali costretti a braccia alzate e disarmati da quei reparti misti di marinai e popolani. A Milano e in altre città, tra il 9 e il 10, si organizzano squadre di operai armati che offrono appoggio e collaborazione ai reparti militari; si tenta a Milano anche la formazione di una Guardia Nazionale, che nonostante la disponibilità di numerose fabbriche non avrà pratica costituzione. Quasi tutto resta infruttuoso soprattutto a causa dell’aperta ostilità del comandante militare della piazza, generale Vittorio Ruggero, che punta a disarmare i civili minacciando anche l’intervento dell’esercito. In corso Buenos Aires si vedono mezzi corazzati leggeri, in servizio di ordine pubblico, fronteggiare alcune squadre di operai armati. Popolani e militari riescono a collaborare sporadicamente. La sera del 9, al centro della città, i nazisti tentano di occupare la stazione ferroviaria respinti da diversi gruppi di civili ai quali si uniscono militari sbandati.

II giorno dopo il generale Ruggero emana un proclama nel quale annuncia che «chiunque userà le armi contro chiunque sia, sarà senz’altro passato per armi sul posto»; proibisce altresì la consegna di qualsiasi arma ai civili e il divieto di tenere assembramenti all’aperto oltre tre persone.

lapide-rippa-a-mantovaA Mantova reparti della divisione corazzata Adolf Hitler si apprestano a occupare i punti nevralgici impiegando 25 carri armati. Di fronte alla stazione ferroviaria si accende uno scontro con il presidio italiano del comando tappa nel corso del quale cade il capitano Marabini; scontri a fuoco si verificano in altre parti della città, davanti alle caserme. Il giorno 11, in piazza Martiri di Belfiore, i germanici sparano, uccidendola, su Giuseppina Rippa, intenta ad offrire qualche cibaria ai militari italiani catturati; il giorno dopo il sacerdote don Eugenio Leoni viene ucciso dalle SS mentre assiste e cerca di nascondere gruppetti di militari sbandati. A Piacenza numerosi popolani prendono parte alla difesa delle caserme attaccate da reparti motocorazzati tedeschi; sparatorie hanno luogo anche sui fiume Trebbia e sulla rotabile da Gossolengo. Tra i militari italiani ci sono 41 caduti, 5 tra i civili, molti i feriti. Nel Modenese i militari di guardia al campo per prigionieri alleati e donne di Nonantola mettono in salvo i reclusi nascondendoli nelle case dei contadini. A Rimini il presidio che sbarra la strada da Verrucchio a San Leo consegna gran parte del proprio armamento ai lavoratori locali che si costituiscono in nuclei partigiani. A Ravenna, la sera dell’8, davanti alla Questura un giovane ufficiale (è Arrigo Boldrini), futuro comandante della 28ª Brigata Garibaldi «Gordini») parla alla folla. A Ferrara, il giorno dopo, un gruppo di giovani armati di fucili ottenuti dai militari contrasta le avanguardie germaniche che avanzano sulla città con automezzi blindati. II 10 settembre vistose scritte inneggianti alla pace compaiono sui muri degli arsenali di Taranto e La Spezia tracciate con barattoli di vernice da marinai e operai. In Liguria, ad Arcola, la rete clandestina comunista ottiene dagli alpini del battaglione Monte Rosa armi e munizioni, avviandole sui contrafforti apuani di Fosdinovo e Sarzana; stessa cosa a Follo. A Novara un ufficiale di aviazione consegna agli operai due autocarri carichi di armamento vario. Tra il Biellese, il Canavese e la Val Sesia si tratta con i soldati la consegna di armi ed equipaggiamenti per diversi gruppi di civili intenzionati a lottare ma privi di mezzi bellici. Il 14 il tratto ferroviario tra Pavia e Mortara viene messo fuori uso da un gruppo di militari alla macchia e di civili per impedire il transito dei treni che portano in Germania i prigionieri nei carri bestiame.

In meno di dieci giorni l’occupazione tedesca dell’Italia, smarrita e prostrata, è completata. II 12 un commando di paracadutisti germanici libera senza colpo ferire Mussolini dalla blanda prigionia sul Gran Sasso. Il 15 settembre Goebbels annota ancora cinicamente sul suo diario: “La catastrofe italiana si è rivelata un buon affare per noi, sia con la cattura delle armi, sia con l’acquisto di mano d’opera». Ci sono centinaia di migliaia di militari italiani nei campi di prigionia in Germania (altri quattrocentomila sono nelle mani degli alleati). Solo le indicazioni degli antifascisti alla battaglia per la riscossa e per la liberazione nazionale riescono via via a scuotere le coscienze avvilite, sollecitando valori capaci di avviare il riscatto ideale e patriottico presente, anche in modo inconscio e confuso, in molte persone.

Da Patria Indipendente, 1993 – n° 14/15