Un altro anniversario senza verità, senza giustizia. Le famiglie dei cinque morti di Reggio Emilia, però, non si sono ancora arrese. Dopo tanti anni da quel 7 luglio 1960 non si è spenta in loro la dolorosa memoria della selvaggia strage perpetrata dalla polizia del governo Tambroni. E neppure nei tanti cittadini che, sul lastricato della medesima piazza ove avvenne l’eccidio, hanno rinnovato l’omaggio a Marino Serri, Emilio Reverberi, Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Afro Tondelli. Martiri della battaglia per la difesa del lavoro e della democrazia, i frutti migliori della Resistenza antifascista che uno sciagurato progetto autoritario già pretendeva di cancellare.

«I tribunali non ci hanno nemmeno voluto ascoltare», ricorda Ettore Farioli, il figlio di Lauro. Inutilmente, infatti, i famigliari delle cinque vittime chiesero fossero portate in aula le testimonianze di chi quel giorno aveva preso parte alla manifestazione antifascista indetta dai sindacati, e vide la folla inerme e pacifica improvvisamente aggredita con spietata determinazione. Prima i caroselli della camionette, il roteare dei manganelli, e poi il responsabile dell’ordine pubblico prese ad incitare gli agenti a sparare, a fare fuoco ad altezza d’uomo sotto i portici, tra gli alberi delle aiuole dove molti avevano cercato salvezza. Il cuore della città trasformato in un macello: più tardi sarebbero stati raccolti quattrocentocinquanta bossoli di cartucce esplose da pistole, moschetti, mitragliette. «Mi hanno ucciso come se sparassero a caccia», ebbe la forza di sussurrare una delle vittime. Tra i morti tre ex partigiani: Serri, Tondelli e Reverberi.

Altri venti testimoni si dichiarano oggi pronti a giurare come il commissario responsabile della pubblica sicurezza, Giulio Caffari Panìco, fuori di sé urlasse ai suoi uomini «sparate, sparate, non preoccupatevi, sparate». Poiché gli agenti, increduli anch’essi, sparavano in aria i primi colpi, volle gridare ancora «sparate, sparate verso le persone». Pochi istanti dopo i primi corpi dilaniati, e il primo morto, Lauro Farioli, assassinato sul sagrato della chiesa di San Francesco.

Il tribunale mandò assolto per mancanza di prove il commissario Caffari, ora deceduto, dalla imputazione di omicidio e lesioni colpose: ma ignorò coloro che già all’epoca lo accusavano, tra cui il deputato socialista Franco Boiardi. Strana vicenda, quella del commissario. All’indomani della Liberazione si trovò a coordinare a Reggio gli agenti ausiliari di polizia, giovani partigiani arruolati in servizio di ordine pubblico. Tra essi era il giovanissimo gappista Giglio Mazzi, il quale ricorda oggi nel libro “Non eravamo terroristi”, edito dall’Istituto Cervi, come Caffari si trattenesse con loro anche cantando “Bandiera rossa”. Ma nel 1947, il giorno in cui la sua nomina divenne effettiva, il commissario cambiò decisamente atteggiamento: entrò in caserma sventolando il fonogramma che gli annunciava la promozione, affrontò gli ausiliari pistola alla mano, urlando «ora vi farò crepare tutti, maledetti partigiani comunisti…». Gli ausiliari, in effetti, furono poi costretti a lasciare la polizia. Lui, il commissario Caffari, iniziò invece il percorso che l’avrebbe portato alla strage del 7 luglio.

Non è mai stato accertato quali ordini avessero ricevuto Caffari ed i reparti della polizia inviati nella notte a Reggio Emilia, e chi li avesse emanati. Nel 2005 la Camera lasciò cadere la proposta presentata dall’onorevole Antonio Soda di istituire una commissione parlamentare di inchiesta, che potesse tra l’altro esaminare gli atti ancora conservati al ministero degli Interni, e mai resi noti. Difficile del resto negare che Tambroni avesse in mente di reprimere brutalmente ogni dissenso popolare contro la decisione di formare il governo grazie ai voti neofascisti del Movimento sociale.

Una settimana prima c’era stata Genova. Dove gli antifascisti avevano impedito la celebrazione del congresso provocatoriamente organizzato dal Msi proprio nel teatro prospiciente il monumento dedicato ai caduti della Resistenza. La polizia si scatenò, i manifestanti contarono 83 feriti. Il cinque luglio a Licata (Agrigento) si sparò sugli antifascisti: un morto, e 24 feriti. Il 6 luglio a Roma reparti a cavallo attaccarono il corteo guidato dai parlamentari della sinistra: 68 feriti, tra i quali otto senatori e deputati. Morti e feriti si contarono, ancora l’otto luglio, a Palermo e Catania. Ai giorni di sangue ed ai tentativi di restaurazione messi in atto dalla destra politica si oppose la fermezza di Aldo Moro, il quale difese i valori della Costituzione e impose al suo partito una riflessione nuova che avrebbe portato, di lì a poco, ai primi governi di centrosinistra.

Ripensare a quegli avvenimenti, in un Paese seppure nel frattempo profondamente cambiato, è ancora utile. Necessario per l’onorevole Aldo Tortorella, chiamato a commemorare le vittime di Reggio nella sua qualità di ex partigiano e di testimone diretto di quelle ore. L’ex direttore de l’Unità si è detto sdegnato per il fatto che la cultura autoritaria stia riemergendo, sostenuta da una maggioranza politica che privilegia lo scontro, semina odio e nega solidarietà. C’è chi pubblicamente professa la fede fascista, violando la lettera e lo spirito della Costituzione. Si coltivano migliaia di siti web predisposti allo scopo; si manipola l’informazione per ribaltare la verità storica senza tema di sfidare il ridicolo, come ha fatto un giornale secondo cui il 7 luglio “operai armati” si preparavano a sparare sulla polizia per innescare gli incidenti.

Non basta: proprio a Reggio, e proprio il 7 luglio, alcuni movimenti neofascisti avevano preteso di tenere un convegno dedicato alla memoria dell’ex segretario missino Giorgio Almirante. La ferma reazione delle autorità cittadine ha impedito la squallida provocazione.

Il passato, dunque, rischia di ripresentarsi e di ripetersi drammaticamente. Per questo va sostenuta la richiesta dei parenti delle vittime del 7 luglio perché si faccia piena luce su quei tragici avvenimenti. Gli avvocati delle famiglie colpite e della Camera del lavoro ritengono che le nuove testimonianze renderebbero possibile la revisione del processo che assolse i funzionari di polizia. Ma le attuali procedure non consentono la revisione, se a chiederla sono le parti lese. Un vulnus che penalizza le vittime di questo e di altri delitti commessi da uomini dello Stato, e soltanto un pronunciamento della Corte Costituzionale può porvi rimedio.

Roberto Scardova, giornalista, già vice caporedattore e inviato speciale del Tg3