Recep Tayyip Erdoğan

Il voto del 24 giugno nel Paese della mezzaluna è cruciale. Tra poche ore i cittadini dovranno decidere se consolidare il potere dell’uomo forte al comando della Turchia sulla scena politica da quindici anni – Recep Tayyip Erdoğan, prima sindaco di Istanbul, poi primo ministro, infine presidente della repubblica turca o di quel che ne resta – oppure dare fiducia al fronte delle opposizioni per cercare di ripristinare lo Stato di diritto.

Erdoğan si sta giocando il tutto per tutto, ma rischia il ballottaggio che si dovrebbe tenere l’8 luglio. È fondamentale per lui ottenere la maggioranza per poter attuare la “fase finale” delle sue politiche. L’anno scorso infatti “il sultano” – così come lo chiamano ormai i commentatori politici – con la vittoria del sì al referendum costituzionale, ottenuta con strettissima misura, è riuscito a ottenere il via libera per un sistema presidenziale.

Dopo questo voto, se Erdoğan ancora una volta vincerà, si metteranno in atto le modifiche referendarie: il capo dello Stato potrà nominare i giudici senza consultare il Parlamento, emanare decreti legge e sciogliere le camere, potrà decidere le nomine dei dirigenti più alti in grado nel settore pubblico ed eserciterà il controllo esclusivo sulle forze armate. Con la riforma scomparirà anche la carica di primo ministro, non ci saranno controlli sul capo dello Stato che diventerà anche capo del governo. Gli emendamenti costituzionali renderebbero di fatto nulli i princìpi della Legge sulle istituzioni fondamentali approvata dalla Grande assemblea turca nel 1921, poco prima che Mustafa Kemal Atatürk, meglio noto come “padre dei turchi”, proclamasse la nascita della repubblica di Turchia. Con l’attuazione di questa riforma Erdoğan avrà più potere di qualsiasi leader turco dai tempi dei sultani per questo in molti lo definiscono un leader neo-ottomano. Anche per questo motivo le opposizioni – in questo voto anticipato convocato in tutta fretta e sotto uno Stato di emergenza perenne rinnovato diverse volte dal luglio 2016, quando ci fu il tentato golpe ai danni del presidente – si sono compattate e sanno che è l’ultima speranza per attuare lo Stato di diritto in Turchia.

Alleato di Erdoğan e del suo Akp, il Partito della giustizia e sviluppo di matrice islamista, è il partito dei “lupi grigi”, il Mhp, Partito di azione nazionalista.

Il candidato che potrebbe trovarsi al ballottaggio contro il sultano è Muharrem Ince, leader del Chp, Partito repubblicano del popolo, che ha promesso di abolire lo stato di emergenza una volta eletto e di voler tornare a un sistema parlamentare entro due anni.

La novità di questa campagna elettorale è Meral Aksener – è la prima donna a essere candidata a una carica così alta, già ministro dell’Interno tra il 96-97, anni molto bui dal punto di vista della repressione contro i curdi – soprannominata “la lupa” perché viene dalla destra nazionalista del Mhp, oggi è fondatrice e leader del partito Iyi, il Partito buono. Aksener, in un eventuale ballottaggio, ha detto che sosterrà il candidato repubblicano contro Erdoğan.

Il candidato che sarà determinante per questa elezioni è Selahattin Demirtaş, il leader curdo che concorre alla presidenza per l’Hdp, il Partito democratico del popolo, che quando arrivò – qualche anno fa – sulla scena politica come sfidante di Erdoğan alle elezioni del 2015 fu soprannominato dai media locali “l’Obama turco” (turco perché parlava non solo ai curdi ma a tutta la società turca), per la ventata di freschezza, per il suo impegno sui diritti civili e per la richiesta dello Stato di diritto. Oggi si trova nel carcere di massima sicurezza di Edirne – è in cella da più di venti mesi – con accuse legate ad affermazioni e parole usate durante i suoi discorsi pubblici a favore della pace tra curdi e turchi, contro la guerra tra Stato e Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan) che è costata al Paese 40mila morti e che è il vero problema di cui tutti evitano di parlare. In ogni caso il voto dei curdi sarà determinante questa volta, se riusciranno a superare l’antidemocratica soglia di sbarramento – fissata al 10% – non permetteranno al presidente di completare il suo disegno in parlamento e quindi senza ottenere la maggioranza sarà difficile governare il Paese.

Demirtaş, avvocato, già presidente dell’Associazione per i diritti umani turca Ihd di Diyarbakir, è stato anche membro della delegazione dei negoziati di pace tra lo Stato turco e il Pkk poi sospesi.

Erdoğan si riferisce a Demirtas come “l’uomo in prigione” che sta conducendo la campagna elettorale dal carcere sfruttando le telefonate di dieci minuti concesse alla moglie ogni 15 giorni o le visite dei suoi avvocati. L’esponente curdo dal carcere ha registrato una canzone diventata virale sui social che si intitola “Non aver paura, urla” inoltre ha sfruttato i dieci minuti concessi a ciascun candidato dalla Trt, la televisione pubblica turca, per registrare un messaggio elettorale. Gli altri candidati per protesta contro l’onnipresenza di Erdoğan in tv si sono rifiutati. Ricordiamo che secondo una recente stima più del 90% dei media in Turchia sono sotto il controllo del presidente o di uomini o imprenditori a lui vicini.

Demirtas, nel video messaggio registrato dalla prigione, si è definito «il candidato di tutte le persone oppresse e sfruttate, dei disoccupati, delle donne, dei curdi, degli aleviti», altra minoranza religiosa e culturale presente in Turchia che conta 10 milioni di persone.

Nei giorni scorsi ha girato sui social un video scandalo condiviso su Facebook da un sostenitore dell’Akp, il partito di Erdoğan al governo. Nel filmato il presidente in una riunione privata incita gli amministratori di quartiere del suo partito a fare in modo che il partito filo-curdo e di sinistra Hdp non superi la soglia di sbarramento. «Bisogna impedire che i curdi vadano al voto», dice Erdoğan spiegando che loro (quelli del suo partito) sanno come fare. «Lavorate sull’Hdp», si sente dire e l’invito è a compilare delle vere e proprie list e di proscrizione dei possibili elettori del partito filo-curdo per poter agire e impedire loro con tutti i mezzi di esercitare il diritto a recarsi alle urne.

Inoltre, una decina di giorni prima del voto, sono stati spostati 144mila elettori dalle liste elettorali da villaggi curdi a villaggi non curdi, ci sono stati più di trecento arresti tra i quali molti di esponenti del partito Hdp, attacchi agli uffici di propaganda e a stand per strada, ostacoli a raduni, intimidazioni e, in uno scontro tra sostenitori di opposte fazioni, ci sono stati cinque morti in circostanze ancora da chiarire.

Il presidente turco – già dal tentato golpe del 2016 definito un “dono di dio” perché così ha avuto mano libera per le epurazioni – ha cercato di sgomberare il campo da oppositori reali o presunti, rafforzando l’autoritarismo del sistema.

Questo voto sarà un test fondamentale per Erdoğan e il suo disegno islamista-autoritario, le opposizioni si sono dimostrate combattive nonostante le tante difficoltà. Vedremo se lo strapotere del Sultano inizierà ad incrinarsi.

Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi