Qualche notazione critica, benché non necessariamente polemica, si impone da subito rispetto a un governo nato dopo un inusuale e lunghissimo travaglio, a un programma (il cosiddetto «Contratto») che sembra più il libro dei desideri che non un indirizzo progettuale e, più in generale, riguardo a forze politiche relativamente giovani (la Lega) se non addirittura molto recenti (il Movimento 5 stelle), che sembrano aver premuto più che mai il pedale dell’acceleratore. Quello non solo politico ma anche della trascorsa frizione istituzionale, soprattutto con la Presidenza della Repubblica. Lo sforzo di ragionamento lo facciamo avendo a oggetto la cultura antifascista, ossia quell’insieme di valori, di convincimenti ma anche di prassi concrete che dovrebbe costituire il ragionevole orizzonte di ogni organizzazione democratica.

L’antifascismo, infatti, non è una dottrina e neanche una “posizione politica” tra le altre ma il motivo stesso per cui il nostro Paese appartiene all’insieme delle società libere. L’antifascismo – infatti – è, in senso lato, cultura della libertà. In tutti i suoi aspetti. Quindi è pensiero plurale e pluralistico. Il suo presidio è nella Costituzione. Non si è antifascisti poiché si appartiene e ci si identifica con una specifica area politica ma perché si è sottoscritto quel patto di lealtà reciproca che lega liberamente individui e organizzazioni al rispetto di alcune norme basilari, senza le quali qualsiasi arbitrio diventa invece possibile. Ragione per cui, affinché l’Italia rimanga libera, necessita di essere governata secondo criteri antifascisti. Non è un facile sillogismo. Non è neanche un’equazione immediata, a beneficio di un’organizzazione o di un gruppo rispetto a un altro.

L’antifascismo, poste queste premesse, è una cultura di base, elementare quando fondamentale, che necessita di essere costantemente rinnovata. Deve incontrarsi con i tempi, deve confrontarsi con lo spirito del momento, deve permeare di sé l’operato della collettività così come, soprattutto, i suoi rappresentanti. Altrimenti, rischia di rivelarsi come un contenitore vuoto, un’etichetta da usare, non importa quanto a proposito o meno, per definire essenzialmente la concreta mancanza di contenuti. Detto questo, viene tutto il resto. Ossia la più stretta attualità politica.

La danza, Matisse

Il primo riscontro è che l’elettorato italiano, ma anche una parte importante di quello europeo, sta vivendo un profondo smarrimento. Il successo dei partiti e delle liste che, a vario titolo, si richiamano all’euroscetticismo, un atteggiamento a geometria variabile, con intensità differenti (dalla richiesta di modificare alcuni aspetti rilevanti delle politiche dell’Unione Europea al suo rifiuto integrale), ne è il segno più tangibile. Il processo d’integrazione continentale non solo si è arrestato ma sta evidentemente indietreggiando. I costi che il suo prosieguo implica sono vissuti da molti europei come più elevati dei potenziali ricavi. In certi casi, poi, subentra l’impressione che l’Unione non sia un organismo collettivo destinato ad agevolare e a rafforzare, almeno in prospettiva, le opportunità dei cittadini che ne fanno parte bensì a tutelare gli interessi di élite ristrette, indifferenti alla sorte delle collettività.

Non di meno, ed è un altro aspetto rilevante nel determinare i processi che stiamo vivendo, le trasformazioni indotte dalla globalizzazione e dal passaggio a economie dell’informazione e della conoscenza hanno mutato la percezioni di se stessi nella scala sociale. Se ancora una decina anni fa ci si poteva illudere che il mutamento fosse parziale, e che i suoi oneri sarebbero stati primi o poi attenuati in omaggio a una maggiore equità sociale, oggi molti nostri connazionali debbono riconoscere che si trattava di un’illusione. Ciò che sta avvenendo nei nostri Paesi è un processo di vera e propria ristrutturazione sociale, nel quale una parte delle classi medie viene proiettata all’indietro, perdendo reddito, diritti, garanzie e, soprattutto, prospettive. Il lavoro è in questo vortice del cambiamento, slegandosi sempre più spesso a quella nozione di cittadinanza che, invece, la nostra Costituzione gli assegna fin dal primo articolo del suo testo.

Felicità, Gauguin

Qualsiasi riflessione sulla politica deve quindi partire da queste premesse, senza le quali non si comprende il senso di disagio dei tanti. I risultati elettorali, infatti, non fanno altro che registrare questa condizione di persistente incertezza, che si traduce in ansia e poi angoscia. Chi riesce a dare forma a essa, proponendosi come un lenitivo, è destinato a raccogliere assensi. Il resto dei partiti, invece, viene visto come qualcosa di “vecchio”, inutile, se non addirittura ostile poiché espressione dei «poteri forti» che starebbero tramando dietro le quinte contro il «popolo». Già nel passato, e non solo per le vicende italiane, si era parlato di «imprenditori politici del razzismo e della paura» per definire quei diversi soggetti che, a vario titolo, si presentavano sulla scena pubblica per intercettare i malumori dell’elettorato, o comunque dei cittadini, trasformandolo in consenso verso le proprie proposte e le piattaforme di rivendicazione. Un fenomeno diventato evidente già negli anni Ottanta, soprattutto a partire dalle destre estreme continentali, le quali peraltro stavano conoscendo un cambio di passo, transitando definitivamente dai temi esclusivamente nostalgici (“com’era bello il fascismo quando era al potere”) a nuovi orizzonti, molto più legati ai problemi del presente. Il decennio successivo si caratterizzò – infatti – per l’emersione del fenomeno populista. Il quale si gioca a tutt’oggi intorno a tre pilastri: la convinzione che la «gente» (un insieme indistinto e aclassista di individui, identificato perlopiù con il corpo elettorale) sia depositaria del senso della verità e della giustizia; che a dovere interpretare una tale sapienza indiscutibile e insindacabile debba essere un leader carismatico e decisionista, saltando a piè pari qualsiasi mediazione; che le norme di diritto siano valide solo quando non ostacolano l’inarrestabile avanzata della «volontà popolare», quest’ultima intesa in senso assolutistico, ovvero senza per l’appunto il filtro delle regole medesime.

Il populismo è stato efficacemente descritto come un fenomeno politico dove la democrazia vige in assenza (o neutralizzazione) della Costituzione. E qui si ritorna al punto di attacco di queste riflessioni, dove il nesso tra cultura politica antifascista e pensiero costituzionalistico è dato come inscindibile. Un fattore strategico trasfuso dall’Assemblea costituente nello spirito della Carta suprema è il criterio di responsabilità. Ossia, non solo la consapevolezza che le scelte politiche hanno effetti diversi tra i tanti soggetti che ne sono chiamati in causa, ma anche che per evitare abusi o, peggio ancora, deliberati travisamenti e manipolazioni, occorra rifarsi all’azione costante di una pluralità di organismi di vaglio, interpretazione e garanzia. La Presidenza della Repubblica, da questo punto di vista, ne costituisce un chiaro esempio.

La barca di Dante, Delacroix

Non è un organismo notarile, come alcuni invece hanno voluto intendere, nel qual caso quindi dedito ad avallare tacitamente lo stato di fatto; ha invece alcune prerogative di merito relative a diversi aspetti delicati della vita collettiva, a partire dalla formazione degli esecutivi, comunque nel rispetto dalla volontà elettorale espressasi con il voto, e quindi, la formazione dei gruppi parlamentari. Dovrebbero essere nozioni elementari di diritto costituzionale ma molti nostri connazionali sembrano esserle dimenticate, se mai le hanno conosciute. E la stessa cosa fingono di fare quelle formazioni politiche che, tanto più oggi, insoddisfatte dall’esito negativo della mediazione che esse stesse avevano condotto, dinanzi alla scelta del Capo dello Stato di optare per la formazione di un governo di garanzia, il tempo necessario per superare la grave impasse nella quale si trova il Paese, urlano al «tradimento» e chiedono la sua messa in stato d’accusa.

Si può senz’altro discutere nel merito delle scelte fatte dal Quirinale, ma aprire un conflitto a tutto campo, trasformando uno scontro politico in crisi istituzionale, è il segno che ci sia scarsa se non nulla propensione al rispetto della separazione dei ruoli e dei poteri, così com’è invece statuito proprio dalla nostra Costituzione.

Definire la Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5Stelle di Luigi Di Maio in modo univoco, da subito esercitandosi su di loro ricorrendo all’etichettatura, tanto più se di segno negativo, non contribuisce a nessuna forma di ragionamento politico. Se si è già deciso che l’una e l’altro hanno incontrovertibili caratteri “fascisti”, diventa allora inutile cercare di andare oltre l’esecrazione rituale, consegnandosi all’inconsolabilità moralistica di chi crede di avere sempre le migliori idee, senza doverle mettere alla prova dell’azione politica. Va aggiunto a ciò che in questi anni si è abusato del ricorso a certe parole. Ciò facendo, paradossalmente, si rischia di dare fiato proprio a quel populismo che tutto mischia, che confonde il senso delle cose giocando sulla contrapposizione più becera tra gli amici (quelli che la pensano in un solo modo) e i nemici (tutti gli altri), sul dire e sul contraddire, sull’affermare e sullo smentire al medesimo tempo. Una visione così rigida, dualistica della politica è inaccettabile per qualsiasi antifascista. Poiché azzera qualsiasi mediazione, prima di tutto con il principio di realtà. Affermava Antonio Gramsci che «a battere la testa contro il muro è la testa a rompersi, non il muro». Il peggiore errore che si potrebbe commettere è il rifugiarsi nel mondo sicuro della condanna a prescindere. Poiché impedisce di cogliere le possibilità che ogni situazione politica dovrebbe comunque offrire a chi gioca la sua parte. Non si tratta di venire meno ai propri principi, ma di capire come, con chi e quando questi possano tradursi in un progetto concreto e non solo in un’aspirazione senza seguito. Gli avversari si combattono con tutti gli strumenti che la democrazia pone a disposizione dei cittadini, non con gli anatemi che manifestano soprattutto l’impotenza di chi li esprime, piuttosto che la volontà di contrapporre ad essi un’alternativa credibile.

Di questo ed altro è necessario essere consapevoli, poiché ciò che l’Italia manifesta elettoralmente, e senz’altro non solo da oggi, è uno spirito chiaramente conservatore. Non è solo il volto abituale di una parte di essa, già così nei decenni trascorsi. Ciò che si cela dietro a un tale modo di vedere le cose è soprattutto il timore di un’instabilità senza fine, destinata a ripercuotersi sulle famiglie e sulle loro prospettive di vita. La Lega e il Movimento 5Stelle hanno saputo intercettare la stanchezza di molti nostri connazionali, trasformandola in parole d’ordine tanto galvanizzanti quanto, per più aspetti, intraducibili in atti concreti. La loro forza riposa, paradossalmente, proprio nella mancanza di realismo di un programma politico che è soprattutto un bricolage di desideri. Basti pensare al tema dell’immigrazione, sul quale la campagna elettorale trascorsa si è svolta tutta all’insegna della drammatizzazione, a tratti becera. Laddove una parte dell’informazione ha offerto il fianco per i peggiori richiami ai risentimenti più abietti. Salvini e Di Maio possono avere alcune cose in comune ma i rispettivi elettorati hanno senz’altro aspettative spesso non coincidenti. Se le forze progressiste, o comunque quelle non conservatrici, hanno fin ad ora usato il linguaggio del realismo, pagandone un costo enorme, soprattutto perché identificate con le ragioni del «mercato», dell’«euro» e della stessa «eurocrazia», il camaleontismo dei due vincitori delle ultime elezioni è stato senz’altro pagante nel momento di raccogliere i voti, non certo quando invece si dovrà governare. Poiché governare vuol dire fare e garantire le cose, non promettere la luna. La qual cosa non rassicura per nulla, tanto più tra coloro che, avendo a cuore l’ordinamento democratico dei diritti, temono che partiti giovani nati quando l’«arco costituzionale» delle forze che hanno dato vita alla nostra Repubblica andava esaurendosi, siano poco o nulla disponibili a conformarsi alle regole vigenti. Ovvero lo possano fare finché conviene loro, salvo poi avventurarsi su chissà quali pericolosissime strade.

Tigre con serpente, Ligabue

Il problema, va ripetuto, non è solo italiano ma è divenuto europeo. Si alimenta della crisi dei meccanismi dei processi di redistribuzione universale delle ricchezze prodotte socialmente. E dà spazio a fenomeni di «democratura», ossia di coesistenza, al medesimo tempo, di democrazie formali (libertà di voto, esistenza di piccole opposizioni organizzate) con poteri esecutivi rigidamente autoritari (accentramento dei processi decisionali in poche istituzioni, devitalizzazione del sistema di equilibri tra organismi diversi, crisi del pluralismo della rappresentanza, controllo centralizzato dell’informazione).

Se lo scenario nel quale si è chiamati ad operare è questo, bisogna allora riconoscere che i due punti critici più importanti per ogni forza politica oggi esistente, ma anche per qualsiasi istituzione pubblica, sono sia l’incapacità di raccogliere e rappresentare il disagio sociale sia l’appiattimento sul dogmatismo falsamente realista del pensiero liberista, quello che postula il «mercato» come decisore unico del destino delle collettività. Se non si ripensano questi aspetti, fondamentali nella vita di molti italiani, si rischia allora di consegnare definitivamente una parte di essi alle formazioni politiche “sovraniste”, identitarie e neonazionaliste. Le quali, nel momento in cui dovessero riscontrare l’impossibilità di tenere fede alle promesse dinanzi ad elettori sempre più esacerbati, allora per davvero potrebbero essere tentati di procedere per forzature, alterando o stravolgendo la stessa Costituzione.

Ci troviamo in prossimità di un bivio. Occorre ripensare al modo in cui si intende il significato dell’impegno politico. Occorre soprattutto confrontarsi per parte propria con la realtà per com’è, non per come la si può fantasticare. Le rabbiosità così come i sentimentalismi, le ingenuità così come i moralismi, non servono assolutamente a nulla. Prima si tornerà al duro ma incontrovertibile mondo della quotidianità, alla comprensione di come questa stia concretamente mutando, più e meglio si avranno possibilità di riprendere il bandolo della matassa della partecipazione a quel medesimo mutamento, senza subirne passivamente gli effetti.

Claudio Vercelli, storico – Università cattolica del Sacro Cuore