Maria Monti

Maria è un’artista dalle molte sfaccettature. Ha bisogno, per esprimersi compiutamente, di intrattenersi con voi. Occorre darle un po’ di tempo, seguirla mentre dirige in molti sensi la traiettoria della sua attenzione, comprenderne le intenzioni e, se occorre, perdonarle qualche errore di forma.

Vincenzo Micocci

Maria Monti, pseudonimo di Maria Monticelli (Milano, 26 giugno 1935), è una di quelle artiste che sfuggono a qualsiasi classificazione. È certamente tra le prime cantautrici in Italia (fu proprio lei a coniare quel termine), ad affermarsi con una voce fuori dal coro, con le sue canzoni innovative, con le ricerche musicali che la portarono a recuperare brani dalle raccolte popolari italiane. E ad affrontare, poi, repertori politici e militanti, motivo di censure e ostracismo radiofonico. Ma è anche un’attrice, una donna di teatro e di scelte anticonvenzionali, sia sul piano artistico che personale.

La incontriamo nella sua casa di Roma, piena di libri. La grande cupola di San Pietro è poco distante.

«Sono nata a Milano, in via Solferino, di fianco al Corriere della Sera, ma poi ci siamo trasferiti a Firenze perché mio padre lì dirigeva la Texaco. Un uomo d’affari, un dirigente che aveva fatto carriera, un uomo intelligente». E la madre? «Quando si sono conosciuti, mia madre era più ricca di lui. Lei nella famiglia è sempre stata brava a far di conto».

Un contesto non propriamente popolare.

«Eravamo una famiglia benestante, stavamo in una casa di rappresentanza a Firenze. Sembravamo ricchi. Vivevamo in una abitazione con vetri colorati, vetrate con storie raffigurate».

Sono i genitori ad avvicinarla alla musica? «Mio padre era una persona dotata di talento musicale che la sera suonava il pianoforte solo per me. Eravamo mia madre e tre sorelle: Graziella, Silvia, mancata da poco e io, la più piccola. Mio padre mi ha lasciata che avevo sei anni e mezzo. Era l’inizio della seconda guerra mondiale. Ricordo il giorno del funerale. Ero con la tata su un marciapiede quando arrivò la banda che accompagnava il feretro. Perché mio padre era ufficiale. Lei mi chiese se ero triste. La mia risposta fu: Ma no, tanto stasera viene a cena. Non volevo accettare». Forse non ha mai voluto accettare Maria, quella perdita. «I padri segnano sempre le vite delle loro figlie, nel bene o nel male», dice.

La sera quell’uomo si sedeva al pianoforte e suonava. «Suonava per me», ripete Maria. Solo lei, nella grande sala del pianoforte. Nei suoi ricordi le sorelle sono altrove con la madre.

La prima infanzia di Maria si svolge a Firenze. «Lì ho frequentato la prima elementare e poi siamo dovuti scappare. Non si mangiava, per via della guerra. Ricordo solo ricotta e patate. Invece a La Gabbana, una bellissima cascina di nostra proprietà vicino a Cassano d’Adda dove ci siamo rifugiate, ho scoperto che esistevano tante prelibatezze. Ogni anno si uccideva il maiale, e non ho più patito la fame. Poi mia madre vendette la cascina a lotti per crescere le sue tre figlie. Così, ci siamo spostate a Milano, dove ho proseguito gli studi alla scuola di avviamento al lavoro. A quindici anni ero pronta per impiegarmi. Facevo la stenodattilografa, divenuta poi segretaria. Non è che mi piacesse molto quel mestiere, ma mi serviva».

E la musica?

«Mi piaceva cantare, anche se ero timida. Cantavo sempre dietro qualcosa perché non mi si vedesse. Cantavo a casa, e alla sera andavo al Santa Tecla, un locale dove, con il microfono in mano, cantavo nel bagno che stava vicino all’orchestra. Con una porta davanti. Così nessuno mi vedeva. Io ci andavo per divertimento. C’era tutta questa gente che ballava, erano balli acrobatici, la donna veniva sollevata, fatta girare vorticosamente. Volava. Ricordo che cantavo canzoni americane, come Stormy Weather. Andava lo swing, la musica da intrattenimento».

Il canto e la musica sono le sue grandi passioni, ma negli anni dei cabaret milanesi Maria si afferma soprattutto come attrice: entra nella compagnia di Ugo Tognazzi e Lauretta Masiero, recitando nel 1955 in Uno scandalo per Lilly. Dello stesso anno è la sua prima apparizione in televisione, nello spettacolo Primo applauso.

«Poi mi ha scritturato una casa discografica, che era la Carish».

La Carish, poi la RCA, la Ricordi, I Dischi del Sole e un repertorio sempre più definito.

«L’interesse per la canzone popolare è nato per ragioni umanitarie, umano-politiche – dice –. Io ho senz’altro cantato Le otto ore e altre canzoni di protesta o molto impertinenti come lo Stronzio 90. Lo sono anche io, di carattere. Oggi mi sembra di essere una specie di addormentata, sono in un riposo forzato, vorrei avere un risveglio. Devo avere un risveglio. Vivo dietro una lavagna, non so cosa, dietro tutto. Ma è un errore: non è da me. Voglio stare davanti, anche se è più faticoso, ma è la mia indole».

Il temperamento e l’interesse verso il mondo popolare portano Maria a registrare il primo disco, Recital, una sorta di concept album in cui la sua voce introduce ogni brano, interloquendo con il pubblico degli ascoltatori. Maria canta alcune delle canzoni del repertorio folk, come La filanda. Cover di un brano di Amalia Rodrigues sulla vicenda di una povera filandera, corteggiata dal figlio del padrone, e il padrone stesso, che non intende averla come nuora. Nessuna rivendicazione di genere e di classe nel finale, ma la rassegnata accettazione di una condizione irreversibile: nel mondo ci sarà sempre chi comanda e chi ubbidisce. Ci sono poi brani originali che le danno subito grande notorietà, come Non arrossire, scritta con Giorgio Gaber e Zitella cha cha cha. Tema di queste canzoni: la donna moderna che dismetteva i panni di angelo del focolare, per entrare da protagonista nella società, pur con tutti i timori, le sconfitte, le disillusioni che accompagnavano questo cammino.

Recital, intero album:

https://www.youtube.com/watch?v=7W6qhHRei7o

Il repertorio folk comprende anche Un bicchiere di Dalmato

e Bel uselin del bosch, canto patriottico-risorgimentale che inneggia alla liberazione d’Italia. A proposito di questa canzone Maria dice: «La cantavo per il finale: Viva la libertà e chi sa goderla. Rientrava nella mia natura di donna emancipata».

“Chi c’è dietro a Maria? […] – scriveva, infatti, Vincenzo Micocci nelle note di copertina di Recital –. C’è la ragazza moderna, la donna dei nostri tempi. Certo non si tratta della stessa donna di qualche decina d’anni fa, di romantica memoria, che si desiderava pura ed ignara di tutto, da poter utilizzare come un soprammobile”.

Già nel ’61, infatti, in Non sono bella Maria demoliva lo stereotipo della donna, oggetto di desideri maschili, con estrema ironia.

E a guardare le fotografie che la ritraggono viene fuori l’immagine di una donna nuova, moderna, che si è liberata da tante catene.

«Una donna che è costretta a essere libera – chiarisce lei, in realtà –. Costretta dalla sua indole. Ho avuto tante storie, tanti amori ma mai che durassero più di un breve periodo. Qualche anno e nessun matrimonio. Era una costrizione questa libertà. Il perché non lo so. Mi sentivo costretta dagli eventi. Con Gaber mi sarei anche spostata ma ero più giovane di lui di due anni e sentivo che ai suoi genitori questa cosa non andava bene. E questo, alla mia ipersensibilità, dava fastidio».

Quella con Giorgio Gaber è una grande storia d’amore, oltre che una collaborazione artistica importante. Quando si incontrano lei è già affermata e più famosa di lui: «Nel 1960 avevo recitato in La svolta pericolosa di Gianni Bongiovanni, ma non credo che sarei stata in grado di lanciare nessuno nel mondo dello spettacolo». Insieme realizzano Il Giorgio e la Maria in cui cantano qualche canzone popolare milanese, oltre a presentare i loro brani. Tra questi Non arrossire, che avrà un notevole successo, cantato da lei (in Recital), cantato da lui

https://www.youtube.com/watch?v=mhbrufvS3Q8

e poi da Morgan,

https://www.youtube.com/watch?v=SPNJrvJjdeQ

da Claudio Baglioni e tanti altri.

«Non arrossire ha venduto molti dischi – dice – ma la cantava Gaber. Anche se la versione che ho inciso io era più bella della sua. Anche allora per le donne era dura. Oggi mi sembra ci sia molta libertà, sia per gli uomini che per le donne. Oggi è più facile parlare di qualsiasi tema, anche se c’è sempre qualcuno che sta con un piede infilato nel passato che tira in ballo le solite storie: che l’uomo è meglio, è più intelligente, ha più capacità».

Nel 1961 il duo partecipa al Festival di Sanremo interpretando il brano Benzina e cerini, scritto da Enzo Jannacci. «Benzina e cerini era distante dal modello delle tipiche canzoni sanremesi, infatti siamo arrivati ultimi. Sull’Espresso, però, forse in copertina, avevano scritto che per loro l’ultima era la prima».

Versione di Maria:

Versione di Gaber:

https://www.youtube.com/watch?v=-tzf-o93ozs

Ma è soprattutto la vicenda affettiva a segnare Maria. «Con Gaber sono stata tre anni – ricorda –, una bella storia d’amore. Mario Dondero, il grande fotografo, è stato lui che mi ha aiutato a lasciarlo. Ci sono stata male cinque anni, però. Dopo ho avuto un fidanzato che era pittore. Aveva capito che ogni tanto mi venivano, lui li chiamava stracci vecchi. Erano nostalgie gaberiane. Diversi anni dopo sono andata a vedere un suo spettacolo. Al ristorante davanti a tutti mi chiese ad altissima voce: Ma tu perché mi hai mollato venticinque anni fa? Io avevo in mano un bicchiere di vino e gli risposi: Perché ti amavo. Era vero, solo che pretendevo che lui fosse più maturo, che ne so. Ho continuato a seguirlo come artista».

Chissà se nella sua canzone Chiedo scusa se parlo di Maria, Gaber non si riferisse proprio a lei. «Bisognerebbe chiederlo a lui, ma io ho proprio il sospetto di entrarci».

La frequentazione di artisti come Gaber e Jannacci e della Milano dei locali che nascono negli anni Cinquanta. Della Milano delle storie di mala o degli spettacoli brechtiani che Strehler mette in scena al Teatro Piccolo, la Milano del Nuovo Canzoniere Italiano, sono tutte esperienze che portano Maria verso la definizione di un repertorio politico e militante. Incide, infatti, 4 Canzoni della Resistenza spagnola e poi approfondisce la ricerca sulla canzone popolare milanese, registrando La Balilla e tre canzoni popolari italiane. La Balilla, canzone sentita intonare da un portinaio, alla quale aggiunge alcune strofe di sua invenzione, Maria la canta spesso con Gaber.

https://www.youtube.com/watch?v=pPl5LhP7BYo

Sono canzoni imparate nei circoli, nelle osterie della periferia, al confine con la campagna milanese o in Corso Garibaldi. Tra queste, La povera Rosetta. È una canzone popolare proveniente dagli ambienti della malavita locale, che racconta della storia vera di una giovane prostituta, Rosetta, morta nel 1913, probabilmente a causa delle percosse subite, la notte precedente, da agenti della pubblica sicurezza: Il 13 di agosto in una notte scura commisero un delitto gli agenti di questura.

Maria in quegli anni è anche iscritta al Pci. «Io sono sempre stata di sinistra, ho cantato diverse volte davanti a Berlinguer a Piazza San Giovanni – registrerà anche l’album Canti comunisti italiani per I Dischi del Sole –. Mi sono impegnata per tante cause. Poi frequentavo musicisti come Jannacci, Gaber anche se ci eravamo lasciati. Partecipavo a tutti i festival dell’Unità, a incontri politici con Ernesto Bassignano. Un giorno gli aveva telefonato Gian Carlo Pajetta dicendogli: Sei da solo, ti serve una donna. Così, cantando insieme, siamo stati coinvolti nella campagna elettorale per le elezioni del 1972. In Sardegna, in Sicilia».

Maria non è l’unica donna a impegnarsi, ci sono occasioni in cui su qualche palcoscenico incontra Giovanna Marini, Giovanna Daffini, Sandra Mantovani, Margot. «Eravamo in diverse, non ero sola solissima». Donne, cantanti, cantautrici. È proprio lei, infatti, a coniare questo termine. «Con Micocci – dice – per una locandina dovevamo trovare il nome con cui chiamare gli artisti menzionati. C’erano Gianni Meccia e altri. Dalla mia bocca è uscita la parola cantautori. A Micocci piacque subito e da allora la usò. Così è nata questa definizione».

Una vera svolta nella storia della canzone italiana.

«Non mi rendevo conto di essere in mezzo a grandi artisti – dice –, anche se avevo la percezione di questa trasformazione che stava avvenendo nella canzone, nella cultura e nella società italiana. Per noi era assolutamente nuovo, potersi esprimere su determinati argomenti, cantando i nostri brani. Con Ivan della Mea condividevamo le battaglie; di Gianni Nebbiosi ho cantato diverse canzoni, come di Gualtiero Bertelli, Mario Pogliotti, Antonio Infantino, Paolo Pietrangeli».

Maria e i contrautori (1973) è l’album in cui lei si misura con queste nuove voci, politiche, della canzone italiana. “Contrautori voleva dire che non erano ancora famosi come autori, che la tv e la radio ancora non trasmettevano”. Maria fa una selezione di brani di straordinaria forza poetica.

Di Gianni Nebbiosi Maria canta Il numero d’appello, canzone sulla diversità. «Lui scriveva canzoni su come venivano trattati i matti, guarda caso adesso li cura, facendo di mestiere lo psichiatra».

E poi Nina ti te ricordi, di Bertelli, che Maria intona durante l’intervista,

O cara moglie di Pietrangeli,

Parole di Leoncarlo Settimelli,

È fatto giorno di Mario Pogliotti

e infine Non è solo un caso, versione italiana di There But Fortune di Phil Ochs.

Ci sono anche pezzi suoi come L’armatura: «Una canzone che parla dell’essere umano e delle varie parti del suo corpo, che sono in sofferenza. Sofferenti perché l’uomo nella società moderna è alienato».

E poi I fili della luce, storia molto attuale di chi fatica ad arrivare a fine mese e così si vede tagliare i fili della luce, del gas, del telefono, ritrovandosi scollegato dal mondo e dalla società. «È ispirato alla realtà personale di quel periodo: io non avevo i soldi per pagare le bollette. Gli spunti erano sempre molto reali, attingevo molto dal vissuto».

La televisione e il cinema le offrono certamente più opportunità e per questo Maria si trasferisce a Roma. “Ho cominciato a preferire Roma a Milano anche perché si arrivava prima per andare al mare”, dice scherzando. Ma la realtà è che Roma le permette di lavorare con grandi registi cinematografici. Nel 1971, infatti, recita in Giù la testa di Sergio Leone, nel 1972 partecipa nel ruolo di se stessa cantante al film Imputazione di omicidio per uno studente di Mauro Bolognini, dove interpreta brani tratti dal suo repertorio folk, e nel 1976 in Novecento di Bernardo Bertolucci.

Tornando alla musica, spicca tra le sue tante registrazione il disco Le canzoni del no, pubblicato da Roberto Leydi nel 1964 per I Dischi del Sole.

«Ci conoscevamo tutti in quel giro. Era stato Bosio a contattarmi, mi fece incidere diverse canzoni, parte delle quali diventarono poi Le canzoni del no». L’album comprende brani molto provocatori. Come l’Inno abissino, canto risalente al 1887, una delle rare voci di protesta contro la campagna coloniale italiana in Etiopia che poi portò, alcuni anni dopo, alla disfatta di Adua.

E poi la Ninna nanna della guerra di Trilussa. Una canzone sulla povera gente che viene mandata a combattere mentre i potenti comandano e non si sporcano le mani.

Stronzio 90, canzone scritta da Fred Dallas e registrata dal vivo nel 1959, è basata sui versi dell’omonima poesia che il poeta turco Nazim Hikmet aveva scritto il 6 marzo del 1958, spesso cantata durante le marce per il disarmo nucleare. Maria ne canta una versione tradotta in italiano da Rudy Assuntino: Stronzio, Stronzio, Stronzio 90 /tutti quanti all’inferno manderà, /di questo Stronzio, Stronzio, Stronzio 90 /qui ce n’è per tutti in quantità.

«Ci voleva del coraggio a cantarla, ma aveva un successo enorme. Una volta a Bologna in un grande festival dell’Unità la cantai e fu un successone – dice –. Come se sapessero tutti quanti cos’era questo Stronzio 90».

E soprattutto La marcia della pace di Fortini e Amodei, censurata e a causa della quale l’album verrà ritirato. Non si poteva cantare perché considerata sovversiva, inneggiante all’obiezione di coscienza.

«A me bocciavano tutte le canzoni», continua Maria. Lei non si è mai tirata indietro affrontando temi e argomenti polemici e scandalosi. «Era un’epoca buia – dice –, non volevano trasmettere Paolo Poli perché era omosessuale. Del resto, c’era la Democrazia cristiana che era maledetta. Mi ricordo tutte queste bocciature, come se avessimo la rogna. Ma i nostri testi non avevano la rogna, raccontavano la verità. Il Partito comunista ci ha sicuramente aiutato a darci visibilità: le feste dell’Unità erano spazi di libertà in cui cantare e farsi conoscere».

Nel 1965 Maria ritorna al folk e registra un disco di canzoni popolari italiane che spazia dalla tradizione napoletana di Ciuri Ciuri,

Com’è belle lu prim’ammore,

’O Ciucciu,

Sant’Antonio allu desertu,

A tocchi a tocchi,

fino alla romagnola A Gramadora.

Ancora nel 1971 realizza il doppio lp Memoria di Milano per la collana folk della Fonit Cetra dedicata alla canzone tradizionale milanese. Ci sono i classici come Bell’uselin del bosch, La Balilla, Donna Lombarda, Stamattina mi sono alzata. E poi El pover Luisin, Porta Romana, El mè Ligera, La roeuda la gira. Infine Serafin aveva un ziffolo.

Il Bestiario (1974) è un album estremamente sperimentale, realizzato con basi musicali tra il jazz cabaret e il minimalismo elettronico, con la partecipazione di musicisti di fama internazionale tra cui Alvin Curran, arrangiamenti e strumentazione elettronica, e Steve Lacy al sax soprano. Gli animali sono metafore che rappresentano i difetti, le paure, le ossessioni degli uomini. I testi sono quasi tutti suoi, tranne alcuni come La pecora crede di essere un cavallo, scritta da Aldo Braibanti. Parla di una pecora che crede di essere un cavallo: è sempre in coda al branco, il branco bruca e lei bruca, il branco trotta, galoppa, lei trotta e galoppa. Una canzone sull’omologazione.

Il pavone è la rappresentazione dell’uomo narciso: «Il pavone fa la ruota con la coda iridata e davanti alla sua ruota io rimango incantata guardo nella sua pupilla, mi fa molta soggezione”, dice il testo che racconta il narcisismo maschile dal punto di vista della donna che lo subisce. Alla fine della canzone, però, il pavone non c’è più. «Ecco perché una rimane zitella – dice divertita –. Ed eccomi. È una canzone che sembra cretina, ma che è assolutamente reale: Zitella cha cha cha l’ho scritta io e mi rispecchia totalmente». Una canzone, volendo, di emancipazione femminile.

«Non mi vergogno di nessuna di quelle canzoni perché tutte comprendono un bel po’ di autobiografia le storie vere del momento, non solo mie». Maria, infatti, ha saputo intercettare i cambiamenti della società, vedere cose che stavano cambiando, le differenze tra maschio e femmina. La donna che non deve più sposarsi a tutti i costi ma preferisce restare sola, rifiutando l’uomo fedifrago, l’uomo violento, bugiardo, ubriacone.

Dal vivo:

«Non era una situazione facile da raccontare, ma Zitella cha cha cha era molto cantata. Anche se la Rai non ha mai voluto nessuna delle mie canzoni, non le ha mai trasmesse, alcune erano molto conosciute. A Mina piacevano. Mi chiese: Ma perché non ti si sente alla radio? Per fortuna alla televisione, in quelle trasmissioni del sabato sera, mi facevano cantare. Una canzone e basta, ma era comunque qualcosa. Per loro ero stramba».

Nel 1975 Maria pubblica il disco live Bologna 2 settembre 1974 (RCA Italiana), con Francesco De Gregori, Lucio Dalla e Antonello Venditti. Nel 1976 partecipa come ospite al programma televisivo Il futuro dell’automobile, di Lucio Dalla, con il quale canta La balilla.

Poco dopo, nel 1977, Maria registra l’album Muraglie, che racconta di muri da abbattere, e di battaglie per la libertà, come in Non ho mai visto il mare.

Nella tua casa contesta la figura femminile stereotipata, donna di casa, amante silenziosa, soggetto privo di desideri e di diritti.

In Mazurchica la libertà è prodigiosamente espressiva.

Oltre oltre (1993) è un album innovativo e d’avanguardia dove Maria ha lavorato tantissimo sui suoni e su tematiche ispirate alla spiritualità delle filosofie indiane. «Nelle mie varie direzioni di ricerca – dice – una mi ha portato verso la meditazione e lo yoga che ancora oggi, a 84 anni mi permette di stare al mondo senza un dolore. Sono stata anche in India molte volte dove mi si è convalidata l’idea dell’importanza del corpo. Si dice che quando Gandhi venne a Roma il papa non lo ricevette perché aveva le gambe scoperte, questo mi fa sempre un certo effetto. Invece Gandhi era un omino seduto per terra a gambe incrociate, che ha fermato i carri armati con la sua filosofia non violenta. E con le sue gambe scoperte».

Femminista?

«Non andavo molto d’accordo con le femministe perché a quell’epoca le trovavo un po’ fanatiche. Per esempio c’era un circolo famoso a Roma, in cui una volta cantai una canzone: a loro era molto piaciuta ma io non ci sono andata più. Non mi pento, evidentemente mi è difficile definirmi femminista. Certamente certe battaglie a difesa dei diritti delle donne per una certa emancipazione le ho condivise, ma non mi sentivo di entrare in quel novero così definito».

Come si diceva: è difficile mettere addosso a Maria un’etichetta. «Meno male – commenta –, non mi piacciono».

Negli anni Ottanta e Novanta ha continuato a lavorare anche a fianco di grandi artisti come Rino Gaetano, con cui incide Al bar dello sport.

https://www.youtube.com/watch?v=2KIVxH7rORo

Attualmente ha in programma un nuovo disco dal titolo Spazzi di pace. «In questo lavoro – dice Maria – le canzoni sono riferite a un contesto generale: guardati tu, non incolpare l’esterno, anche se ha delle responsabilità. Il problema è come ce la caviamo con la nostra interiorità, in rapporto con la natura. Io sto dalla parte di Greta Thunberg, una ragazzina che ha mirato dritto alla verità, per mostrarci i problemi in cui siamo immersi». Un disco intimista, ecologista, che guarda alla realtà di oggi. Scritto da una cantautrice che non ha mai smesso di mettere il dito nella piaga, trattando di argomenti disturbanti con il tono della leggerezza, dell’ironia, talento straordinario in dote a poche.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica; autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli