Il monumento alle vittime delle Fosse Ardeatine

Alle Ardeatine è stata uccisa Roma perché dentro le Fosse venne straziata una parte intera della città con i suoi diversi mestieri, con le diverse condizioni sociali, con i “resistenti” di ogni parte politica e sociale, con gli ebrei, gli uomini giovani e vecchi, i ragazzi. E ancora un prete, generali, ufficiali dei carabinieri e carabinieri semplici, contadini, professionisti, operai, commercianti, soldati e alti ufficiali dell’esercito, della marina e dell’aviazione, uomini della polizia, piccoli artigiani, un cantante lirico, uomini di spettacolo tranvieri, proletari dei quartieri popolari, avvocati, intellettuali, bottegai, qualche nobile. Insomma, la Roma d’ieri, di oggi e di domani. Erano cattolici, comunisti, socialisti, ebrei, appartenenti al Fronte militare di Resistenza, “azionisti”, uomini di “Bandiera Rossa”, antifascisti, partigiani appena catturati, semplici sospettati di essere avversari del regime. Dunque, il mondo composito di Roma, la Capitale del Paese. Non erano colpevoli di nulla e non avevano certo partecipato all’azione militare di via Rasella perché tutti si trovavano già in carcere al momento dei fatti. Furono soltanto le vittime sacrificali della vendetta nazista contro la città che di loro non ne voleva sapere più.

Dopo l’arresto di Mussolini e la fuga del re e del governo, la città aveva già vissuto la battaglia di Porta San Paolo dove soldati, carabinieri e civili, avevano tentato di impedire l’ingresso dei nazisti pagando un altissimo prezzo di sangue. Poi erano arrivati i grandi rastrellamenti nel Ghetto con più di mille ebrei portati via, al Quadraro e in altre zone della città già in sofferenza per i bombardamenti alleati. In città c’erano, inoltre, la prigione nazista di via Tasso con la tortura, al comando del colonnello Herbert Kappler e le varie bande di torturatori fascisti: Bardi, Pollastrini, Kock. La gente, comunque, reagiva. Le azioni dei “gappisti” (GAP, Gruppi di Azione Patriottica) e dei resistenti erano continue e coraggiosissime.

Intanto a Forte Bravetta, nella parte alta della città, le fucilazioni dei combattenti della libertà erano continue, nonostante che gli alleati si trovassero già a due passi dalla Capitale.

Il rastrellamento in via Quattro Fontane dopo l’attentato

Il 23 marzo del 1944, in via Rasella, i “gappisti” (sedici in tutto) avevano attaccato una compagnia della polizia nazista che ogni giorno sfilava in città. Si era trattato di una azione militare perfetta. Era stata fatta esplodere una bomba che aveva ucciso 33 soldati e ne aveva feriti altrettanti. La reazione del comando nazista era stata quella di fucilare subito dieci italiani per ogni tedesco ucciso e il comandante della polizia nazista Herbert Kappler aveva, nella nottata, stilato prontamente gli elenchi dei “degni di morte”, prelevando anche una cinquantina di ebrei dal carcere di Regina Coeli. Tutti erano stati poi trascinati, con le mani legate, nelle cave di pozzolana delle Ardeatine e massacrati, cinque alla volta, dallo stesso Kappler e dai suoi uomini. Il capitano Erich Priebke, che teneva la lista dei morituri, aveva anche sbagliato i conteggi e aveva fatto fucilare cinque persone in più. Poi, l’ingresso delle Cave era stato fatto saltare sull’orrendo carnaio.

Tra l’altro, proprio recentemente, altri due martiri hanno avuto ufficialmente un nome dopo una lunga indagine dei carabinieri del Raggruppamento indagini scientifiche.

A Roma, nel maggio del 1948, Kappler era stato condannato all’ergastolo. Il 15 agosto del 1977 la fuga dall’ospedale militare del Celio, a Roma, con il ritorno in Germania. Era comunque malato di cancro e la morte lo aveva raggiunto poco dopo.

Pubblichiamo qui, il testo del suo interrogatorio da parte della Commissione d’inchiesta alleata sui crimini nazisti.

È un documento di estremo interesse perché Kappler fu l’unico che entrò vivo ed uscì vivo dalle Ardeatine.

Quello che colpisce (…) è l’assoluta mancanza di dubbi, ripensamenti o di un minimo di comprensione o attenzione per le vittime della strage.

La deposizione di Herbert Kappler

Herbert Kappler nel 1947

Herbert Kappler, il comandante della polizia nazista di Roma – con sede in via Tasso, luogo di tortura e di morte – e massacratore delle Fosse Ardeatine, venne interrogato a lungo anche dalle commissioni d’inchiesta alleate. Si trattava di organismi che indagavano sui crimini di guerra nazisti e che lavoravano in base alle procedure legali anglosassoni. Ecco il testo di uno dei primi interrogatori di Kappler da parte degli alleati. Forse per la prima volta, il comandante della polizia nazista di Roma, racconta in diretta la propria partecipazione al massacro delle Ardeatine. Non solo: fa anche i nomi degli ufficiali alle sue dipendenze che parteciparono alla strage. Insomma, Kappler racconta Kappler nelle ore del massacro. Emergono dettagli e particolari di assoluta importanza.

L’interrogatorio proviene dagli atti del processo contro l’alto ufficiale da parte del Tribunale militare italiano.


Traduzione

CSDIC – CMF

4 agosto 45

Deposizione del SS Obersturmbannführer (Ten. Col.) Herbert KAPPLER,

BdS (incaricato per la P.S.) Italia Aussenkommando (Comando Esterno)

ROMA, nato a Stoccarda il 23 sett. 1907

 

Sono stato avvertito che non mi incombe l’obbligo di deporre. Per il caso però che desideri fare una deposizione sono stato avvertito che tale deposizione verrà usata come verbale e servirà come prova.

Firmato: Kappler

 

Sono stato membro delle SS sin dal 1 dicembre 1932. Dal febbraio 1939 fino all’8 settembre 1943 avevo le funzioni di Addetto di Polizia presso l’Ambasciata di Germania a Roma e dal 10 settembre 2943 ero Capo dell’Aussenkommando Roma, del BdS. In tale funzione ero capo di uno stato maggiore del quale facevano parte circa settanta membri della Sicherheitpolizei e del SD (Servizio di P.S.).

Il 23 marzo 1944 circa alle ore 14 e 30 fu compiuto un attentato dinamitardo a Via Rasella a Roma in seguito al quale vennero uccisi e feriti degli appartenenti alla polizia tedesca. Di tale fatto fui informato per telefono nei miei uffici presso l’Ambasciata di Germania. Lasciai immediatamente l’ufficio e mi portai sul luogo dell’attentato nella mia macchina personale. Poco prima di arrivare incontrai il Console Moellhausen, il sostituto dell’ambasciatore, che mi informò che il generale Maeltzer si trovava sul luogo del delitto. Maeltzer era eccitato e desiderava far saltare in aria quell’intero quartiere della città. In quel momento già erano in pieno corso le perquisizioni e lo sgombero delle case nelle vicinanze della scena dell’azione. Maeltzer mi informò che egli stesso aveva impartito i relativi ordini. La scena era indescrivibile: cadaveri, feriti e macerie. La confusione generale era grandissima malgrado la presenza di un certo numero di agenti della polizia tedesca ed italiana. Sulla scena del crimine notai anche l’Oberführer (colonnello) Dollmann.

Circa alle ore 17 mi recai agli uffici del generale Maeltzer, comandante tedesco di Roma. Durante la mia permanenza nel suo ufficio ebbi occasione di ascoltare una conversazione telefonica tra il Maeltzer e l’AOK14 (Comando Superiore 14ª Armata). A quanto riuscii a capire l’oggetto della conversazione erano le misure di rappresaglia per I’attentato dinamitardo. Quando Maeltzer ebbe finito mi passò l’apparecchio ed io parlai col comandante in capo della 14ª Armata, Colonnello Generale von Mackensen. Mackensen si mostrò favorevole a delle azioni di rappresaglia purché la decisione definitiva riguardo tali azioni fosse stata lasciata a lui. Suggerii al Mackensen che considerando il gran numero delle vittime il rapporto abituale di 1 a 10 avrebbe potuto essere pubblicato nella stampa ma che d’altro lato non vi era necessità di fucilare il numero intero. Mackensen si mostrò d’accordo. Potevo ritenere come sicuro che esattamente come in tre casi precedenti il rapporto 1 a 10 sarebbe stato confermato a mezzo di ordini della 14ª Armata.

Circa alle ore 20 e 30 il maggiore Boehm, IA (Comando tattico) di Maeltzer, m’informò per telefono che un ordine era stato ricevuto dal OBSW (Comando Superiore sud-ovest) in seguito al quale un numero decuplo di italiani avrebbe dovuto essere fucilato il 24 marzo 1944. Quest’ordine verbale non venne confermato da un ordine scritto e ciò era la maniera usuale per impartire gli ordini. Quest’ordine infatti non era indirizzato a me personalmente ma mi fu comunicato soltanto a titolo informativo.

Dato che avevo preso precedentemente accordi con Mackensen per la fucilazione di un numero minore di persone, richiesi la comunicazione telefonica con il OBSW e parlai, a quanto riesco a ricordarmi, con il IA, colonnello conte Ingelheim. Egli mi confermò l’autenticità dell’ordine e mi fece capire che proveniva da un’autorità superiore.

In seguito, alle ore 21,00 esattamente, mi misi in comunicazione telefonica col SS Gruppenführer (Magg. Generale) Harster a Verona. Gli feci rapporto dell’accaduto descrivendo le indagini e l’informai che l’ordine per la rappresaglia era stato impartito dall’OBSW. L’informai che le persone da fucilare si dovevano scegliere fra i prigionieri nelle nostre mani. Se il loro numero non fosse stato sufficiente, allora 57 ebrei che erano in attesa di essere trasportati in campi di concentramento tedeschi erano anche a disposizione.

A quest’epoca il numero degli agenti di polizia deceduti era ventotto. Benché non avessi ricevuto ordini diretti del Maeltzer ritenni necessario scegliere le persone da fucilarsi nella maniera decisa prima.

A causa della brevità del tempo a nostra disposizione lavorai durante tutta la notte senza andare a letto. Innanzi tutto diedi l’ordine di rilasciare tutte le donne ed i bambini arrestati nelle case adiacenti la scena del delitto. Avevo già dato ordine durante il giorno, al momento di giungere sul luogo del delitto, che queste persone venissero affidate alla polizia italiana.

L’identità degli uomini arrestati veniva controllata coll’aiuto del funzionario della polizia italiana CARUSO.

Telefonai poi all’Oberkriegsgerichtsrat (Ten. Col. della Giustizia Militare) Winden, capo della Corte Marziale di Roma, domandandogli il numero delle persone a sua disposizione condannate a morte ed anche il numero delle persone condannate ai lavori forzati per i periodi di 6, 10 e 15 anni. Gli spiegai il motivo della mia domanda. Lo pregai anche di restituirci quei prigionieri che erano stati precedentemente consegnati alla Corte dal mio reparto indicandone i nomi. Winden, dopo essersi messo d’accordo col Giudice Capo dell’OBSW, consentì.

Rivedetti le liste dei prigionieri insieme ai miei ufficiali e col loro aiuto e coordinando con il casellario dei prigionieri scelsi i seguenti:

176 per i quali era stato definitivamente provato in base ad indagini la reità in atti che d’accordo con le leggi militari tedesche in vigore erano soggetti alla pena di morte.

22 per i quali il procedimento era stato chiuso d’accordo con le suesposte considerazioni.

17 condannati a dei lunghi periodi di lavori forzati (questi furono scelti dal Winden).

4 condannati a morte.

4 arrestati nelle vicinanze della scena del delitto.

Sono convinto che queste cifre siano corrette.

Disponevo ora di 223 persone.

Più tardi il numero delle vittime aumentò a 32 e decisi di aggiungere i 57 ebrei.

Circa alle ore 11 del 24 marzo i funzionari di polizia Caruso e Koch dopo precedenti accordi col Vice-Capo della Pubblica Sicurezza Italiana, Cerrutti, si presentarono da me per scegliere un ulteriore numero di persone da quelle arrestate dalla polizia italiana. Queste dovevano scegliersi con gli stessi criteri suesposti e la responsabilità per la scelta doveva pesare su Caruso.

Alle ore 12 o poco prima riferii il nostro progresso al Maeltzer che si dichiarò d’accordo con tutte le misure che avevamo preso: quantunque però si mostrò sorpreso che soltanto quattro delle persone arrestate in Via Rasella erano state ritenute.

Mentre che mi trovavo col Maeltzer arrivò il maggiore di polizia Dobrik, comandante il battaglione che aveva subito le perdite. Su richiesta del Maeltzer si mostrò disposto a procedere lui all’azione repressiva. Discutendo però i dettagli il Maeltzer ed il Dobrik decidettero di non usare gli uomini di Dobrik. Egli insistette che non poteva aspettarsi che i suoi uomini, che erano di sentimenti religiosi, avessero potuto procedere all’esecuzione nel breve tempo a disposizione. Maeltzer capì queste ragioni ed in nostra presenza si mise in comunicazione col 14 AOK e parlò con il Col. Hauser, Capo di SM di Mackensen. La sua richiesta di truppe fu però rifiutata (truppe per l’esecuzione) e Hauser disse: “dato che era stata la polizia a subire la perdita, spettava alla polizia di porre in effetto l’ordine di rappresaglia”. Maeltzer allora mi significò che toccava a noi di eseguire l’ordine. Questo sviluppo non mi piacque affatto ma non mi rimase alcuna scelta.

In giornata von Borg mi telefonò. Borg era uno degli addetti alla stampa presso I’Ambasciata, e mi lesse le parole del comunicato pubblicato dal Ministero degli Esteri. Questo comunicato confermava che il caso aveva raggiunto il punto più alto, nel governo del Reich.

Poiché ora era stato deciso che i miei uomini dovevano procedere all’esecuzione, io chiamai i miei ufficiali e li informai del fatto. Io li informai che, in conseguenza del grande numero dei condannati e in riguardo alla morale e disciplina, tutti i miei uomini, anche i miei ufficiali avrebbero dovuto partecipare. Come località per l’esecuzione, mi sembrava adatta una delle numerose fosse nelle vicinanze e così diedi ordine all’Hauptsturmführer (capitano) Koehler di scegliere una di esse. Egli rapportava poi che aveva scelta una fossa insieme con un ufficiale del genio. Questa fossa è ore conosciuta come “Fosse Ardeatine”. L’Hauptsturmführer Priebke, e forse anche Schuetz dovevano controllare che tutte le persone in questione fossero trasportate dalla prigione sul posto dell’esecuzione.

L’agghiacciante immagine del ritrovamento delle vittime dell’eccidio

Verso le due il primo trasporto si mise in moto ed io con una parte dei miei uomini andai alle fosse. Quando ogni autocarro arrivava sul posto le persone in questione, sempre cinque alla volta e ognuno accompagnato da un SS venivano portate alla fine della caverna. Tutte le persone avevano le mani legate dietro la schiena. Alla fine della caverna i cinque dovevano inginocchiarsi insieme e l’SS che li accompagnava all’ordine dato doveva sparare alla nuca a breve distanza. I successivi cinque furono fucilati da ufficiali. Io ero uno di questi. Dopo l’esecuzione di ogni cinque, i cinque SS uscivano mentre altri cinque SS portavano nella caverna le successive vittime. Dopo aver sparato il mio colpo, uscii per controllare quello che accadeva fuori: la cancellazione dei nomi operata da Priebke sull’elenco; i preparativi dei pionieri per far saltare in aria la caverna, e le misure prese per sbarrare la zona. Poi ritornai in macchina al mio Quartiere Generale, ritornando alla caverna verso le 18.00 h.

Trovai al mio ritorno che l’Hauptsturmfürer Wetjen non aveva ancora sparato il suo colpo. Parlai con lui in una maniera amichevole e entrai insieme con lui nella caverna per sparare un altro colpo al suo fianco insieme con lui.

Non avevo ancora ricevuto l’elenco di Caruso e così mandai l’Obersturmführer (tenente) Tunath al suo ufficio in modo che egli potesse aiutare Caruso nell’accelerare il trasporto delle persone elencate da Caruso stesso.

L’esecuzione era finita verso le ore 20.30. Io lasciai la Caverna prima della fine dell’esecuzione verso le ore 19,00.

Nel pomeriggio il Maggiore Boehm telefonò al mio ufficio desiderando sapere cosa era successo al rapporto che doveva confermare che l’esecuzione era stata compiuta regolarmente. Fui seccato da questo, ma Boehm mi disse che aveva bisogno del rapporto per mandarlo alle autorità superiori. Mi fece capire, che questa Autorità Superiore era il 14.A.O.K. Comando Generale del 14. Corpo d’Armata). Io mandai un rapporto scritto sugli avvenimenti ad Harster il, o intorno al, 29 marzo 1944. Prima io gli avevo fatto un rapporto verbale in Cernobbio.

I seguenti dei miei ufficiali parteciparono all’esecuzione:

Sturmbannfuehrer (maggiore)          Hass

“                                             Domizlaff

Hauptsturmfuehrer (capitano)          Koehler

“                                             Schuetz

“                                             Priebke

“                                             Clemens

Obersturmfuehrer (Tenente)             Schubernig

Tunath

Untersturmfuehrer (S. Ten.)  Kahrau

Hauptsturmfuehrer (capitano)          Wetjen

Dopo, credo la mattina seguente, nel mio Quartiere Generale, Priebke mi ha raccontato che egli aveva calcolato che 336 persone erano state uccise.

Fin dal primo momento mi resi conto tanto della mostruosità delle misure prese come della loro importanza dal punto di vista morale per tutti quelli implicati. Le misure, come tali, mi sembravano giustificate a quell’epoca, e ancora oggi così mi sembrano, secondo le leggi di guerra. Soltanto dal punto di vista del diritto internazionale più tardi ebbi dei dubbi.

F/to KAPPLER

Ho letto questa dichiarazione e l’ho trovata corretta e vera secondo quanto so e credo.

F/to KAPPLER

Dichiarazione fatta dal Capitano N.E. Middleton, HQ SIB, AFHQ, coll’aiuto del Capitano F.G. Sutton, M.C. Bedfs & Herts Regt, e autenticata la firma il 4 agosto 1945.


Wladimiro Settimelli, già direttore di Patria Indipendente su carta, scomparso 27 settembre 2017

(Da Patria Indipendente n. 4 del 22 aprile 2012)