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Umberto Carpi
Umberto Carpi

In occasione del 750° della nascita di Dante Alighieri, pubblichiamo uno scritto di Umberto Carpi, da “L’Inferno dei guelfi e i principi del Purgatorio”. Le parole di Carpi ci immergono nella quotidianità spesso drammatica della vita del Poeta e delle sue propensioni politiche, nelle tensioni e nei condizionamenti causati dal contesto, nei riflessi sulla sua opera. Il testo, senza dubbio specialistico e complesso, è di grande interesse storico e culturale, anche perché illumina alcuni aspetti della personalità del Poeta oltre qualsiasi retorica scolastica. Ed è un modo per ricordare Umberto Carpi, “il nostro” Umberto Carpi, straordinario intellettuale, studioso di primissimo piano di Dante e Leopardi, docente universitario, senatore, dirigente dell’ANPI e membro della redazione di Patria Indipendente cartacea. Umberto ci ha lasciato il 6 agosto 2013. E ancora lo rimpiangiamo.

 

Chi è Dante quando scrive l’Inferno? Chi frequenta e dove? Quali le sue prospettive politiche? Come si è venuto evolvendo il suo rapporto con la Firenze “nera” sì, ma attraversata da ulteriori divisioni nel partito dominante, la fazione magnatizia di Corso Donati contro la popolare dei Della Tosa? E il rapporto con gli ambienti del fuoruscitismo ‘bianco’ e ghibellino? Ovvero con i nobili della feudalità appenninica presso i quali si è venuto via via ricoverando dopo il bando? Ovvero, ancora, con i tiranni presignorili delle città romagnole o lombarde, o con Bologna e con le città della Tuscia, tutte – l’una e le altre – a loro turno agitate dalle complicazioni introdotte nella tradizionale partizione fra guelfi e ghibellini dal nuovo conflitto ‘bianco’-‘nero’ e dai suoi contorti andamenti? Mese dopo mese, giorno dopo giorno, di castello in castello e di città in città Dante è costretto a destreggiarsi fra le insidie e le piccole logiche di un contingente labirintico e mutevole. E deve farlo nel contesto, si badi bene, di un’Italia ulteriormente sconvolta dal conflitto nel Mezzogiorno fra Angioini e Aragonesi (questi molto presenti anche in Toscana – Pisa, Firenze, Lunigiana – per riflesso della loro politica sarda), ulteriormente disorientata dalla vacanza di entrambi i seggi, diciamo meglio dall’assenza, oltre che dell’imperatore, anche del papa dopo la scomparsa di Bonifacio VIII. Firenze Tuscia-Romandiola Italia nell’anarchia politica e l’Europa segnata dal nuovo protagonismo del regno francese, dalla crisi imperiale: drammatici stimoli peraltro – in quel tumultuoso, incalzante accavallarsi di avvenimenti grandi e piccoli e di microsituazioni spesso imprevedibili – all’avvio di una revisione ideologica di fondo e di lungo periodo.

Dante ha da districarsi quotidianamente, sotto l’incubo costante di Firenze, fra Romena e Dovadola, fra Lunigiana e Pisa o Genova, fra Verona e Treviso, Bologna e Lucca…, l’impervia e mossa geografia infernale; ma insieme – da Inf. II a Pg. VI, da Federico II nell’arca infuocata degli eretici a Manfredi e alla gerarchia imperiale nella valletta dei principi – gli si impone una riflessione complessa: riflessione storica sulle ragioni di quel disordine, riflessione politica sulle condizioni necessarie al ristabilimento di un ordine e di una pace universali. Dall’Inferno al Purgatorio, anzi fra le due cantiche come ad arco, lo svolgersi di tratti brevi dell’esperienza e della politica a segmentare la linea lunga dell’ideologia e dell’utopia: da Federico II a Manfredi, da Guido montefeltrano a Buonconte e all’ubi sunt? romagnolo di Guido del Duca, dalla Firenze del sabbione ardente alla Firenze di Malebolge alla Firenze di Pg. VIII (e a Nino Visconti, non dimenticando – a proposito di questo segmento narrativo – la complementarità politica, sancita nella stessa tradizione letteraria fin dal Guittone della canzone Magni baroni certo e regi quasi, | Conte Ugolino e Guidici di Gallore, dei due guelfi pisani Ugolino dei Gherardeschi e Nino dei Visconti).

Guelfi-ghibelliniFu uno straordinario, intricato succedersi politico: naturalmente oggi sappiamo come sono andate le cose nel tempo lungo, e non intendo nemmeno il lunghissimo della storia, ma proprio quello dell’arco dantesco, della stesura della Commedia intera dalla ripresa in Lunigiana del precedente abbozzo fiorentino fino agli anni veronesi di Cangrande, dall’Inferno al Paradiso  e alla Monarchia attraverso le delusioni del primo e secondo esilio e della cruciale vicenda di Arrigo VII. Ma fra 1307 e 1309, mentre scriveva l’Inferno e poi avviava il Purgatorio, Dante non solo non sapeva come si sarebbe configurato il quadro politico (e come evoluta la propria situazione personale) negli anni della composizione del Paradiso, ma non sapeva neppure – neppur ne sospettava la possibilità ancorché la auspicasse – dell’imminente discesa in Italia di un imperatore: sapeva invece assai bene (mentre nel pensiero gli si arrovellava, sempre più urgente in un tale quadro di conflitti particolari, la necessità – Chiesa e Impero e gerarchia delle giurisdizioni – di un nuovo concetto dell’ordine universale) quel che era minutamente successo, che gli era successo nei cinque anni precedenti, prima e dopo la Lastra, e sapeva quel che gli stava toccando ora, di dover fare i conti con una situazione personale sempre più difficile e contraddittoria, dagli sbocchi ogni giorno più ardui.

Un’illustrazione di Paul Gustave Doré. Inferno, XXI, versi 717-72 (da https://it.wikipedia.org/wiki/Inferno_-_Canto_ventunesimo)
Un’illustrazione di Paul Gustave Doré. Inferno, XXI, versi 717-72 (da https://it.wikipedia.org/wiki/Inferno_-_Canto_ventunesimo)

Lui antico guelfo fiorentino improvvisamente balestrato, nei diciotto mesi dalla prima condanna alla metà del 1304, fra ghibellini di Firenze che da decenni la sua stessa pars aveva bandito dalla città come gli Uberti e i Lamberti, ovvero fra ghibellini feudali anch’essi per decenni dal suo Comune combattuti nei loro feudi e castelli, come i Pazzi e i Romena, proprio i Pazzi del Ranieri poi immerso nel sangue bollente di Flegetonte ovvero del Camicione e del Carlino traditori fra Caina e Tolomea e i Romena poi destinati alla bolgia dei falsatori di moneta. Ed era insieme a questa inaudita alleanza dell’Universitas partis alborum con la diaspora dei ghibellini di Firenze esiliati da decenni (alleanza affatto improvvisata e, quanto ai comunque vitali collegamenti con la pur declinante nobiltà feudale, resa ancor più incerta dalla mutevolezza di interessi di quei personaggi e di quei casati fra l’uno e l’altro versante d’Appennino, tipico il lioncel dal nido bianco Maghinardo da Susinana ‘guelfo’ amico di Firenze ‘nera’ in Tuscia, ‘ghibellino’ nemico della Chiesa di Romandiola), era con questa alleanza che lui e tanti altri di antica schiatta e militanza guelfa si erano impegnati a rientrare con le armi a Firenze: sicché il poeta ‘nero’ Guido Orlandi ben a ragione, dal suo punto di vista, aveva potuto scrivere che i ‘bianchi’ implicati in quelle avventurose trame avevano abbandonato una volta per sempre la pars Ecclesie, «ché furon guelfi, ed or son ghibellini ! da ora inanti sian detti ribelli! nemici del Cumun come gli Uberti». Un conto il bando sulla base di reati amministrativi (sia pur contestati per ragioni politiche), tutt’altro conto lo status di ribelle, di nemico del Comune. Tutt’altra, anche, la pena: là esilio e confische, adesso la testa. E per converso, a rendere ulteriormente insidiosa la geografia politica italiana in cui si trovavano così d’improvviso costretti a muoversi e in tali condizioni di debolezza, questi novelli esuli dovevano spesso fare i conti con molte famiglie ghibelline di antico esilio – Uberti in primis – ormai inserite, dalla Lombardia alla Sicilia, nelle istituzioni e negli affari, presumibilmente assai sospettose, quando non rancorose, nei confronti di antichi avversari adesso sì a loro volta in disgrazia, ma pur sempre guelfi: ne seppe qualcosa, io credo, lo stesso Dante nei primi soggiorni veronesi e anche ad Arezzo.

Ma dopo, nei due anni e mezzo seguenti fino alla scrittura della Commedia (alla ripresa dopo il primo abbozzo in Firenze) facendo data dalla vicenda della Lastra nell’estate 1304 quando aveva rotto con quella che sarebbe divenuta nel suo giudizio la compagnia malvagia e scempia e che a sua volta lo avrebbe considerato alla stregua di traditore facendosi contro di lui tutta matta ed empia (empia, spietata, senza pietà, esattamente come Farinata dice del popolo fiorentino contro la sua schiatta, insomma l’aggettivo delle persecuzioni senza quartiere, il contrario di pio, di pietoso), dopo la Lastra lui ‘bianco’ sempre in bando da Firenze ‘nera’, però passato ad opposte protezioni: non più di ‘bianchi’ e di ghibellini, adesso di ‘neri’ legati al partito di Corso Donati. Protezioni efficaci come tali e dunque di gran lunga più agiata e sicura la sua condizione personale, ma ancor più intricato il quadro politico intorno.

Ringraziamo Simonetta Teucci per il prezioso lavoro redazionale