• 0Nel 1960, durante un dibattito televisivo per le presidenziali statunitensi, si affrontano John Fitzgerald Kennedy – giovane, abbronzato, di aspetto gradevole – e Richard Nixon, malconcio, debilitato da una recente malattia. Il pubblico televisivo si schiera e decreta Kennedy il vincitore del dibattito (e delle successive elezioni), a scapito di un avversario politico che ottiene consensi tra chi, quel dibattito, l’ha seguito in radio. L’insegnamento che deriva da questo episodio è tanto emblematico quanto cristallino: l’aspetto estetico conta, malgrado gli sforzi di dare maggiore valore ai contenuti.

La comunicazione politica passa anche attraverso questi fattori chiave: guadagnarsi nuove simpatie, disorientare i detrattori, far capire qualcosa del sé politico già da una prima e superficiale occhiata attraverso l’abbigliamento e il look. Se all’inizio degli anni 80 il Psi intraprende una collaborazione con un’agenzia pubblicitaria per catalizzare l’attenzione sulla figura del leader Craxi, la sublimazione avviene – come è noto – agli albori della Seconda Repubblica, nel 1994, con la “discesa in campo” del self-made man e le sue sottili strategie di marketing politico. Berlusconi parte con l’esibizione di giacche doppiopetto, per arrivare a una rocambolesca sfilata di capi e accessori inverosimili: la bandana bianca sul completo da uomo d’affari sudamericano, gli occhiali neri e avvolgenti e quel dettaglio da vero istrione, il caschetto da carpentiere del 2001, quando gioca a travestirsi da presidente operaio.

Destituito il faraone, il nuovo che avanza rivoluziona anche il guardaroba: Renzi, per le primarie del centrosinistra del 2012, offre un’immagine di sé antitetica a quella da “impiegato del mese” di cui aveva fatto sfoggio nei suoi anni da sindaco. Bastano le prime edizioni della Leopolda e la furia rottamatrice che monta come l’onda perfetta: il giovane leader si presenta ai comizi in maniche di camicia, emulando il gesto – con la beffa, se lo si legge come un “ti faccio le scarpe”, tanto per rimanere in tema – di rimboccarsi le maniche sdoganato nel 2010 da Pier Luigi Bersani. Ma il Matteo Renzi animale da palcoscenico riesce a far convergere molto bene l’attenzione sulle sue scelte di vestiario: in una sua apparizione televisiva, ospite di Maria De Filippi, fa sfoggio di un chiodo di pelle con cui prova ad azzerare le distanze tra la politica dei palazzi e l’elettorato giovane.

Se, per lungo tempo, i politici italiani hanno fatto un uso molto parsimonioso e standardizzato dell’abbigliamento “strategico”, l’avvento di Matteo Salvini ha amaramente insegnato quanto, invece, questa pratica sia alla base del decalogo di un politico di successo, oggi più che mai. Messo da parte il retaggio minimalista della Lega old school con i suoi pochi accessori (cravatte, soprattutto), Salvini non si è limitato a rivendicare il suo battesimo politico a Pontida ma, con la sua serie infinita di felpe, ha esteso la sua adesione a tutte le cause e la sua appartenenza a tutti i luoghi. L’interminabile saga in stile “saluti da…” si sublima con le recentissime elezioni regionali in Sardegna, in cui ha indossato una felpa stampata con la celebre bandiera dei quattro mori (e non c’è bisogno di specificare perché sia una scelta paradossale, di quelle che tirano fuori una risatina infantile e strozzata).

La comunicazione dell’attuale Ministro dell’Interno che passa attraverso l’abbigliamento raggiunge un livello di immedesimazione quasi caricaturale: nella sfilata di divise a cui ci ha abituato in questi mesi di governo, infatti, travalica la formale adesione di un uomo di Stato alle forze dell’ordine che rappresenta, ma ne diventa quasi l’imitatore, attirando, a sua volta, altri emuli, come il ministro della Giustizia Bonafede che, il giorno della cattura di Cesare Battisti, ha indossato la divisa della Polizia penitenziaria, attirando gli inevitabili slogan sarcastici in stile «Non sono secondino a nessuno».

La comunicazione del vicepremier, però, non passa solo per divise e felpe, ma gioca anche con la nudità. Sono due, infatti, le occasioni in cui l’attenzione non è stata monopolizzata dai suoi travestimenti: la prima, nel dicembre 2014, quando si dichiara l’alternativa a Renzi e posa sul settimanale Oggi vestito solo della celebre cravatta padana; la seconda, più recente e virale, quando appare desnudo nel selfie che Elisa Isoardi pubblica per annunciare via social la rottura del loro fidanzamento.

Con questo suo approccio Salvini intercetta, prima ancora che un elettorato, un pubblico: ammiccando, suscitando polemiche e, inevitabilmente, guadagnandosi anche un gran numero di simpatizzanti, pronti a difendere a spada tratta tanto i suoi provvedimenti di legge opinabilissimi, quanto la sua presenza massiccia sui media e l’inesistente separazione tra il politico che vuole impartire una dura lezione all’UE e l’uomo amareggiato per l’epilogo sentimentale.

E, così, in questa corsa all’oro per sfruttare i nuovi media come fabbrica di consenso, Matteo Salvini si è trasformato in una mascotte. O in un cosplayer, per rievocare i fanatici dell’animazione giapponese che affollano le fiere di fumetto vestiti in ogni minimo dettaglio come i loro beniamini disegnati. Con la sua collezione di felpe sembra quasi voglia giocare un Risiko a colpi di abbigliamento: un modo per segnare i “suoi” territori, piantare bandierine e urlare fieramente (ma senza aprire bocca) «Non passa lo straniero!».

Cosa aspettarsi, quindi, dal prossimo decisivo match politico, le elezioni europee? Probabilmente Salvini lo intenderà come il suo personale Carnevale di Rio e sfoggerà i vestiti più sgargianti per stemperare il nero che caratterizza le sue scelte politiche. O, magari, deciderà di adornare le sue piume di pavone, rispolverando quel verde brillante e padano, vessillo di un campanilismo già in odore di sovranismo. O forse, dismetterà i panni di tutti i personaggi visti finora per raggiungere un livello superiore: il meta-travestimento da Matteo Salvini.