Stran(i)eri è un progetto che nasce dall’esperienza di una scuola di italiano per richiedenti asilo e dalla precisa voglia di dipingere una realtà fatta di accoglienza, di comunità valdostane che aprono le braccia al nuovo, a ciò che qualcuno definisce diverso. Ma se, come scrisse Terenzio, «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» (sono umano, non ritengo estraneo a me nulla di ciò che è umano), la nostra umanità dovrebbe prevalere sulle differenze. Abbiamo fatto delle domande a Viviana Rosi di END Edizioni, la casa editrice che pubblica questo progetto che coniuga il mondo del fumetto con la cronaca e che invita a essere umani, senza distinzioni.

Cos’è Stran(i)eri?
Stran(i)eri è un progetto editoriale composto da due parti narrative, tra loro complementari. Siamo partiti dalla Val d’Aosta, il territorio in cui abitiamo e operiamo, e da due esperienze di accoglienza per noi esemplari: la prima è la storia di una scuola di italiano per richiedenti asilo che, nel tempo, ha coinvolto circa duecento ragazzi (e che ora, a causa del decreto Salvini, non riceverà più contributi pubblici), mentre la seconda è la storia di una piccola comunità – un appartamento – che, da circa un anno, ospita dei rifugiati. Considerati i venti xenofobi e razzisti che soffiano in questo periodo, ci è sembrato utile creare una contronarrazione per raccontare alcune iniziative e attività pensate non semplicemente per intrattenere, ma per sottrarre alla cappa di isolamento e indeterminatezza delle persone con trascorsi molto dolorosi. Per realizzare il progetto ci stiamo avvalendo di un crowdfunding grazie al quale potremo presentare i libri in circuiti affini, realizzare una mostra delle tavole contenute nel libro e inaugurare dei laboratori di fumetto. Un progetto molto articolato, in cui tutte le persone coinvolte stanno dando il proprio contributo a titolo gratuito, fortemente consapevoli della valenza civile di questo lavoro.

Una tavola di Luca Enoch

Come mai avete scelto il fumetto per raccontare queste storie?
Partiamo dalla prospettiva dei migranti: innanzitutto, il disegno è un medium che precede l’apprendimento linguistico, quindi permette di dire qualcosa di sé già nella primissima fase e il laboratorio di fumetto ha rappresentato un momento di “decompressione” per i richiedenti asilo.
Dalla prospettiva del pubblico, invece, il fumetto permette di “incontrare” le fasce più giovani della popolazione o chi, normalmente, sarebbe poco incline ad ascoltare un discorso sulla migrazione. In questo, credo aiuti molto il contributo di fumettisti italiani, noti e civilmente impegnati, come Luca Enoch, Giuseppe Palumbo e Arianna Farricella, che prenderanno parte al lavoro e racconteranno la migrazione attraverso i loro personaggi-icona. Nella pubblicazione si alterneranno tavole e storie eseguite da professionisti, ad altre, realizzate dai ragazzi. Inoltre, questo progetto editoriale in fieri ci permette di coinvolgere, giorno dopo giorno, nomi di spicco del panorama fumettistico: ad esempio, ha da poco confermato la sua partecipazione l’illustratore Maicol & Mirco.

Una tavola di Giuseppe Palumbo

Il titolo del progetto è una provocazione, una volontà di definirsi stranieri, prima ancora di additare l’altro come “diverso”?
Sì, perché se siamo stranieri per qualcun altro, allora, contestualmente, nessuno lo è. La “i” tra parentesi vuole quasi rivendicare questa diversità, dichiarandosi non semplicemente neri, ma neri all’ennesima potenza, tutti quanti. Sottolineare la diversità dell’altro metterebbe noi stessi nella condizione di essere discriminati, allora l’unica prospettiva umanamente corretta e accettabile è il meccanismo di solidarietà e la valorizzazione delle differenze.

Un ragionamento quasi sconcertante nella sua naturalezza, soprattutto se si pensa a quanto sia antitetica la realtà attuale.

Esatto. Il nostro è un discorso che fino a poco tempo fa avremmo considerato normale, di civiltà e solidarietà. Ora, invece, sembra straordinario. Sono i tempi, purtroppo, ma cerchiamo – proprio per questo – di portare avanti una narrazione che non si limiti all’antirazzismo, ma che prosegua il discorso in positivo e manifesti il nostro aperto dissenso verso le politiche attuali.

Quanto è stato difficile far raccontare ai migranti le loro storie?

Non è mai facile farli parlare del passato, forse perché hanno paura di essere fraintesi. Noi, però, più che indagare sul prima, abbiamo cercato di puntare sulla loro idea di presente e di futuro. Rispetto alle narrazioni più diffuse, che giustamente denunciano le situazioni di partenza dei migranti, provando a ricostruire cosa succede nelle carceri libiche, ad esempio, o nel viaggio pericolosissimo in mare, a noi interessa raccontare cosa succede dopo, anche per ribadire quanto la fantomatica “pacchia” sia pura invenzione.

Una pagina di Arianna Farricella

Il gruppo dei richiedenti asilo di cui si parla in Stran(i)eri era omogeneo per età e provenienza?

Era un gruppo di uomini maggiorenni, tra i 18 e i 25 anni (con alcune eccezioni di uomini più adulti) e arrivavano principalmente dai Paesi dell’Africa occidentale. Non sono dati marginali, soprattutto perché età e provenienza incidono nelle dinamiche di apprendimento della lingua e di interazione e integrazione. I profughi provenienti dai Paesi francofoni, ad esempio, hanno riscontrato meno difficoltà a comunicare e a integrarsi in Val d’Aosta, regione bilingue in cui il francese è molto diffuso, ma considerevolmente maggiori sono state le difficoltà dei ragazzi provenienti dalle ex colonie anglofone. Si tratta di distinzioni tutt’altro che secondarie, ma che spesso non vengono considerate quando si generalizza e si trattano gli individui alla stregua di numeri.

Insomma, una realtà che rischia di acuire situazioni già problematiche. Perché le difficoltà dei migranti non si concludono una volta raggiunta la terraferma.

Proprio così. Accogliere non significa solo salvare fisicamente delle persone: è un processo più complicato, in cui intervengono la solitudine e le difficoltà di inserimento. Abbiamo incontrato sia veri e propri richiedenti asilo per ragioni politiche, sia migranti economici che scappano da villaggi rurali per motivi di sopravvivenza. Mettendo tutto in un unico calderone, non ci si rende conto di avere a che fare con individui dai percorsi molto diversi. Si privano le persone della libertà di scelta – perché è tutto imposto da qualcun altro: la destinazione geografica, la soluzione abitativa, la collocazione in un determinato gruppo e non ci si sofferma abbastanza su quanto questi fattori incidano sull’integrazione o sull’isolamento.

Un processo non facile, soprattutto perché, spesso, l’Italia è intesa più come sosta obbligata, che come meta ultima.

L’espediente narrativo a cui ricorriamo con Stran(i)eri serve proprio a questo: togliere dall’indeterminatezza la figura del “generico” straniero, per poterlo finalmente connotare come essere umano, con un passato e, soprattutto, con ambizioni future. Tra le testimonianze, infatti, ci saranno delle interviste fatte a ragazzi arrivati in Val d’Aosta nel 2011 con l’emergenza Nord Africa. Alcuni di loro decisero di rimanere qui e oggi, a distanza di quasi otto anni, hanno imparato la lingua, trovato un inserimento lavorativo, messo su famiglia in un contesto geografico abbastanza ostico, in cui è difficile vedersi proiettati sul lungo termine. Ecco, a noi interessa questo: raccontare le motivazioni e le prospettive di ognuno.

Un fotogramma dal film “Fahrenheit 451” (1966) tratto dal romanzo di Orwell

Possiamo sperare che l’attività editoriale resistente possa “vaccinarci”, o si prospetta uno scenario in stile Fahrenheit 451, il romanzo di Ray Bradbury in cui il totalitarismo bruciava i libri con furia inopinata?

Diciamo che noi stiamo sperando nel meglio e preparandoci al peggio. I segnali che vengono dall’Europa non sono molto rassicuranti, è vero, però abbiamo ancora la certezza di poter parlare a persone che condividono i nostri valori. Ci troviamo a celebrare la Giornata della Memoria e, contestualmente, ad avere dei migranti in mare a cui è negato lo sbarco e l’idea di chiudere i porti, oggi, assomiglia spaventosamente all’atteggiamento di rifiuto nei confronti degli ebrei all’indomani delle leggi razziali. Quindi, se da una parte siamo paralizzati per questi livelli altissimi di cinismo, dall’altra sentiamo di dover portare avanti le nostre testimonianze dell’accoglienza e la nostra idea di solidarietà continuando, nel nostro piccolo, a combattere attraverso le nostre pubblicazioni.

Letizia Annamaria Dabramo