Giacomo Verri
Giacomo Verri

– C’è pieno di lucciole, – dice il Cugino.

– A vederle da vicino, le lucciole, – dice Pin, – sono bestie schifose anche loro, rossicce.

– Sì, – dice il Cugino, – ma viste così sono belle.

E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano.

Così termina Il sentiero dei nidi di ragno. Uscito nel 1947, il romanzo d’esordio di Italo Calvino è ancora oggi tra i più letti e apprezzati della narrativa prodotta nel giro d’anni che procede dal secondo conflitto mondiale (forse Uomini e no di Vittorini è il primo in ordine cronologico) e arriva all’insuperato – e incompiuto – capolavoro di Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny. Calvino, di cui ora, per il trentennale della scomparsa, fioriscono ogni giorno appassionati ricordi, dedicò alla Resistenza un romanzo apparentemente semplice, che guarda a quella guerra – per ripetere la formula di Alberto Cavaglion – “nata ingiusta e poi trasformatasi in una guerra giusta” con gli occhi di un bambino, Pin, un figlio della strada, un moccioso urlante e pestifero che spia la sorella puttana mentre vende il corpo al tedesco invasore. Come procedano le cose forse lo sanno tutti. Pin fa il gradasso, e snocciola una promessa: ruberà la pistola al cliente della sorella, il marinaio tedesco – siamo tra i carrugi liguri –, perché vuole dimostrare qualcosa a quel mondo dei grandi così tanto diverso dal suo. Sono persone strane gli adulti, amano le donne e i discorsi difficili. Pin invece vuole cantare, prendere per il culo chi lo sfotte, e cacciare fili d’erba nei nidi di ragno, lungo un sentiero che solo lui conosce. Segreto da bambino che per nulla al mondo svelerebbe a un adulto. È lì che Pin nasconde l’arma, è lì che il suo universo si mantiene inviolato.

Tuttavia, finisce nei guai: arrestato, in gattabuia conosce Lupo Rosso, ragazzino pure lui, ma già adulto, maneggia le armi, sa cosa significhino parole come Sten, gap, sim, sa qualcosa delle donne e della violenza vera. Insieme scappano, si perdono, e Pin incontra Cugino che se lo porta dal Dritto, comandante baldanzoso, ma di cui il Comitato non si fida. Per questo il suo è un distaccamento scalcagnato, fatto dei pezzi peggiori persi dagli altri comandi, gente insubordinata, fanatici delle armi, pidocchiosi, lettori incalliti. Ci sono battaglie, alcune vinte, altre perse, c’è una storia d’amore – una questione molto privata, inseguita da Calvino e realizzata in pieno da Fenoglio che “riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato” – che si volta in disastro, c’è la dissoluzione del distaccamento.

Tutto vero. Ma la guerra combattuta è poca, di quella leggendaria guerra per bande non si ha traccia se non nelle parole di chi torna al fienile sfondato per raccontare. Pin alla guerra non ci va, non la vede, solo ne sente i rumori o ne scorge i fumi. La sua è una guerra da bambini, senza sangue spruzzato sulla camicia, senza i compagni che ti muoiono addosso. Riprendendo in mano il libro, scopriamo che Pin gode sempre di questa visuale scorciata, favolosamente parziale, o totale ma lontana. È così quando spia gli amori svenduti della sorella, la Nera di Carrugio Lungo; è così quando c’è da vedere la battaglia, ed è così quando c’è da capire con gli occhi della mente il mondo dei grandi. Quella di Pin è una realtà incantata, i cui simboli sono proprio i nidi di ragno: “la cosa meravigliosa è che le tane hanno una porticina, pure di quella poltiglia secca d’erba, una porticina tonda che si può aprire e chiudere”, un regno minuscolo e fatato.

Non per questo difettoso d’impegno. Pin è un resistente e un sognatore, resiste all’incanto malvagio dell’adultità, opponendo la geometrica fantasia del proprio universo bambino. Pin non si lascia ingannare mai e da nessuno, non dagli intrichi della menzogna né da quelli della violenza bruta. La sua irriducibilità agli incantamenti è, in cifra, un’occasione per ripensare i rapporti tra gli esseri umani. Quando tutto il resto frana, lui oppone alla distruzione la fantasia, che è come dire la passione dell’intelligenza. E attorno a lui non crolla solo il marcio fascismo ma, qua e là, anche coloro che lo avversano, travolti dalla stessa potenza dell’ardore politico, intellettuale, personale.

Pin mantiene le distanze e custodisce il sogno che forse i partigiani, come scrisse Salvemini, non sapevano cosa fosse, ma lo volevano subito. Protegge quel sogno per riconsegnarlo a noi, per evitare il grande errore di parlare di Resistenza “in modo sbagliato”, coi miti e con le fanfare. “La letteratura che ci interessava – siamo nel 1964 e Calvino introduce la nuova edizione del romanzo – era quella che portava questo senso d’umanità ribollente e di spietatezza e di natura”. Ma ci vuole distacco. Altrimenti la realtà è oscena, come le lucciole viste da vicino. O, se non è brutta, diventa eccessivamente nitida. Chi nel romanzo la vede così è Kim che “ha un desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle cause e gli effetti”. Egli è la visione nobile, è la coscienza, carica di dubbi, ma pur sempre buona, è il senno di poi, è il discorso su ciò che i partigiani avrebbero dovuto essere. E se il Dritto, a sua volta, è la disincantata realtà di ciò che invece fu (la salutare ma amara consapevolezza di come andarono le cose), Pin è il personaggio più bello, perché salva la magia della pratica resistenziale e con essa il miracolo di quel “qualcosa di serio e di pulito” che Giorgio Agosti disse può accadere anche in questo nostro paese, “una volta al secolo”. Pin difende tutto ciò grazie al suo stare un passo indietro. È colui che non vede tutto, ma vede da lontano, il suo sguardo assomiglia forse a quello che Baricco una volta ha detto dell’occhio epico, che è ampio ma a bassa definizione. Pin è il sempre bambino che annusa l’asprezza della vita adulta ma non l’addenta, o, se lo fa, è per sputarla subito. Ma è vita vera anche la sua. Nel custodire il sogno, egli non vuole offrire delle risposte ma proporre una continuazione della storia. Per sempre. L’esperienza non lo costruisce più saggio, disincantato, o disamorato, ma lo rimette in viaggio e lo abbandona ancora alla grande mano di pane di Cugino.

Il Grande Amico, quello che si interessa dei nidi di ragno e del sogno magico che è stata la nostra Resistenza.

 

*Giacomo Verri è nato nel 1978 a Borgosesia. Lì fa l’insegnante di Lettere alle scuole medie. Ha scritto su Nazione Indiana, Doppiozero, Il Primo amore, Nuova Prosa, LibriSenzaCarta, L’impegno. Ha collaborato alle pagine culturali del quotidiano l’Unità, e ora recensisce per Satisfiction e La poesia e lo spirito. Cura la rubrica Radici e Dedali sulla rivista Zibaldoni e altre meraviglie. Partigiano Inverno, testo finalista al Premio Calvino 2011, è stato il suo primo romanzo, pubblicato da Nutrimenti nel 2012. Con Racconti partigiani (Biblioteca dell’immagine, 2015) torna a parlare di Resistenza, quella di ieri e quella di oggi.