Marco Balzano
Marco Balzano

Marco Balzano è nato nel 1978 a Milano, dove lavora come insegnante di liceo. Oltre a due raccolte di poesie (Particolari in controsenso, 2007, premio Gozzano, e Mezze verità, 2012) e a due saggi su Giacomo Leopardi (I confini del sole, 2008, premio Centro studi leopardiani; e Gli assurdi della politica, 2015) è autore di tre romanzi: Il figlio del figlio (Avagliano 2010, Premio Corrado Alvaro), Pronti a tutte le partenze (Sellerio 2013, Premio Flaiano) e L’ultimo arrivato (Sellerio 2014, Premio Campiello, Premio Volponi e Premio Fenice-Europa). I suoi libri sono tradotti in Francia e in Germania.

 

COVER -una questione privata -FENOGLIOUna questione privata, insieme a Piccoli maestri di Luigi Meneghello, è il romanzo sulla Resistenza che amo di più. A questi due, in verità, dovrei aggiungere L’Agnese va a morire di Renata Viganò, dove nel racconto partigiano finalmente irrompe da protagonista una figura femminile, che sottolinea l’importanza niente affatto secondaria che le donne ebbero nel processo di liberazione dal nazifascismo. Anzi, come notava Sebastiano Vassalli, in quel racconto tutta la storia si irradia dalla personalità di questo personaggio “disumano per la sua grandezza”. Però, al netto dell’originalità assoluta dell’opera della Viganò, il romanzo più compiuto resta per me Una questione privata. Vale la pena introdurlo con le parole di Italo Calvino:

“Una questione privata […] è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c’è la Resistenza proprio com’era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente dalla memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia”.

Un disegno di Gustavo Dorè per l’Orlando Furioso (da http://www.dlfmessina.it/cultura/poeti/dore_ar/plates/17.jpg)
Un disegno di Gustavo Dorè per l’Orlando Furioso (da http://www.dlfmessina.it/cultura/poeti/dore_ar/plates/17.jpg)

La storia, almeno nelle sue linee essenziali, è nota ed è, soprattutto, facilmente riassumibile. C’è un giovane partigiano di nome Milton, un anglofilo solitario e taciturno, che è accecato dall’amore per Fulvia, una ragazza di cui quasi nulla sappiamo, se non che è di buona famiglia, è torinese, ed è sfollata, come molti altri, prima dell’armistizio dell’8 settembre. Il romanzo racconta l’iniziale nostalgia di Milton che si imbatte a ripercorrere i luoghi dell’amore che fu. Una nostalgia che però – una volta venuto a conoscenza della nuova relazione di Fulvia con Giorgio, amico di Milton – si trasforma irreparabilmente in furore, lo stesso ariostesco furore a cui fa giustamente riferimento Calvino nelle parole che abbiamo appena richiamato. Milton è assalito da un irrevocabile bisogno di conoscere la verità dei fatti e questa smania di ritrovare Fulvia polverizza d’improvviso il suo senso del dovere, finora compreso interamente nell’orizzonte resistenziale. Dunque Una questione privata è sì un romanzo sulla Resistenza, ma decisamente sui generis perché la Storia, quella con la lettera maiuscola, scivola in fretta a lato, schiacciata dal peso di una vicenda personale, privata appunto, che la oscura e che, vale la pena chiarirlo subito, non ha nulla di epico e non configura affatto Milton come un eroe. Non a caso la critica ha parlato a più riprese di antieroe e, per le vicende di certi personaggi fenogliani, di un’«epica dell’inutile» (Alberto Casadei). Il breve romanzo (o racconto lungo) è, dunque, prima che una storia di partigiani un romanzo sull’amore. Anzi, è un romanzo d’amore, sulla scorta di una gamma di riferimenti letterari più o meno esibiti nel testo e su cui svetta Cime tempestose di Bronte. Un’ordinaria vicenda che genera uno scombussolamento interiore capace di far arretrare, fino ad eliminarla, quella dimensione civile in cui si sono tradizionalmente svolte e narrate le vicende partigiane.

Beppe Fenoglio (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/d/dd/Beppe_Fenoglio_cropped.jpg/220px-Beppe_Fenoglio_cropped.jpg)
Beppe Fenoglio (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/d/dd/Beppe_Fenoglio_cropped.jpg/220px-Beppe_Fenoglio_cropped.jpg)

Lo scenario su cui si consuma l’incessante vagabondaggio di Milton sono ovviamente le colline che ricorrono in tutta l’opera di Fenoglio. Qui il protagonista si affanna alla ricerca di Fulvia e di una verità dolorosa a cui non ha accesso. Vista l’urgenza che scuote il personaggio, rendendolo folle e tremendo (e nella precedente stesura ancora più spigoloso e violento), ci aspetteremmo un passato tra Milton e l’amata solido e radicato. Ma a uno sguardo più attento l’amore di cui si parla poterebbe tranquillamente essere un amore ideale, vivo solo nella dimensione onirica, quando non allucinata, di Milton, anche in virtù del fatto che di Fulvia, come abbiamo detto, non sappiamo sostanzialmente nulla né l’autore lascia presumere una vita in comune tra i due. È allora ancora più sorprendente notare come questa dimensione intangibile dell’amore non renda affatto meno palpabile il folle volo del protagonista, sempre più avulso dal contesto di lotta in cui invece, prima dello sconvolgimento, era totalmente compreso. Il protagonista di Fenoglio è un uomo allo sbando che devia dai percorsi stabiliti o dalle missioni a lui affidate per imbattersi sulle tracce di Fulvia o meglio del suo fantasma. Se il dovere del partigiano rimane un’esigenza da lui profondamente avvertita e mai rinnegata, è però altrettanto vero che nel tempo della storia questo dovere si rivela oramai inattuabile, almeno fino al chiarimento della questione privata. Fenoglio mette così sul piatto una dialettica nuova, stridente, che smitizza la figura del partigiano (in questo senso, al netto dei toni, dell’uso dell’ironia e delle cifre stilistiche differenti, si scorge un’analogia ideologica con Piccoli maestri di Meneghello), umanizzandola per la necessità primaria di raccontare la fragilità, l’incombenza del mondo interiore e della temperatura delle vicende del cuore. Non a caso l’approdo del racconto sarà proprio il risanamento di questa scucitura tra pubblico e privato, tra necessità interiori e doveri civili, senza però giungere a una sintesi né proporre in chiusura possibili forme di una narrazione del ravvedimento.

L’errare di Milton culminerà quando, ritornato per l’ultima volta alla villa di Fulvia, dove tutto era cominciato, viene sorpreso da una pattuglia di fascisti. Da qui parte una fuga forsennata, tra le pagine più belle che io abbia mai letto. Una corsa tra i proiettili fascisti che non conosce soste o interruzioni:

Correva, e gli spari e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici. Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. «Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi!». Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante. Poi d’improvviso gli si parò dinnanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, l’aggirò sempre correndo a più non posso. Ma come l’ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l’aggirò di ritorno. Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l’imbocco del borgo e l’attraversò nel bel mezzo. C’erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svolta. Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano, presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava. Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò …

 La critica ha dibattuto e continua a dibattere sul significato di questo finale. Milton è morto o è sopravvissuto? È inevitabile chiudere il libro e continuare a chiederselo. Forse non si può nemmeno esimersi dal provare una certa rabbia verso l’autore che ci ha lasciato con questo dilemma. Ma perché questa improvvisa interruzione? Perché una scelta così radicale? Perché non chiarire nemmeno se Milton muore o sopravvive? (sia detto per inciso: nella diatriba io mi schiero decisamente con chi sostiene che Milton è vivo). A mio avviso, a giustificare questo finale, c’è una ragione fondamentalmente morale. Fenoglio vuole fermare la nostra attenzione sull’unico dato che gli sta veramente a cuore e che rimarca la sua idea di scrittura: la crisi del protagonista è superata. Milton è scampato al deragliamento emotivo e al furore senza ritorno. Solo questo conta. Non serve sapere altro. Dopo essere passato per il suo inferno privato, dopo una fuga che è stata di potente e fondamentale valore conoscitivo, Milton è pronto per riabbracciare tutto quel campo di valori che non ha mai smesso di condividere, ma di cui aveva sospeso la pratica perché schiacciato da una forza cieca, irrazionale, violenta. Finita la parte dell’erranza, e divenuto consapevole, il racconto del dopo non avrebbe senso. Così, secondo una prassi comune anche ad altre sue creature narrative – penso a Ettore de La paga del sabato, a Jonny di Primavera di bellezza – Fenoglio non ci pensa due volte e si arresta. Con questo silenzio l’autore passa la palla ai lettori per dire loro che come Milton riapre gli occhi e torna a combattere, così noi siamo chiamati a vivere e ad agire, sulla scorta di una letteratura militante che si fa stimolo alla vita e di una pagina che si pone l’obiettivo di lasciare in eredità un rinnovato senso di partecipazione.