Jean-Michel Basquiat

Trenta anni fa, nella New York di fine anni Ottanta, a soli 27 anni muore Jean-Michel Basquiat (1960-1988), il primo pittore nero in grado di ottenere apprezzamenti a livello internazionale. Causa del decesso: un’intossicazione da stupefacenti. Il suo lascito è importante: mille dipinti e oltre tremila disegni, realizzati in poco più di un decennio. Artista poco classificabile, Basquiat, forte delle suo origini afro-americane, osserva la società con occhio critico e realizza opere graffianti e primitive, che parlano di identità razziale, violenza, solitudine e disuguaglianza.

L’artista muove i suoi primi passi nella New York del boom economico, della musica rap e dei graffiti. Esplora dapprima le potenzialità dell’arte di strada con lo pseudonimo SAMO (acronimo di “SAMe Old shit”) e poi, dal 1980, muove i primi passi nel mondo dell’arte ufficiale, realizzando numerose opere nelle quali dosa con sapienza citazioni colte e cultura contemporanea.

Basquiat, Dark Milk, 1986

Quelle di Basquiat sono tele ruvide, ostiche, quasi mai gradevoli allo sguardo, ma allo stesso tempo sublimi e coraggiose, manifesto della comunità afroamericana, ancora perseguitata dalle ingiustizie sociali e dal razzismo. Le sue figure sono rozze, perché, come lui stesso affermerà: «Di persone rifinite non ne ho mai conosciute. La maggior parte della gente di solito è rozza».

L’artista rivendica l’orgoglio nero, presentando in molti suoi dipinti figure significative della storia “black” nordamericana e haitiana. Consapevole dell’assenza di eroi neri nella storia dell’arte, in pieno periodo reaganiano, Basquiat realizza lavori come Hollywood Africans e Charles the First, dedicato al sassofonista Charlie Parker, jazzista dedito all’alcool, all’eroina e frequentatore di quei bassifondi che tanto attirano l’artista.

Basquiat, Irony of a negro policeman, 1981

E ancora Dark Race Horse-Jesse Owens, dedicato all’atleta olimpionico che nel 1936 vinse due medaglie d’oro nei cento e nei duecento metri piani, battendo gli atleti ariani sostenuti da Adolf Hitler. In King of the Zulus, invece, Basquiat omaggia il musicista Louis Armstrong, sostenitore di Martin Luther King e impegnato nella lotta per i diritti dei neri. È però con le opposizioni grafiche della grande tela Dark Milk che forse l’artista realizza la piena consapevolezza nella denuncia socio-politica, manifestando la necessità di superare le differenze di sesso, razza e religioni.

Il tema delle disuguaglianze è fortemente sentito dall’artista che, nero di estrazione borghese, subisce sulla propria pelle i soprusi di una società dominata dai bianchi. A ritmo jazz, Basquiat racconta dunque storie di emarginazione e di alienazione: i suoi tratti sono incisivi, rupestri. Chi guarda le sue opere non è mai rassicurato dalla bellezza estetica ma, al contrario, innervosito da tratti distorti e da forti cromie.

Basquiat, autoritratto 1984

L’artista scardina il comune senso estetico con le sue figure mostruose e scheletriche presentate frontalmente e senza alcuna visione prospettica. Fra espressionismo e primitivismo, l’arte di Basquiat mantiene sempre un tratto personale distinguibile, motivo che lo fa annoverare fra i rappresentanti più interessanti della fine del Novecento. Fra i motivi ricorrenti nella sua poetica: teste nere, corone, giocatori di baseball, musicisti e pugili, ma anche croci, frasi, maschere tribali, automobili, edifici e alberi, tutti elementi che compongono una serrata critica alle politiche razziali della società americane. Una società che in meno di un decennio aveva innalzato agli onori la sua arte ma non l’essere umano che, al di fuori dello star system, non riusciva neppure a fermare un taxi per strada, perché i tassisti bianchi non accettano i neri come passeggeri.

Basquiat vede ogni giorno i suoi fratelli subire violenze e soprusi, come Michael Stewart, il suo amico writer venticinquenne barbaramente picchiato e ucciso dalla polizia.

Basquiat, Monnalisa, 1983

A lui nel 1983 l’artista dedica Defacement, nel quale due poliziotti picchiano una sagoma, simbolo dell’intera comunità nera. Con quest’opera Basquiat supera la proposizione di eroi neri sulla tela, decidendo di denunciare apertamente la crudeltà del razzismo. Micheal Stewart non è solo un compagno dell’artista ma è il simbolo di tutti quelli che, ingiustamente, subivano le violenze delle forze pubbliche.

Le inquietudini della società si mostrano sempre più fortemente e senza remore nei lavori di Basquiat che affermerà che l’ottanta per cento delle sue opere è animato dal sentimento della rabbia. La rabbia per le prevaricazioni verso i più deboli e per l’impossibilità di sovvertire la situazione. Questa condizione di subalternità sociale fa nascere nell’artista la necessità di ottenere un riconoscimento ufficiale. A soli diciassette anni aveva già annunciato al padre la volontà di «diventare famoso, molto famoso».

Jean-Michel Basquiat con Andy Warhol

La ricerca di fama diventa così un vero e proprio obiettivo ed è grazie alla sua forte ambizione e all’incontro con il già affermato Andy Warhol che il giovane artista inizia a consacrare la propria posizione nel mondo dell’arte. Warhol e Basquiat si conoscono nel 1982, insieme producono famosi Collaboration painting, vivendo di eccessi, lussi e droghe. Il sodalizio fra i due termina qualche anno dopo, quando il New York Times definisce sprezzantemente Basquiat “la mascotte di Warhol”. Quando Warhol muore nel 1987, Basquiat è sconvolto. L’abuso di droghe, unito all’incapacità di reagire ad una società fagocitante e spietata porterà alla morte anche il giovane artista, deceduto prematuramente il 12 agosto 1988 per una overdose.

Basquiat, Defacement, 1983

Basquiat ci ha lasciato opere significative, che meritano di essere osservate con cura e sensibilità perché portatrici di un messaggio che non possiamo ignorare: le ingiustizie vanno combattute, l’egocentrismo della cultura occidentale non è l’unico modo di pensare al futuro. Insieme possiamo trovare nuovi modelli di vita, apprezzare le potenzialità di una società multiculturale, lottare per una esistenza più giusta e imparare a vivere come fratelli, perché altrimenti, parole di Martin Luther King, «periremo insieme come stolti».

Francesca Gentili, critica d’arte