El Cid

“Andate per il mondo e cercate il mondo che avete dentro”

Danilo De Marco

«I nomi, si dice, sono costruiti dagli eventi e gli eventi riportano nel loro fangoso alveo di fiumi, ora carsici, ora torrentizi, ora perenni, il materiale e cioè la cultura di cui è fatto il mondo». Queste parole dell’amico poeta udinese Tito Maniacco, riferite a un partigiano friulano, El Cid, ci dicono come spesso i nomi, ma anche i volti delle persone, portino il segno degli ideali, il riflesso delle immagini che hanno alimentato il senso della loro vita e della società che hanno costruito; i nomi e gli sguardi sono la coscienza umana alle epopee.

Tito Maniacco

È questo il messaggio che il “Fotografo dei Partigiani”, Danilo De Marco, ci ha trasmesso nella mostra dal titolo I tuoi occhi per vedermi, e raccolta in un ampio catalogo, introdotto di Arturo Carlo Quintavalle.

Donne e uomini, protagonisti, come Bergher, Augé, Boltanski, Dorfless, Matvejević, della crescita culturale, uomini che hanno combattuto per un mondo democratico e semplici spettatori che la storia sono costretti a subirla.

Ritratti di partigiani italiani e di altri rincorsi in tutta Europa prima che il tempo lasci solo i nomi. Volti di persone rigorosamente in bianco e nero, nei cui sguardi la storia narra se stessa e la ragione del suo continuare. Di molti sono rimasti gli occhi a parlare e a raccontare. Narrano e ci richiamano alla memoria che sono stati solo partigiani; ed è con quel generico nome che rivendicano le scelte compiute. Sono in fila sulla parete, allineati, ultimo “El Cid” (è stato la copertina del Venerdì di Repubblica del 20 aprile 2012), l’uomo dalle rughe infossate dagli anni, con l’abitudinario cappello calcato in fronte, con gli occhi di chi ha visto, di chi ha deciso, di chi ancora sta guardando al futuro, magari chiedendosi se ne è valsa la pena.

Danilo De Marco

Solo l’occhio esperto di un fotografo come De Marco può dialogare con lo sguardo di un altro uomo; solo un artista può narrare quella storia che diventa anche la sua storia.

Già Andrea Liparoto, responsabile Comunicazione e Stampa Anpi nazionale, con il libro Io sono l’ultimo, ne aveva raccolto le memorie e le ultime impressioni. Abbiamo lette le loro parole, accompagnate dalla tristezza, dalla rabbia, dal rimpianto e poche dalla soddisfazione. E ripensarle sarebbe come sentirle uscire dai profondi sguardi che De Marco ha impresso sulla pellicola, convinto, come i vecchi saggi, che ogni uomo è responsabile della propria faccia.

Il fotografo friulano – quasi un antropologo con la macchina fotografica – ci propone, nella lunga sequenza di ritratti raccolti nei paesi del terzo mondo, l’esistenza degli ultimi, degli umili.

La pellicola ha impresso la vita di chi vive solo un immediato presente, quello estraneo ad ogni programmazione e privo di una visione del futuro. Sguardi che provengono dall’America Centrale, dall’Africa, dall’Asia, espressioni che fanno guardare alla realtà con l’incoscienza della loro umile spensieratezza.

Ahame Idiri

E non sono sguardi di persone rassegnate, sono spesso avvolti nell’ampio sorriso innocente della felicità di vivere. Occhi di uomini, donne, bambini, vecchi che, immaginando altrove il loro futuro, forse percorreranno un lungo viaggio per approdare – sebbene indesiderati e ora respinti – in un orizzonte fantastico, dove difficilmente i sogni diventano realtà.

Però De Marco non parla solo con l’obiettivo, riflette, da fine intellettuale, sul suo lavoro, si lascia andare a colte citazioni di filosofi, poeti, scrittori.

Ecuador Rio Verde

E non mi sorprende (come non ha mai sorpreso l’amico Tito) che, per spiegare come toccare la realtà con gli occhi, sia necessario risalire alle origini della fotografia citando il poeta dello Spleen e il vino («Quanta costanza e ostinazione, – scrive De Marco – quanti bicchieri di vino a volte affrontati per sciogliere i primi lunghissimi attimi di imbarazzo reciproco …») anche convinto che la forza di un’immagine dipende dalla capacità di riassumere in sé un contesto molto più vasto: «Baudelaire sapeva che la camera fotografica non poteva essere strumento per un’astrazione della realtà, ma piuttosto un modo per esplorare quella realtà, quel sentire colmo di linee di fuga inattese che permette di agitarne le forme e consegnarle alla durata di un tempo non immobile».

Diego Collovini, docente di Storia dell’arte moderna, Accademia Belle Arti Tiepolo di Udine, già docente di Teoria e Storia del Restauro presso Accademia Belle Arti di Venezia, membro del Comitato nazionale Anpi