Pablo Picasso

Di Guernica – parlo del grande quadro di Picasso – si sono scritti fiumi di parole, proponendo, nel contempo, molteplici interpretazioni, alcune delle quali attinte direttamente dalla fantasia. Però, a guardare il grande dipinto in bianco e nero, lì nella sua stanza dedicata e scortato dalle forze dell’ordine, si avverte immediatamente una indubbia autorevolezza, un tangibile segno della tragicità della guerra. Ci è difficile dunque rimanere estranei e non farsi travolgere dalla sua immensa portata comunicativa. Ed è per questo che storici e critici dell’arte hanno dato vita a letture particolari: dal punto di vista storico (e qui rimando all’interessante intervento di Francesca Gentili, Guernica: l’oceano del dolore e della morte, che, nelle pagine di Patria Indipendente, ne ha espresso il valore storico e sociale) a quello puramente formale, ancorato alle esperienze avanguardistiche del Cubismo; o ancora riflessioni su simbologie alla ricerca di chissà quale espressione inconscia non controllata.

Non solo elogi ma anche denigrazione, fino a ridurre l’opera a semplice prodotto commerciale o testimonianza dei comportamenti impuri del suo autore che, sotto l’influenza del denaro, avrebbe servito i partiti comunisti europei dipingendo per loro un manifesto propagandistico: ghiotta occasione per il “compagno” Picasso per farsi ricco.

Una letteratura sterminata su un’opera che non solo ha accompagnato intere generazioni di sinistra, ma ha anche affiancato, se non sostituito, il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo. Lo troviamo infatti in sedi di partito, nelle stanze dei sindacati, nelle camere di giovani che, con sentimenti romantici, guardano alla sinistra; ancora nelle copertine dei libri, in articoli, in testi storici, ecc.

Il Quarto Stato di Pelizza da Volpedo

Potrebbe dunque essere inutile parlare ancora di quest’opera, se non si guardasse all’uomo o al colto intellettuale, alle sue affermazioni, alle provocazioni fatte aforismi o risposte seccate e affrettate rilasciate a curiosi giornalisti o spettatori assetati più di dichiarazioni che di immagini. Ci sono alcune intriganti affermazioni di Picasso che vengono citate in continuazione come a spiegare perché il pittore dipinge così “male” o perché non ci ripropone una pittura perfetta nella forma e comprensibile nel suo contenuto (come avrebbe voluto il buon Croce).

Le affermazioni alle quali mi riferisco sono:

“A quattro anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino.”

“C’è un solo modo di guardare le cose, fino a quando arriva qualcuno e ci mostra come guardarle con occhi diversi.”

“Bisognerebbe poter mostrare i quadri che sono sotto il quadro.”

“Copiare gli altri è necessario, ma copiare sé stessi è deplorevole.”

Le ho riportate non in ordine cronologico ma per impostare una proposta di lettura di Guernica.

Raffaello Sanzio, particolare de L’incendio di Borgo

Non stupisce che Picasso consideri Raffaello la discriminante (come per altro fece Gombrich per distinguere pittura toscana e veneziana) tra l’arte completa, adulta e razionale e quella infantile immediata ed apparentemente estranea ad un ciclo formativo. Si scopre, in quelle affermazioni, il fascino di una complessità culturale, che l’artista esprime in una dimensione spazio-temporale quasi surreale ma dove è avvertibile la semplicità e la genuinità di una pittura da “bambini”, nella quale l’autorevolezza dei contenuti vive della citazione, se non addirittura della copia, di opere conosciute. Non a caso dunque molte figure e immagini della storia dell’arte si sono consolidate, nel tempo e nella loro ripetitività, come espressione della drammaticità, della tragicità, della distruzione e della disperazione.

Il dolore, la sconfitta, la morte, la pietà, la liberazione, il riscatto, la resurrezione sono contenuti ben presenti in Guernica, accompagnati dalla necessità di esprimere da un lato dei sentimenti personali, dall’altro di renderli collettivi e immediatamente comprensibili. Una via breve e funzionale è guardare alle opere del passato già portatrici degli umani sentimenti. Non è certo nascosto l’interesse dell’artista per la pittura italiana, in particolare quella cristiana vocata alla “distinzione” tra bene e male, come nota è l’attenzione per le debolezze terrene; e la storia dell’arte, per Picasso, è una fonte da cui raccogliere immagini che descrivono le miserie umane e contemporaneamente presenziano il sovrannaturale.

Questi sono i “quadri” che stanno sotto il grande quadro.

La citazione suggeritaci dallo stesso artista è la donna che Raffaello ha dipinta di schiena, implorante, con le braccia al cielo al centro dell’Incendio di Borgo. In Guernica ci è proposta nella stessa posizione, con i piedi nudi in primo piano. Non c’è immagine nella storia dell’arte (e qui il Pordenone ci è di conforto) che meglio rappresenti l’invocazione verso qualcuno che ponga fine alle atrocità terrene. Se la donna raffaelliana volge lo sguardo a papa Leone IV che con la sua benedizione spegne l’incendio, quella picassiana non ha un interlocutore cui rivolgersi, se non un muro sovrastato da lingue di fuoco.

Sul lato sinistro di Guernica un grande cavallo e sotto un uomo disarcionato con le braccia aperte, una delle quali tiene una spada spezzata; non ci ricorda forse la Caduta di Saulo di Caravaggio? ed è da questi che Picasso riprende il senso di impotenza di fronte alla supremazia dei potenti.

Paura e spavento sul volto femminile al centro. C’è lo stesso terrore della donna narrataci da Guido Reni nella sua Strage degli innocenti. La fuga come desiderio di salvezza, come liberazione dalla mano assassina che la trattiene per ucciderle il piccolo tenuto in braccio.

Altra Strage degli innocenti, quella dell’affresco Giotto ad Assisi. Con questa lo spagnolo confronta la disperazione della madre che, con il corpo inerme del figlio sulle ginocchia, lancia al cielo il suo dolore, la sua disperazione, la richiesta di una ragione di tutto ciò.

Picasso disegna una mano sproporzionata; è la mano di una madre che sorregge il corpo abbandonato del figlio. Questa mano ha la stessa posizione di quella di Maria nella Pietà vaticana di Michelangelo.

Altri “quadri” sicuramente ci saranno.

Figure retoriche dell’arte citate per “impegnare” il buon senso degli uomini, di fronte al dolore, alla disperazione, alla pietà, alle angosce, al male e al bene. Tutti sentimenti che, nell’opera di Picasso, si propongono come cominciamento per una risurrezione dell’essere umano, che per anni – almeno fino al riscatto resistenziale europeo – si vedrà sopraffatto dai sistemi autoritari, dal razzismo e dai nazionalismi che hanno alimentato il loro senso di distruzione di angoscia e di morte.

Diego Collovini, docente di Storia dell’arte moderna, Accademia Belle Arti Tiepolo di Udine, già docente di Teoria e Storia del Restauro presso Accademia Belle Arti di Venezia, membro del Comitato nazionale Anpi