Egon Schiele

Ventiquattro giorni. Questo il tempo trascorso da Egon Schiele (1890-1918) in carcere. L’artista è imprigionato con una doppia accusa: aver sedotto e rapito la minorenne Tatjana von Mossig, figlia di un importante dirigente del Ministero della Marina e diffuso, in un luogo accessibile ai bambini, materiale erotico-pornografico. Con l’arresto, le autorità bruciano anche numerosi disegni dell’artista, ritenuti troppo espliciti e immorali. «Ventiquattro giorni sono stato in prigione! – annota Schiele – Ventiquattro giorni o cinquecentosettantasei ore! Un’eternità! L’indagine si è sgonfiata miseramente, ma io ho sofferto come un cane, in modo indicibile. Sono stato terribilmente punito senza condanna. Nel corso del dibattimento uno dei fogli sequestrati, quello che era appeso in camera da letto, è stato solennemente bruciato con la fiamma di una candela dal giudice in toga! Autodafé! Savonarola! Inquisizione! Medioevo! Castrazione, trionfo dell’ipocrisia! Allora andate nei musei e fate a pezzi le massime opere d’arte. Chi rinnega il sesso è un sudicione e infanga nel modo più basso i genitori che l’hanno fatto venire al mondo. Come dovrà vergognarsi di fronte a me, d’ora in poi, chiunque non abbia sofferto come me!».

Wally in camicia rossa

Non è la prima volta che l’artista, uno dei più grandi rappresentanti dell’espressionismo viennese, deve difendersi da una società che lo giudica impunemente per il suo essere al di fuori dagli schemi, libero di indagare aspetti della vita tanto intimi da risultare sconvolgenti. Siamo nel 1912 e la città di Vienna vive una vera rottura fra moralità pubblica e comportamenti privati. Sigmund Freud qualche anno prima aveva pubblicato L’interpretazione dei Sogni (1900) e artisti come Schiele, Gustav Klimt (1862-1918) e Oskar Kokoschka (1886-1980) avevano dato vita all’arte espressionista, testimoniando la loro ribellione nei confronti delle accademie e dello Stato. La nascita della psicanalisi, dunque, coincide con quella dell’espressionismo. Come Freud, anche Schiele, sente il bisogno di indagare la verità: non ritrae la bellezza ma rende visibile la realtà più viscerale della condizione umana. Prima di lui nessun altro pittore aveva dipinto in maniera così audace le pulsioni più intime di donne e uomini. Famosi per l’appunto i suoi dipinti erotici, nei quali manifesta il proprio interesse per i corpi nudi e per la sessualità maschile. Un interesse non semplice da coltivare nella Vienna dell’epoca, dove il rapporto con la sfera sessuale è particolarmente controverso: Freud, svelando il forte potere della sessualità e delle pulsioni represse, aveva aperto un vaso di Pandora in grado di impaurire il perbenismo di una borghesia reazionaria e tradizionalista. Schiele pone al centro della sua ricerca l’uomo e i suoi turbamenti: disegna esseri divorati da ansie e paure, con occhi allucinati, sofferenti, grandi mani ossute e attorcigliate. I suoi corpi esplorano allo stesso tempo la vita, la morte, il desiderio sessuale, ma senza sentimentalismi. I suoi ritratti di giovani donne, prostitute-bambine, hanno lo sguardo disperato; gli uomini dei suoi dipinti sembrano vivere di allucinazioni. Fra i suoi modelli prediletti troviamo la sorella minore Gertrude e Valerie Neuzil, meglio conosciuta come Wally, protagonista del famoso dipinto Donna seduta con un ginocchio piegato (1917).

Donna seduta con un ginocchio piegato

Figlio di un funzionario delle Ferrovie imperiali, il giovane Schiele aveva iniziato a disegnare già all’età di cinque anni. Introverso e sognatore, tratteggiava con precisione vagoni e locomotive. A scuola era distratto, allo studio preferiva fissare sulla carte le immagini della realtà circostante.

Nel 1907 Schiele incontra Klimt, che diventerà per lui una sorta di mentore. L’artista, infatti, adatta la linea sensuale di Klimt al suo modo di disegnare nervoso e angolare. In lui, però, non c’è nessuna decorazione, ma unicamente figure realizzare sui toni del rosso sanguigno, del bruno, del nero e del giallo pallido. Non c’è vitalità. Non c’è gioia. Ma indagine. Schiele è vittima della Vienna della Secessione: «Mai – precisa lo scrittore Hermann Bahr – vi fu epoca più sconvolta dalla disperazione, dall’orrore della morte. Mai più sepolcrale silenzio ha regnato sul mondo. Mai l’uomo è stato più piccolo. Mai è stato più inquieto. Mai la gioia è stata più assente e la libertà più morta. Ed ecco urlare la disperazione: l’uomo chiede urlando la sua anima, un solo grido d’angoscia sale dal nostro tempo. Anche l’arte urla nelle tenebre, chiama al soccorso, invoca lo spirito: è l’espressionismo».

I personaggi di Schiele fissano imperturbabili lo spettatore, si espongono senza provocare, mostrano il proprio essere. Nell’Autoritratto nudo in grigio con bocca aperta (1910), ad esempio, il pittore si ritrae come un cristo sulla croce, con le braccia aperte, ma amputate, occhi cerchiati e una nudità scheletrica per niente vigorosa. Qui vitalità e mortalità si incontrano, lasciando nello spettatore un grande senso di vuoto e di tristezza. In generale, le figure dipinte da Schiele sono espressione di forze interiori sconosciute e incontrollabili, costrette in pose innaturali a vivere in uno spazio vuoto. Inoltre, «la messa in posa in Schiele – spiega Achille Bonito Oliva – è la conseguenza di un’enfasi visiva che utilizza un’inquadratura che sembra preconizzare il cinema, quanto ad artificio ed innaturalezza: inquadratura dall’alto, scorcio dal basso o di lato, primo piano, di tre quarti».

Autoritratto nudo in grigio con bocca aperta

L’artista è dunque promotore di un nuovo modo di fare arte, con inquadrature inediti di nudi espliciti. Schiele, consapevole del proprio essere, scrive al dottor Oskar Reichel: “Prima o poi nascerà una fede nei miei quadri, nei miei scritti, nei concetti che esprimo con parsimonia, ma nella forma più pregnante. Hanno torto quanti pensano che dipingere sia meglio di niente. Dipingere è una capacità. Io penso all’accostamento dei colori più caldi, che sfumano, che si liquefanno, rifrangono, stanno in rilievo, carica terra di Siena grumosa con verdi o grigi, e accanto una stella di un azzurro freddo, bianca, biancoazzurra. Sono diventato esperto e ho fatto i calcoli rapidamente, ho osservato ogni cifra e ho cercato di desumere. Il pittore può anche guardare. Ma vedere è qualcosa di più. Stabilire un contatto con un’immagine che ci riguarda, è molto”. E così è stato. Nel 1917 una sua mostra alla Secessione ottiene un grande successo: Schiele diventa così protagonista indiscusso dell’avanguardia artistica viennese. Il successo dura poco. Muore l’anno seguente, il 31 ottobre 1918, affetto dall’epidemia di febbre spagnola.

Tuttavia, nonostante la sua precoce scomparsa a soli ventotto anni, Schiele è stato una figura chiave dell’arte del Novecento. È stato colui che ha reinventato la rappresentazione del nudo, mettendo paura a conservatori, dittatori e reazionari. Trent’anni dopo la sua morte, i nazisti ne condannano l’arte, come pure quella di altri artisti d’avanguardia, bollandola come “degenerata”.

L’abbraccio

E neppure un anno fa, nella Londra del sindaco Sadiq Khan, i cartelloni che annunciano le celebrazioni per il centenario della morte dell’artista vengono censurate perché le «immagini, anche se hanno cento anni, risultano comunque troppo azzardate». L’erotismo di Schiele provoca come un tempo ancora scandalo.

Noi, svincolati da pregiudizi morali, non possiamo far altro che apprezzare la forza della sua pittura. Una pittura libera di indagare la vita e la morte e di oltrepassare, senza paure, i limiti imposti dalla società, raggiungendo, non senza tormenti, l’eternità. Ed «eterno – afferma l’artista – è Dio, che l’uomo lo chiami Buddha, Zarathustra, Osiride, Zeus o Cristo, ed eterno come lui è ciò che vi è di più divino dopo Dio: l’Arte. L’Arte non può essere moderna, l’Arte appartiene all’eternità».

Francesca Gentili, critica d’arte