bella-ciao-WEBDi Carlo Pestelli chi scrive ha un ricordo personale legato alla presentazione di un documentario su Cantacronache (del quale è co-autrice) al museo Diffuso della Resistenza di Torino, nel febbraio 2012.

 

Al termine della proiezione, tra una domanda e l’altra, tra un intervento di Emilio Jona e uno di Fausto Amodei c’era proprio Carlo Pestelli che, imbracciata la chitarra, interpretava Canzone di viaggio di Emilio Jona e Sergio Liberovici. E poi, suonando e cantando, accompagnava Amodei nel suo brano Il fazzoletto rosso.

Le canzoni eseguite, naturalmente, erano quelle di Cantacronache al cui repertorio è legatissimo tanto da meritarsi un’incoronazione a erede ufficiale. Di una canzone che per prima, tra il 1958 e il 1962, raccontava la realtà, i fatti di cronaca politica e sociale, che disegnavano il profilo di un’Italia non solo scintillante per gli effetti del boom economico, ma sofferente, se vista dalla parte di chi, quel miracolo, lo stava subendo: disoccupati, lavoratori che morivano nelle zolfare, donne che iniziavano a essere impiegate nelle fabbriche e negli uffici, amori invivibili a causa dei turni e degli orari di lavoro. Canzoni, poi, sulla Resistenza, le prime, scritte a celebrazione, a ricordo di ciò che era stata, del sacrificio di tanti giovani.

Torinese come Cantacronache, Pestelli riconosce, infatti, lo stile di Fausto Amodei e poi, come si legge dalla sua biografia, [http://www.carlopestelli.com/vita.shtml] quello di Giorgio Gaber, come i pilastri su cui costruisce la sua scrittura musicale, di cantautore che fa proprio il linguaggio sarcastico dell’uno e lo sguardo critico dell’altro.

Tutto questo per dire quanto Carlo Pestelli sia ben addentro alla musica folk e popolare e quanto sia autorevole la sua rilettura della storia di Bella ciao, impreziosita da una bella prefazione di Moni Ovadia (Bella ciao. La canzone della libertà, add editore, Torino). C’è il rigore della ricerca, dell’analisi testuale, musicale, etnomusicologica e storica (Carlo Pestelli è dottore di ricerca in Storia della lingua), ma c’è anche la tensione di una scrittura piena di colpi di scena e di attese che trasforma il saggio nel plot di un romanzo avvincente che ha come protagonista la canzone. Attraverso l’attenta ricostruzione e la narrazione degli episodi salienti della vita di Bella ciao, essa emerge al pari di un personaggio mitologico, come una donna di rara bellezza, indomita e impetuosa, che tutti, in un modo o nell’altro, vogliono fare propria, giurare di avere incontrato, averle dato i natali e chissà cos’altro ancora.

C’è la storia di Giovanna Daffini che dice di averla conosciuta negli anni Trenta, nella versione mondina, e di averla poi cantata così, come l’aveva sentita. È Bella ciao, allora, una canzone dell’epoca fascista, nata nel contesto della risaia come canzone paladina delle rivendicazioni salariali e della lotta di classe, nonché dell’emancipazione femminile? No, si saprà poi. Di quel testo si dichiarerà autore Vasco Scansani, ex partigiano compaesano della Daffini, che l’aveva scritta nel 1951 in occasione di una festa per le donne del riso. È forse, invece, Bella ciao una canzone partigiana? Di certo, conferma l’autore, questa canzone “approda al mondo resistenziale italiano prima del 1945”. Ci sono le testimonianze di alcuni partigiani della 77ª Brigata Sap che l’hanno ascoltata in alcune zone dell’Emilia. Ci sono quelle dell’8ªArmata britannica che l’hanno sentita cantare dai patrioti della Brigata Maiella. Altri testimoni addirittura ricordano di averla udita provenire, ancor prima, dalla trincea carsica, negli anni della Prima guerra mondiale. E poi c’è il carabiniere Rinaldo Salvadori che racconta di essere lui l’autore di Bella ciao. Insomma, bugie e verità si susseguono, e tutte aggiungono una sfaccettatura diversa al carattere giramondo di Bella ciao.

Ma Pestelli, che è scrupoloso, si avvale di una delle fonti più accreditate della ricerca folcloristica italiana, per trovare la certezza di un passato lontano e francese di Bella ciao, poi meticciato con i suoni della terra piemontese. Costantino Nigra, grande uomo politico, a servizio dal 1851 al Ministero degli Esteri, nominato segretario del primo ministro Massimo D’Azeglio e in seguito di Camillo Cavour, fu anche poeta e filologo, dedito agli studi sui canti popolari del Piemonte. È lui a riconoscere un precedente, la canzone Bevanda sonnifera, antica canzone popolare diffusa nel nord Italia, una storia fiabesca che ha come ingredienti una fanciulla, una fontana, un cavaliere, una pozione magica che fa addormentare. Da questa fiaba piemontese della metà Ottocento, deriva anche l’usanza del battito di mani al ritornello, come si fa con la filastrocche dei bambini. È sempre Nigra, poi, a ricostruire il legame tra Complainte de la dame a la tour et du prisonnier, la versione normanna di un canto francese di metà Cinquecento con la versione piemontese più prossima, ovvero il canto Fior di tomba. Un legame che nasce dalla somiglianza di melodia e musiche, un meticciamento in cui, come dice l’autore, tradizione e contaminazione si sono “scontrate in un duello senza pari”.

Perché questa canzone girovaga è “meticcia e meticciabile”. Bellissima definizione che fa di Bella ciao un luogo d’incontro di tante culture e linguaggi che nel tempo si sono evoluti, modificati, in conseguenza delle contaminazioni avvenute tra di loro, a seguito di contatti e incroci. Nell’ibridarsi hanno generato una nuova configurazione che è il frutto della curiosità, del desiderio di esplorazione, della capacità di sperimentare e di innovare della gente, di chi, in un passato lontanissimo e poi fino agli anni della nostra Resistenza, ha continuato a rimaneggiarla, a creolizzarla, a meticciarla, appunto. Che potenza, la natura transculturale di certe canzoni, come questa che si fa dialogo tra mondi, sconfinamento, oasi d’incontro!

Da una parte c’è il testo, la lingua, e dall’altra la musica. Quale sia nata per prima è una delle questioni che la ricerca affronta. E poi, perché tutta questa notorietà? Nell’ultima parte del libro, infatti, la lettura si accende per la curiosità di conoscere le versioni più suggestive che sono state cantate in ogni parte del mondo, tradotte a volte anche in lingue ignote.

La fama quindi? Bella ciao, dice Pestelli, “è un affresco che, nella sua brevità, contiene gli espedienti retorici del racconto, tra i quali il finale eroico proprio di chi muore per la libertà” e l’inizio con quel verso che è inevitabilmente l’incipit di una sequenza narrativa, come si direbbe in narratologia. Nelle vene di Bella ciao scorre, dunque, il sangue di trovatori medievali, cantori di rime e romanze nelle corti e nelle piazze del nord Italia, come in Provenza o in Catalogna. Un’infinità di canti, mette in luce Pestelli, che circolavano in Europa da sempre, raccontando temi tragici, epici e mitici: l’amore non corrisposto, il tradimento, la prigionia, la magia, la morte a cui si sopravvive nel ricordo di un fiore piantato sulla tomba, ma soprattutto la libertà. Questo, forse, il motivo di una tale, enorme diffusione, e di uno stesso comune sentire. Quello che fa dire: Bella ciao, in fondo, è di tutti. Perché ciò che esprime, a piena voce, è un sentimento universale: “Chi le dà voce – scrive Moni Ovadia nella prefazione – afferma di essere libero in una comunità di liberi”. E poi ci sono quelle due parole, “bella” e “ciao”, tra le più frequenti nella lingua italiana, vocaboli arcinazionali, “chiari casi di passpartout linguistico”, parole che tutto il mondo comprende e che sente come anche proprie.

Pestelli, dunque, riesce a tracciare un ritratto affascinante e suggestivo di Bella ciao, e lo fa con uno studio che considera le fonti più varie, testi, resoconti, testimonianze, incontri, per arrivare a tutta la verità possibile. Ma è lui stesso a ricordare che “la formazione, la trasformazione, la diffusione (a volte anche la corruzione delle fonti) di un canto sociale possono spesso portarci più che al vero, al verosimile. E in alcuni casi anche il verosimile è un ottimo risultato”.

Non esiste, dunque, una verità assoluta, ma questa ricerca ci ricorda come il senso spesso stia nel viaggio, nel percorso, più che nel punto di arrivo. E quanto sia incredibile, attraverso una canzone, poter aprire tante porte, spiragli da cui intravedere un paesaggio, una suggestione: il sogno di un luogo all’aperto, in primavera, dopo l’attraversamento di un bosco, in cui risuonano ancora gli echi della guerra; il ricordo di un Festival di Spoleto del 1964 e la sua riedizione a distanza di cinquant’anni; l’emozione di una esecuzione, quella della cantautrice Lucilla Galeazzi, con quell’aumento progressivo di tonalità, a salire insieme al climax emotivo del testo, così intenso da far sussultare. E se tante versioni erano già state proposte qui [http://www.patriaindipendente.it/idee/copertine/la-bella-emozione-di-una-canzone-mito/], questa, mondina e partigiana, rievocata da Pestelli, davvero mancava.