1986-7 Dignita-uomo_cop_14-21Luigi Pintor era un pianista di grande talento. Se circostanze a dir poco eccezionali non avessero mutato il corso della sua vita, costringendolo a una precocissima maturità, sarebbe forse diventato un musicista di fama, e giornalismo e militanza politica sarebbero rimasti sullo sfondo della sua esperienza esistenziale, o, addirittura, non sarebbero mai neanche apparsi.

“Senza la guerra – gli scriveva il fratello Giaime nella lettera che Ferruccio Parri definì «il documento forse più bello e più alto di questa guerra» – io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari”; ma la guerra aveva cambiato ogni cosa: “A un certo momento gli intellettuali debbono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in un’organizzazione di combattimento”. Giaime aveva ventiquattro anni quando morì, tre giorni dopo avere scritto la lettera, il 28 novembre 1943, ucciso da una mina tedesca mentre da Napoli cercava di attraversare le linee per unirsi alla Resistenza a Roma. Le parole che per il giovane e raffinato germanista divennero l’epitaffio per una fine assunta come possibile esito di una scelta difficile quanto ineludibile, per il diciottenne Luigi furono una profezia, destinata ad avverarsi con la partecipazione alla Resistenza nelle file dei GAP romani, con la cattura, la reclusione, le torture e la condanna a morte, scampata solo grazie all’arrivo degli Alleati. A molti anni di distanza, nel 1991, Pintor ricordava i suoi trascorsi resistenziali con la consueta riservatezza, non senza stigmatizzare lo sbracato revisionismo che annunciava la prossima affermazione politica della destra con i primi tentativi di delegittimare la guerra di liberazione e con essa la Costituzione repubblicana: “La Resistenza, – afferma in un’intervista a Nello Ajello – quel momento che vivemmo con naturalezza, con semplicità con fervore. Ora i posteri ne parlano spesso come di un lavoro di macelleria. Ciò mi comunica un odio violento non per la storia, che sarebbe insensato, ma per la storiografia. Che la memoria venga falsificata è forse fatale. Fatale ma non innocuo”. 

Alfredo Reichlin
Alfredo Reichlin

Il dopoguerra consegna Luigi, e con lui Alfredo Reichlin, l’amico incontrato sui banchi del liceo Tasso di Roma, alla militanza politica attiva nel Pci e all’apprendistato giornalistico all’Unità, dove si fa presto notare per lo stile di scrittura nitido, asciutto e tagliente, di cui fu maestro e in virtù del quale, molti anni dopo, durante un’intervista televisiva, Enrico Berlinguer, lo definì senza esitazioni il miglior giornalista del momento.

La vicenda umana e politica di Luigi Pintor viene riproposta in una recente pubblicazione, curata con passione e competenza da Jacopo Onnis, autore di una bella prefazione che introduce i numerosi contributi che compongono il volume. Contributi di diverso taglio e tono: alcuni, squisitamente intimi e personali, riprendono le travagliate vicende umane, dalla malattia della prima moglie Marina, alla scomparsa, nell’arco di due anni, di entrambi i figli, Roberta e Giaime jr., e ripercorrono la fisionomia di una personalità complessa, nella quale la riservatezza e il pudore dei sentimenti, quali traspaiono nella scrittura ellittica e allusiva dei saggi autobiografici (Servabo, La signora Kirchgessner, Il nespolo, I luoghi del delitto), si accompagnavano ad un’appassionata fiducia nel valore della persona e, insieme, nella forza dei movimenti di emancipazione nei quali la dimensione individuale e quella collettiva sono indissolubilmente legati in una dinamica complessa e non esente da rischi, tutti lucidamente avvertiti negli scritti di un giornalista che non fu mai apologeta, ma semmai critico sferzante della propria parte politica.

Giaime Pintor, fratello di Luigi
Giaime Pintor, fratello di Luigi

Altri contributi appaiono più rivolti alla ricostruzione delle vicende politiche di cui Pintor fu protagonista: vicende collegate alla diaspora del gruppo ingraiano, sconfitto all’XI Congresso del PCI, e i cui componenti di maggior spicco furono destinatari di misure più o meno esplicitamente sanzionatorie. A Luigi toccò l’incarico di responsabile dell’agricoltura nella natia Sardegna, motivato, alquanto pretestuosamente, con il fine di rendere “meno astratta” la sua formazione, a contatto con una realtà sociale complessa come quella isolana, che Pintor rincontrava a metà degli anni ’60, dopo gli anni dell’infanzia trascorsi a Cagliari.

Lo stesso Ingrao, insieme a Luciana Castellina, Rossana Rossanda e Valentino Parlato ricostruiscono, con le loro testimonianze, la storia del Manifesto, l’origine del collettivo che ne promosse nel 1969 la pubblicazione come mensile dissidente, il maturare di un conflitto che condusse il gruppo dei fondatori alla radiazione dal Pci, producendo lacerazioni e contrasti nella stessa compagine della sinistra comunista, proprio nel momento in cui le lotte operaie e studentesche del nuovo biennio rosso 1968-69 sollecitavano un ripensamento globale delle strategie perseguite nel primo ventennio della storia repubblicana.

pintor_luigi-manifestoLa radiazione dal Pci costrinse il gruppo riunito attorno al mensile ad un nuovo inizio, nel quale agli entusiasmi della stagione del ’68 succedettero ben presto le delusioni e le difficoltà prodotte dallo svolgimento di un processo politico ben più complesso e contraddittorio di quello descritto o semplicemente auspicato nei documenti della nuova sinistra; in questo contesto, il Manifesto – dal 1971 quotidiano, fortemente voluto e diretto nei primi anni di vita dallo stesso Luigi – continuò a proporsi come punto di riferimento di un progetto che le trasformazioni degli scenari politici e i mutamenti interni alla sinistra spingevano sempre più nel recinto dell’elitarismo utopistico.

Non esente dalle tentazioni del minoritarismo, Pintor non fu mai un utopista: come ricordano molti dei saggi presenti nel volume, nella prosa essenziale dei suoi editoriali (“c’è sempre – diceva – una riga su tre di troppo … due cartelle bastano ad esaurire qualsiasi argomento”) l’attenzione si concentrava sui processi reali di trasformazione della politica, della società e del costume, impermeabile ad ogni infingimento consolatorio o apologetico, e costantemente critica nei confronti di luoghi comuni e delle leggende metropolitane accreditate da una stampa spesso troppo accomodante con il potere e incline ad un conformismo di maniera. Nelle sue analisi non risparmiò la denuncia del settarismo e della debolezza culturale della nuova sinistra e, successivamente, della propensione al compromesso di una sinistra sempre più incline, dopo le tempestose rotture degli anni ’90, a subire l’egemonia ideologica e il condizionamento politico del berlusconismo trionfante, come scriveva nell’ultimo editoriale apparso sul Manifesto il 24 aprile 2003 (Senza confini), in una requisitoria secca, ma non priva di speranza.

Non sembra casuale, parlando di valori e collocazione ideale della sinistra, il richiamo, indicato sia nell’introduzione di Onnis sia in alcuni dei saggi, al legame continuo e mai incrinato dalle contingenze della lotta politica, che univa Luigi Pintor a Enrico Berlinguer, soprattutto al Berlinguer dell’alternativa democratica e della questione morale; non solo per la sardità e per la riservatezza che li accomunava in un fastidio malcelato per le ritualità e le retoriche della vita pubblica, ma soprattutto per la condivisa idea che la buona politica fosse fatta di “pensieri lunghi”, di una progettualità fondata su una spregiudicata capacità di analisi delle linee di forza del mutamento sociale e politico, da utilizzare anche come antidoto ad ogni forma di conservatorismo e di conformismo, e alimentata da un’etica della responsabilità di cui oramai si sta smarrendo anche il ricordo.

Nell’impoverimento morale e culturale che attanaglia la vita pubblica di questi anni, personalità come quelle di Luigi Pintor possono apparire sideralmente distanti dal presente; ma chi voglia scorrere i saggi a lui dedicati, e i documenti che li accompagnano, non potrà non convenire che essi narrano di un modo di vivere e praticare la politica del quale si avverte sempre più acutamente la mancanza e il bisogno.