cover libro LabancaOttanta anni or sono, il 9 maggio 1936, Benito Mussolini, parlando alla folla riunita in piazza Venezia, annunciava la sconfitta dell’Etiopia dopo una campagna militare durata otto mesi, e la fondazione dell’effimero impero fascista, destinato a crollare appena cinque anni più tardi. La ricorrenza è passata pressoché inosservata, in parte per la concomitanza con altre scadenze (il centenario della prima guerra mondiale e il settantesimo della Liberazione), in altra parte per la persistente inclinazione a nascondere sotto la coltre dell’oblio, gli eventi più imbarazzanti e meno edificanti della nostra storia nazionale.

Eppure, la guerra d’Etiopia fu un evento di eco mondiale, che per un biennio almeno collocò l’Italia fascista al centro di discussioni e di tensioni che coinvolsero l’intera comunità internazionale, consentendo al regime mussoliniano di agire, ben al di là della sua forza effettiva, da grande potenza, ricercata come alleato e temuta come nemico.

Gli appetiti italiani sull’Etiopia, frutto di un miscuglio di ambizioni coloniali frustrate, nazionalismo esasperato, sottigliezze diplomatiche e ambizioni sproporzionate, diedero vita ad una guerra per molti aspetti unica e anacronistica: ultima guerra dichiaratamente coloniale della storia (e come tale condannata non solo dalle correnti antifasciste occidentali, ma anche dai movimenti di liberazione nazionale già attivi negli altri imperi extraeuropei); prima ed ultima guerra vittoriosa per il regime fascista, ma anche guerra moderna, condotta con grande dispendio di mezzi (enormemente incrementati rispetto ai primi piani di espansione coloniale elaborati nel 1932 dall’ex quadrumviro Emilio De Bono, all’epoca ministro delle colonie), compreso l’uso dei gas; ed infine evento chiave nella definizione degli schieramenti destinati a scontrarsi di lì a pochi anni.

La tavola della Domenica del Corriere del 1° marzo 1936 (da http://digilander.libero.it/wrnzla/immagini18/ras_mulugheta_defeat.jpg)
La tavola della Domenica del Corriere del 1° marzo 1936 (da http://digilander.libero.it/wrnzla/immagini18/ras_mulugheta_defeat.jpg)

La vicenda dell’aggressione italiana all’Etiopia è ora ricostruita da Nicola Labanca in un libro denso e scorrevole, che ripercorre la storia degli otto mesi di guerra e della sua preparazione, caratterizzata, quest’ultima, dall’avventurismo di Mussolini e dall’acquiescenza di Francia e Gran Bretagna, intenzionate a non contrastare fino in fondo il dittatore, e disponibili a sacrificare l’Etiopia pur di contrastare l’avvicinamento del dittatore italiano alla Germania nazista, salvo poi la tardiva condanna con la deliberazione, a guerra già iniziata, delle sanzioni economiche da parte della Società delle Nazioni, sanzioni che, com’è noto, crearono ben poche difficoltà reali al regime ma furono abilmente sfruttate dalla propaganda per rinfocolare nel Paese il clima di esasperato sciovinismo nel quale era maturata l’impresa africana.

Oltre a mettere in luce i caratteri che fanno dell’aggressione all’Etiopia un evento “globale” di rilevanza internazionale, proprio per il fatto di costituire un passaggio essenziale nella preparazione del conflitto mondiale e della definizione delle alleanze (è questo il tornante nel quale, tra l’altro il fascismo paga un prezzo economico e politico assai gravoso all’assenso tedesco, ponendo le basi della sua futura subordinazione al più potente alleato), il volume di Labanca sottolinea efficacemente il peso che la guerra coloniale assunse nella politica interna del regime. Per il fascismo, e segnatamente per Mussolini, la costruzione dell’impero avrebbe dovuto rappresentare un vero e proprio salto di qualità nell’opera ormai decennale di pedagogia politica – rivolta principalmente, ma non soltanto, alle giovani generazioni – finalizzata alla creazione di una cultura e di un senso comune coerenti con gli obiettivi espansionistici ed aggressivi del regime, alla liquidazione, anche sul piano psicologico, di qualsiasi retaggio del vecchio sistema liberal democratico, e alla creazione di un nuovo tipo di italiano, la cui fisionomia ideologica avrebbe dovuto assumere la mentalità imperiale quale proprio elemento costitutivo ed espressione della consapevolezza del ruolo di dominio assunto dall’Italia fascista, chiamata a rinnovare i fasti egemonici dell’antica Roma.

Ma mentre gli obiettivi di conquista esterna furono almeno in parte conseguiti, grazie anche, come si è detto, ad un impiego di forze militari e di risorse finanziarie particolarmente imponente e prolungatosi anche dopo la fine della guerra, la mentalità imperiale stentò a prendere piede nella società italiana, e soprattutto a tradursi in comportamenti conseguenti, così che, ad esempio, pochissimi furono coloro che manifestarono l’intento di trasferirsi nella nuova colonia, malgrado l’impegno propagandistico e materiale profuso dal regime in tal senso.

Un manifesto di propaganda del tempo (https://anticafrontierabb.files.wordpress.com/2012/10/propaganda-fascista.jpg)
Un manifesto di propaganda del tempo (https://anticafrontierabb.files.wordpress.com/2012/10/propaganda-fascista.jpg)

Si tratta di una questione storiografica di grande rilevanza, poiché riguarda il tema dell’effettiva dimensione dell’adesione degli italiani al regime e, nello specifico, chiama in causa il noto giudizio di Renzo De Felice che, nella sua monumentale biografia mussoliniana, colse proprio nel momento della guerra d’Africa il punto più elevato del consenso popolare al fascismo. Labanca, rifacendosi, oltre che ai fondamentali lavori di Angelo Del Boca, anche a studi più recenti, come quelli di Petra Terhoeven, Simona Colarizi e di Paul Corner, assume questa valutazione in senso critico e ne propone una lettura maggiormente articolata, sostenendo esplicitamente che «la questione del “consenso” così come era stata semplicisticamente posta alcuni decenni fa è ormai superata». In sostanza, è innegabile che, nel periodo della guerra e nella fase immediatamente precedente, la propaganda del regime fece breccia nella pubblica opinione, e l’esito positivo della guerra, facendo balenare un futuro di prosperità e potenza, rese meno tiepido il consenso già esistente e conquistò nuove adesioni al regime, e anche qualche temporaneo assenso tra gli oppositori appartenenti alle correnti moderate e conservatrici (con nomi del calibro di Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, che si pronunciarono contro le sanzioni economiche); tuttavia, questo successo fu relativo e di breve periodo, e non si tradusse in uno spostamento stabile di settori significativi della società italiana in senso favorevole al regime, anche perché la conquista non produsse risultati visibili nel breve periodo (anzi, si tradusse in uno sperpero notevole di ricchezza) e soprattutto non rimosse i fattori di disagio economico e sociale che gravavano ormai da molti anni sugli strati inferiori della popolazione.

Se dunque vi è un opportuno ridimensionamento dell’assolutezza del giudizio defeliciano, non per questo viene sottovalutato l’effetto di temporaneo consolidamento del favore popolare nei confronti del regime, destinato però, come detto, a logorarsi ben presto di fronte alla constatazione della precarietà della conquista stessa, e ad essere cancellato dalla memoria collettiva con sorprendente rapidità all’indomani del 1945, quando, sottolinea l’autore, l’esaltazione nazionalista del 1935-’36 fu oggetto di una rimozione intensa quanto rapida. Così com’è stato dimenticato (quando non volutamente occultato) il carattere razzista e segregazionista impresso dal regime all’ordinamento dell’Africa orientale italiana: la lettura delle disposizioni dettate dopo la conquista mostra oltre ogni ragionevole dubbio come, a dispetto della vulgata sul tratto paternalistico del colonialismo italiano, il razzismo non sia stata una merce d’importazione tedesca, ma un tratto autoctono del fascismo italiano, attivo prima ancora della promulgazione dei Provvedimenti per la difesa della razza italiana del 1938.

In una foto d’epoca, la chiesa e il convento di Debra Libanos, dove furono massacrati i religiosi etiopi (da http://www.neldeliriononeromaisola.it/2016/02/191311/)
In una foto d’epoca, la chiesa e il convento di Debra Libanos, dove furono massacrati i religiosi etiopi (da http://www.neldeliriononeromaisola.it/2016/02/191311/)

La guerra d’Etiopia non si esaurisce nell’arco dei pochi mesi della campagna militare di conquista, che peraltro sono puntualmente trattati  nei capitoli centrali del volume, ma si protrae per tutto il periodo compreso tra il 1935 e il 1941; prima ancora della definitiva sconfitta da parte delle truppe del Commonwealth, l’occupante italiano fu costretto a misurarsi con la tenace resistenza nazionale etiope, attuando ritorsioni assai pesanti (come la strage dell’élite religiosa etiope nel convento di Debra Libanos, tardiva rappresaglia per l’attentato al viceré Graziani) condotte con la stessa brutalità con cui era stata attuata la conquista: una brutalità che manda in frantumi il mito, perpetrato ben oltre il fascismo, della mitezza paternalistica della dominazione coloniale italiana.

Peraltro, il silenzio su quella violenza fu assecondato anche a livello internazionale: la richiesta, avanzata dal governo etiope, di processare Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio come criminali di guerra, non ebbe seguito, anche per l’opposizione del governo britannico, consapevole del fatto che l’accoglimento della richiesta di Addis Abeba avrebbe aperto la strada ad altre analoghe richieste da parte dei movimenti di liberazione nazionale attivi nelle colonie inglesi e francesi.

Manifesto del “Nucleo Propaganda”, 1944, Biblioteca Civica di Biella, da L'offesa della Razza, p. 91 (da http://storicamente.org/index)
Manifesto del “Nucleo Propaganda”, 1944, Biblioteca Civica di Biella, da L’offesa della Razza, p. 91 (da http://storicamente.org/index)

Questo tema rinvia ad un’ulteriore questione opportunamente sollevata dal lavoro di Nicola Labanca, ovvero la necessità di considerare la complessità e la pluralità delle memorie stratificatesi sul conflitto italo-etiope e sui suoi successivi svolgimenti. Infatti, malgrado le rimozioni e l’oblio, soprattutto di parte italiana, molte e diverse narrazioni si sono andate svolgendo attorno a tale vicenda: di particolare interesse, a questo proposito, è il riferimento all’attiva campagna antifascista e filo etiope intrapresa negli anni 30 da Sylvia Pankhurst, già dirigente del movimento per il suffragio femminile in Gran Bretagna, e proseguita sul piano della promozione della ricerca storica dal figlio Richard. Ancora più rilevanti, sono i richiami agli sviluppi della ricerca sulla storia della colonizzazione e della resistenza anti italiana da parte etiope, sviluppi condizionati anche dalle vicende politiche dell’Etiopia stessa, dalla caduta di Hailé Selassié ad oggi, ma certo non assecondati dal dialogo con gli storici italiani, tuttora carente se, come ricorda l’autore, il primo convegno storico sull’Africa orientale italiana che ha visto la collaborazione con studiosi etiopi e di altri Paesi si è svolto nel 2006, non per iniziativa del Ministero degli affari esteri o di qualche università, bensì dell’Istituto per la storia del Movimento di liberazione in Italia. Per non parlare della lentezza e delle lungaggini burocratiche con cui si è provveduto ad un atto di riparazione di grande rilevanza politica e morale quale la restituzione dell’obelisco di Axum, trattenuto dall’Italia fino all’inizio del nuovo secolo, malgrado gli impegni assunti con il governo etiope.

L’Italia, oggi Paese d’immigrazione, crocevia di grandi flussi di popolazione, frontiera avanzata di un’Europa sempre più incline a innalzare i muri dell’intolleranza xenofoba, ha un forte bisogno di ripensare al suo passato coloniale, senza autoflagellazioni ma senza indulgere in antistoriche autoassoluzioni, perché il ripensamento critico di quello che è stato il rapporto con altre realtà, altri popoli ed altre culture può offrire ancora oggi preziosi insegnamenti per comprendere ed orientarsi in un presente nel quale le tentazioni del neocolonialismo, con tutte le implicazioni razziste e scioviniste, non sembrano affatto sopite.