Il morto nel bunker. Indagine su mio padre di Martin Pollack – da poco ripubblicato da Keller editore – è un libro prezioso. Un regalo che sgorga potente dalla scrittura del giornalista e scrittore austriaco: parla dei drammi del Novecento, delle sirene nefaste del nazionalsocialismo, della rigida pianificazione del genocidio contro i diversi, della normalizzazione dell’orrore, della “memoria storica che, in determinate circostanze, può essere sorprendentemente corta”, ed è anche un doloroso percorso nella storia personale dell’autore.

Pollack – in questo lavoro di inchiesta giornalistica che mischia reportage, ricerca storica e memorialistica – si trova di fronte il cadavere di suo padre, quell’uomo nel bunker del titolo, ufficiale delle SS in fuga perché criminale di guerra. “Il 18 gennaio 1932 lo studente Gerard Bast – questo il nome del padre biologico dello scrittore – entrò nelle SS di Graz”, scrive Pollack. “Heinrich Himmler voleva fare delle SS l’élite razziale e politica del futuro Stato, una nuova nobiltà, una comunità di uomini dal sangue puramente ariano legati da un giuramento, con rituali pseudogermanici, insegne e un’uniforme nera con un teschio sul berretto e la doppia runa della vittoria sul risvolto del colletto, un sinistro ordine di superuomini”, mentre la madre dello scrittore l’anno prima aveva sposato l’impiegato di banca e pittore Hans Pollack: “di cui porto il nome; le famiglie non erano amiche, tuttavia si conoscevano”. Ora, che grande sforzo abbia fatto l’intellettuale e scrittore austriaco, negli anni della maturità, nel restituire e indagare, con una scrittura cristallina e mai banale non solo i fatti e i documenti storici – con le ricerche negli archivi, le interviste a qualche testimone, il confrontare le date sulle poche foto sbiadite di quel padre mai conosciuto eppure sempre nell’ombra nei discorsi dei nonni, mai di sua madre – si può solo intuire ma merita ammirazione. Inoltre Il morto nel bunker è anche grande romanzo europeo e si dovrebbe leggere per capire come e dove è nato l’orrore che ha significato morte e distruzione di un intero continente e i cui rimasugli nostalgici stanno riprendendo vigore proprio in questo periodo di sovranismi, di millantati amori per la patria e di falsi storici condivisi sui social.

“Quando entrò nel partito, il mio padre biologico non aveva ancora ventun anni, il nonno invece ne aveva cinquantuno. Dopo la Prima guerra mondiale il nonno aveva votato per la Großdeutsche Volkspartei, il partito nazionale pangermanico nato dall’unione di diversi partiti tedesco-nazionali, antisemiti – si legge –. Che cosa aveva spinto l’avvocato Rudolf Bast (il nonno dello scrittore, ndr), con una buona posizione, ad abbandonare i sicuri binari della borghesia per associarsi ai nazisti, facinorosi fanatici, che peraltro guadagnavano sempre più influenza?”.

Pollack non lo ha mai chiesto a suo nonno, nemmeno a sua nonna, perché tra loro c’era come un tacito accordo: non si ponevano domande personali. Nell’estate 2003, da adulto, Pollack, in viaggio con sua moglie, arriva in Sudtirolo per cercare il bunker nel quale 56 anni prima suo padre era stato trovato morto. Sul versante italiano ci sono oltre cinquanta bunker e casematte, fatti costruire da Mussolini tra il 1936 e il 1942 come sbarramento sul Brennero contro Austria e Germania, che però non vennero mai impiegati a scopo militare. Così inizia il suo viaggio personale per ricostruire la storia di quel corpo senza vita trovato nel bunker che a Colle Isarco tutti conoscevano. Il cadavere venne scoperto una domenica dalla moglie di un ferroviere italiano in servizio al Brennero. Scrive l’autore: “Era ricercato dalla direzione della polizia federale di Linz in quanto criminale di guerra, poiché era stato a lungo a capo della Gestapo di Linz. Mio padre”.

La scrittura di Pollack dipinge un affresco personale di rara profondità e spiega il contesto politico degli inizi del Novecento in Austria, cosa è accaduto a quelle persone, perché hanno giocato con la violenza, col pregiudizio e hanno pensato che in fondo fosse tutto normale perché accettato dalla maggioranza. Ci sono i meccanismi del regime, la lucida scelta del padre, il dolore di un figlio che scopre tutto il male di cui un uomo con buoni studi e di buona famiglia può essere capace, le domande che non avranno mai risposta. “In quanto membro della Gestapo mio padre fin dal primo giorno fece parte in maniera concreta del regime di terrore, vergava liste di persone da arrestare e interrogava coloro che, secondo il suo arbitrio, venivano dichiarati nemici – scrive l’autore –. Parto dal presupposto che egli fosse convinto di essere dalla parte giusta, di lottare per una giusta causa, per il futuro Reich, per l’unità e la purezza del popolo e della razza, e tutto quanto proclamavano gli slogan di allora, a cui credevano in molti; e tuttavia, erano pochissimi a scegliere una carriera nella Gestapo. Perché proprio lui?”.

Ai giovani giuristi – come il padre dello scrittore – la Gestapo offriva rapide possibilità di carriera e un buono stipendio, condizioni che non venivano loro offerte altrove. La Polizia segreta di Stato operava inoltre al di fuori della legge e aveva un potere enorme. “Il distintivo ovale di metallo grigio argenteo con impresse in rilievo le parole Geheime Staatspolizei su un lato e l’aquila del Reich con la croce uncinata sull’altro conferiva al suo possessore un potere pressoché illimitato – si legge – La Gestapo era uno Stato nello Stato, i suoi dipendenti con funzioni direttive si consideravano un’élite ideologica, soldati che combattevano contro i nemici interni del nazionalsocialismo, contro i traditori del popolo, ebrei, marxisti e Chiesa”.

Oltre al racconto della pulizia etnica nei territori in cui Pollack viveva da bambino emergono con discrezione anche i sentimenti e le vicende personali che spiegano comunque quel tempo nefasto: “Mentre era ancora sposata, mia madre mise al mondo il figlio di un altro: un bastardo, ecco cos’ero. E quando nella confusione del dopoguerra lei era la vedova di un criminale di guerra ricercato, lui (il patrigno, ndr) la riprese con sé, insieme al bambino che non era suo. Non mi sono mai sentito un bastardo, un indesiderato”.

Leggete questo “piccolo gioiello”, come lo ha definito Claudio Magris, perché un grande scrittore come Martin Pollack – autore del bellissimo Galizia (Keller, 2017) e di Paesaggi contaminati (Keller, 2016) – ci consegna profonde riflessioni anche sull’oggi, sull’essere europei senza dimenticare gli orrori e le follie naziste e fasciste del secolo scorso che purtroppo ancora trovano terreno fertile nelle democrazie europee e non solo.

 Antonella De Biasi. Giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale La Rinascita della sinistra. È coautrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)