Canta che ti passa, si dicevano i soldati. Ed il fascismo, fenomeno italiano, doveva avere le sue canzoni… C’è un motto che sintetizza la potenza del canto in guerra…E veniva pronunziato con voce confortevole da una camerata più forte, e l’accompagnava l’appoggiarsi di una mano amica sulla spalla: Canta che ti passa!” (Asvero Gravelli, Canti della Rivoluzione)

Sono gli anni in cui l’Italia si appresta a entrare in guerra al fianco della Germania. Guerra che sarebbe finita in fretta, gli italiani avrebbero portato a casa la vittoria in un battibaleno. Le canzoni, questo concetto, lo dovevano esprimere forte e chiaro, rassicurando anche gli animi più titubanti e timorosi. La guerra sarebbe stata un affare da poco.

Non andò così. E anche le canzoni ci misero parecchio a raccontare come erano andate davvero le cose.

Di canzoni che fossero lo specchio della realtà, in Italia non se ne scrissero per un bel pezzo, si dovettero aspettare altri tempi. Giusto il gruppo torinese Cantacronache, sul finire degli anni Cinquanta. Nei loro testi compariva la cronaca dei fatti di quegli anni, come anche il riferimento alla storia da poco trascorsa.

Ma prima? Cosa raccontavano le canzoni, prima? Durante il ventennio fascista, per esempio, quale realtà volevano disegnare nell’immaginario degli ascoltatori?

Gli anni 1924-’25, come ben racconta Michele Straniero nel saggio Antistoria d’Italia in canzonetta, tratto da Le canzoni della cattiva coscienza. La musica leggera in Italia [M. Straniero-E. Jona-S. Liberovici-G. De Maria, Bompiani, 1964] sono segnati dalla nascita e diffusione dei programmi radiofonici.

Un apparecchio radiofonico della metà degli anni Venti (http://www.radiomuseo.it/joomla/images/collector/collection/radio/radiorurale%20300.jpg)

La radio, secondo l’autore, decreterà la scomparsa dei café-chantant, o caffè-concerto. La musica, infatti, non sarà più fruita solo dai nottambuli appassionati del tabarin, ma, grazie appunto al nuovo mezzo di diffusione, potrà entrare in tutte le case ed essere ascoltata da un pubblico vario e socialmente indifferenziato.

La neonata Unione Radiofonica Italiana (ottobre 1924), così, si faceva promotrice della canzone come passatempo di massa e s’apprestava a confezionare un prodotto che per definizione sarebbe stato mediocre, perché la mediocrità è il target privilegiato della massificazione.

Contemporaneamente alla radio, dunque, nasceva la calcolata volontà di determinare il prodotto in base al gusto prevalente di larghe masse, evidentemente non educate. Fu proprio seguendo questo criterio che s’impose lo standard della mediocrità, perché l’aspetto più evidentemente negativo di una cultura di massa è il livellamento del gusto. Tra la radio e la canzonetta insulsa si stabiliva un legame spontaneo che nasceva nel comune intento di assicurare la “distrazione del popolo”.

Straniero mette in evidenza come proprio il fascismo si interessò alla canzonetta: in essa avrebbe trovato un efficace mezzo di propaganda e di pressione ideologica.

“Alla drammaticità della storia e della cronaca, di certi anni del periodo fascista, fa eco, sdolcinata ed evasiva, la canzone” [Straniero, p. 45]. Certa canzone, naturalmente. Infatti, mentre cantastorie popolari componevano versi e musiche sulla morte di Matteotti, come “Or se ascoltar mi state…”, nel medesimo momento gli autori Del Pelo e Bixio Cherubini sfornavano Biondo Corsaro:

Mentre urlava cupo il mar / sul suo veliero intrepido/ il Gran Corsaro/scorgendo il faro/scese coi suoi predon/a saccheggiare l’isola…/Sirena del mar/sorridimi, non tremar…

Ma il finale era struggente, confezionato per far scendere calde lacrime:

Al mattino mentre il sol/illuminava l’isola/ un navigante/vide un vagante/un corpo su dal fondo:/era il corsaro biondo.

Qui nella versione di Claudio Villa:

Se il café-chantant aveva prodotto canzoni con un qualche vago impegno sociale, come Addio Tabarin (Gino Franzi) si passava pian piano a una canzone di evasione presudosentimentale e caratterizzata da un feroce impoverimento del vocabolario: pochi termini, comprensibili a tutti e a larga diffusione.

L’azione anticulturale degli organi del regime, oltre a reprimere le forme del canto più vivace e popolare, sviliva, così, nella maniera più bieca e sfrontata la produzione più originale e contestatrice, attuando azioni di censura, come chiaramente illustrato da documenti rinvenuti da Roberto Leydi (Nuovo Canzoniere Italiano, n.2, Edizioni Avanti!, Milano, gennaio 1963, p. 35).

Il 14 giugno 1929, presso la Legione Territoriale dei reali Carabinieri di Bologna viene depositata una circolare che ha per oggetto: “Dischi per grammofono” in cui è pubblicata una accurata lista di dischi “ritenuti contrari all’ordine nazionale”, tra cui: Il volo di De Pinedo; La morte di Cesare Battisti; Gli alpini al fronte; La canzone di Caserio. Un’altra lista rientra sotto la categoria “Dischi lesivi della dignità del prestigio delle autorità e moralità” in cui compaiono: La morte di Sacco e Vanzetti; Stornelli popolari; Stornelli toscani; Stornelli romani; L’assassinio di Matteotti; La leggenda del Piave. Canzoni popolari che raccontavano fatti, eventi di storia sociale e politica del Paese, condannati al silenzio.

La censura verso certe canzoni andava di pari passo con la bassa considerazione verso la musica, i musicisti, i loro strumenti:

“Una bella figura di fascista e di musicista – scrive Asvero Gravelli, direttore di Antieuropa, Rassegna mensile dell’Occidente Romano – è il Maestro Damiani, di Milano che, primo in Italia, io credo, costituì una banda musicale che nel contempo era anche squadra d’azione. Non di rado le trombe diventavano mezzi di offesa, se non altro perché rompevano i timpani agli avversari… Questa musica fu composta con gli strumenti trovati e predati nella Camera del Lavoro di Sesto San Giovanni in una spedizione punitiva. Io che allora ero segretario politico di quel Fascio ricordo la mestizia delle canaglie sovversive del mio paese, che non potevano più suonare” [Le canzoni della cattiva coscienza, p. 105].

Non solo l’azione repressiva verso le forme più autentiche e popolari del canto, non solo la censura e la violenza, ma tra le armi coercitive della dittatura fascista c’era anche la parodia di canti popolari della riscossa operaia come Bandiera rossa che diventava:

Bandiera nera/color di morte/sarà più forte/sarà più forte/Avanti Ardito/snuda il pugnale/al Viminale/al Viminale.

Poi qualcosa cambiò. Le canzoni del primo periodo, piene di richiami alla morte, ai manganelli delle squadracce, piene di parodie, verranno abbandonate una volta conquistato il potere. Si approderà a nuovi temi e l’apparecchio radiofonico amplificava le storie melense che si diffondevano nel calore del focolare domestico. Ora il pubblico era composto da casalinghe, donne di servizio, nonne e zie. Così la canzone si rinnovava:

Mentre i cuori salutano il sorger del dì/cantando al vento così:/Quando scendi dai tuoi monti, /paesanella,/ ti sorridono le fonti/ paesanella!/Ogni sguardo t’accompagna/perché sei bella./Sognano i cuor un tuo bacio d’amor/paesanella! (Paesanella, Oldrati-Rossi-Pinchi, 1935).

Mistificazione della realtà, temi facili, l’amore che sboccia un po’ ovunque:

Un bicchier d’acqua ed un bacio ardente/questo è l’amor per chi non ha niente./Quando il mio bacio ti riscalderà/un bicchier d’acqua ti riscalderà. /L’amor non vuole che una ricchezza/ un cuore pieno di giovinezza. /Un bicchier d’acqua/un bacio ed un cuor…/bastan per fare l’amor. (Un bicchier d’acqua e un bacio, Marf-Mascheroni, 1935).

Negli anni dell’Impero, del benessere fascista, dell’espansionismo coloniale le canzoni tratteggiano visioni idilliache della realtà: l’amore che fa scintille, la leggerezza, le atmosfere magiche di gusto orientale dove un violino tzigano ricorda un amore lontano:

Suona sol per me/o violino tzigano/Forse pensi anche tu/ a un amore quaggiù/sotto un cielo lontan (Violino tzigano, Bixio Cherubini, 1934).

Una canzone che è diventata un classico della musica leggera, la canta anche Nilla Pizzi.

L’autore Bixio Cherubini è uno dei più fecondi: autore di testi, di rivista, poeta, collaboratore dei migliori compositori italiani dell’epoca, da Dino Rulli ad Alfredo Del Pelo, Ermenegildo Zucconi, Armando Fragna, Luigi Pagano, Carlo Concina Marf, Cesare Andrea Bixio, fondatore di una importante casa editrice e già affermato compositore. Bixio Cherubini, per esempio scrive Serenata di don Giovanni, 1935,

oppure Eravamo sette sorelle “edizione contraffatta e scorretta della poesia scritta dai poeti contemporanei”, come D’Annunzio. Qui nella versione del Trio Lescano

Non solo i violini ma anche le chitarre impazzano: Suona suona mia chitarra/lascia piangere il mio cuore, (Chitarra romana, Bruno Cherubini, 1934), qui cantata da Claudio Villa

Chitarra d’amor/ che ripeta il mio cuor/la divina illusione (Chitarra d’amore, Schmidseder – Rastelli, 1936), qui nell’interpretazione di Carlo Buti.

Il regime, quindi, se da un lato ricorre alla censura per colpire quei canti popolari che potevano contenere una qualche vaga idea di ribellione o sgradite allusioni, dall’altro favorisce la produzione di canzonette frivole, inconsistenti, del tipo schematico lanciato dalle radio, che, soprattutto, non richiamassero alla mente la drammatica realtà della lotta politica in corso. In questo processo di mistificazione della realtà sistematicamente operato dal fascismo, abbondano canzoni i cui testi sono un invito a distrarsi, a non prendersela se qualcosa non va. Questo “canta che ti passa” altro non era che la negazione dei problemi, la loro destoricizzazione.

Se vuoi vivere e star ben/non t’arrabbiar!/Prendi il mondo come vien/ non ci badar (Valzer trullallero, Lazzaro-Bruno, 1935).

Niente deve distogliere l’attenzione dal nulla del “canta che ti passa”. Neppure vaghe allusioni erotiche che potrebbero turbare i sogni degli italiani.

Così “Negli anni Trenta il Minculpop decise che la nota canzonetta di Joséphine Baker, rilanciata in Italia da Anna Fougez, Ah! Non ho più banane!, dovesse essere cantata con questa modifica: “Ah! Non ho più ananas”, in modo da non turbare i pensieri quieti degli italiani (cfr. Diamante Limiti, Le banane dal duce alla DC, in “Rinascita”, 1 giugno 1963, p. 5).

E allora, “canta che ti passa”:

Quando il cielo si fa nero/ e t’assale il malumore/quando t’agita il pensiero/di saldare un creditore/o l’amico più sincero/ti tradisce col tuo stesso amor…/Puoi cantar/ ché, cantando, ti passa… (Facci una fischiatina, Lazzaro-Morselli, 1938).

Nel frattempo in Spagna si stava compiendo la prova generale della seconda guerra mondiale. Ma nulla doveva agitare gli animi. L’EIAR, anzi, costituiva due orchestre di musica leggera, si fischiavano motivetti, si cantavano canzonette.

Tutto ciò, ovviamente, non basterà a evitare la guerra col suo carico di drammaticità.

Le canzoni della vigilia testimoniano, sì di preoccupazioni, ma più che altro amorose, una certa instabilità dei sentimenti:

Sei tanto giovane, bambina,/ e sognare vuoi l’amor?/ Aspetta ancora, o mia piccina,/ non sciupare/l’ingenuo tuo cuor. /Non parlar d’amor, sei troppo piccola! (Sei troppo piccola, Fucilli-Bracchi, 1939)

Oppure:

Bel soldatin/ che passi per la via/bel soldatin/sei la passione mia/ Fai l’occhiolin/con tanta furberia/e nel mio cuor/ fai nascere l’amor!/ Ma se domani la Patria chiamerà/a te che vai lontano/ questo cuor ripeterà… (Bel soldatin, Mazzoli, Ala)

Poi arriveranno le canzoni di guerra. E non potranno che essere ottimistiche: “fatte per dare l’impressione che si tratti di una faccenduola tra uomini da sbrigare rapidamente per poter rincasare al più presto con la vittoria in tasca” [Straniero, p. 68]:

Ci rivedremo/ in Tunisia!/Ninetta mia, stai allegra e pensa a me!/Ci rivedremo!/Qualunque sia/la sorte mia seguirò pensando a te! (Ci rivedremo in Tunisia, Casucci-Pinchi).

Ma la lista è lunghissima: Addio, Bambina (Casaroli-Nisa); Canto dei Volontari (Allegra-Vitali); Biondina aspettami! (Ravasini-Mendes); Ciao ciao bel soldatin (Militello-Apolloni):

Ciao ciao bel soldatin/ vai vai col tuo destin/ combatti fiero e ritorna vincitor/ la tua mammina ti stringerà sul cuor.

Dio, Patria, Famiglia.

Tutte diffuse in appositi programmi radiofonici. Scopo: tranquillizzare le masse, le mamme, le fidanzate, i soldati che partono per la guerra. Ma una guerra che si vincerà e sarà solo una benedizione.

La rivista “Canzoniera della Radio” per tutto il 1941 e il 1942 presenta ritratti e biografie degli artisti più in voga: il trio Lescano, Barzizza, Otello Boccalini, Lucio Ardenzi, Norma Bruni. Le canzoni raccontano storie amorose di bersaglieri, paracadutisti, villanelle, paesanelle, avieri. Una gran felicità.

Solo dopo i primi mesi di guerra i testi delle canzoni cominciano ad assumere toni più accorati e si fanno espressione d’un popolo sfiancato e oppresso. Parole meno tronfie, più serie e vicine allo stato d’animo degli italiani: il vincere squillante dei primi mesi di guerra è diventato un bisogna vincere pronunciato a denti stretti da un popolo esausto, affamato che, istintivamente, torna a cercare protezione dalla mamma:

Mamma, bisogna vincere!/Vincere e nulla più!/E tu mi scrivi: Come si può perdere/ con un figliolo al fronte come te?/Mamma, bisogna vincere/Vincere e vincerò (Mamma, bisogna vincere, Arconi-Nisa):

Fino a che si arriva agli anni della Resistenza.

L’Italia, spaccata in due, ritrova la dignità civile e morale: specialmente al nord, sulle montagne, si rinnova la tradizione risorgimentale, e tra gli uomini delle Brigate Partigiane nascono canti rivoluzionari, e nuovi testi vengono adattati alle antiche arie patriottiche, a musiche popolari di altri paesi in lotta (Fischia il vento).

Ma dalla resistenza non nasce una nuova canzone di successo o di grande diffusione. Al sud, con l’invasione alleata, penetrano d’improvviso i ritmi americani del jazz: “dopo l’immobile provincialismo fascista – scrive Straniero – si pongono le basi per una graduale evoluzione del costume e del gusto anche in campo musicale. […] al seguito delle truppe alleate trionfa una canzonetta italo-americana Angelina”.

Nella gran confusione che segue la fine delle ostilità, mentre si tirano le somme dell’immane disastro, gli italiani non smettono di cantare come in una allegra ubriacatura, una canzone di tipo infantile, Dove sta Zazà?

“È una specie di esplosione di follia collettiva – scrive Straniero – nel generale clima di sovraeccitazione popolare. Ritornano i partiti, le elezioni; dappertutto si organizzano manifestazioni pubbliche, comizi, cortei. Rientrano i fuoriusciti, se ne va il Re, comincia la grande opera di ricostruzione… e la gente canta come impazzita: T’amerò Zazà!” Qui la canta Gabriella Ferri:

Sarà con la nuova struttura del sistema economico e sociale del dopoguerra e con la nascita della cultura di massa che la canzone, con queste premesse, si avvierà a diventare un bene di consumo, di mercato, una canzone “gastronomica”, come ricordano gli autori del saggio citato e Umberto Eco, che ne ha scritto la prefazione: “La musica gastronomica – scrive – è un prodotto industriale che non persegue alcuna intenzione d’arte, bensì il soddisfacimento delle richieste del mercato”. Una musica che, se da un lato si adegua al mercato, dall’altro è essa stessa, e il sistema industrializzato che la produce, a orientarlo e, nella forma di una coercizione pedagogica, a determinarne le richieste.

Storia di oggi.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli