Ritratto di Dante Alighieri

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di provincie, ma bordello!

Così Dante nel sesto canto del Purgatorio, nella trecentesca Divina Commedia, dava l’immagine di un’Italia divisa in fazioni, nave senza comandante. Nessuna guida in grado di assumersi la responsabilità di riportarla all’antico splendore e salvarla dallo stato di bassa moralità e spiritualità, dovuta alle infinite e dilanianti lotte intestine. Ci vorrà tempo perché quella guida, il popolo stesso, saprà prendere consapevolezza della propria forza di autodeterminarsi.

Bisognerà aspettare il Risorgimento, il laboratorio in cui verrà progettata l’architettura dello Stato nazionale italiano. Una nazione, intesa come comunità di individui legati da tratti comuni, lingua, storia, religione, tradizioni che, in conseguenza di questo legame, esprimerà il diritto di definirsi politicamente. E di riconoscersi in una identità condivisa. Che passerà, anche, attraverso l’esperienza del canto. Durante il Risorgimento si scrivono e si mettono in musica inni, canzoni popolari, arie d’opera. Accomunate spesso dalla rappresentazione di un popolo oppresso, in lotta per la conquista della libertà.

Come quello dei Comuni lombardi che, riuniti nella Lega lombarda, nel 1176 affrontano Federico Barbarossa: Milano è minacciata dalle sue truppe e sta per cadere. Ovunque, morte e distruzione. Ma un canto si leva e tutti unisce:

Viva Italia! un sacro patto/Tutti stringe i figli suoi:/Esso alfin di tanti ha fatto /Un sol popolo d’eroi!

Le bandiere in campo spiega, /O Lombarda invitta Lega, /E discorra un gel per l’ossa /Al feroce Barbarossa.

Viva Italia forte ed una /Colla spada e col pensier! /Questo suol che a noi fu cuna, /Tomba fia dello stranier!

Per salvare la patria Arrigo e Rolando, i due eroi lombardi giunti a Como, coinvolgono il popolo inneggiando alla liberazione dall’imperatore austriaco:

Arrigo e gli altri Duci

Ed ora tutti giuriam difenderla,/Col sangue nostro ancora./Rolando poi gli altri/S’appressa un dì che all’Austro/Funesto sorgerà,/In cui di tante ingiurie/A noi ragion darà!

Tutti

Domandan vendetta gli altari spogliati,/Le donne, i fanciulli dall’empio svenati …/Sull’Istro natìo cacciam queste fiere,/Sian libere e nostre le nostre città.

Un secondo giuramento avviene nei sepolcri di Sant’Ambrogio: i soldati arruolati nella Compagnia della Morte, lo squadrone di cavalieri chiamati a far da scudo al Carroccio, giurano di porre fine ai mali d’Italia, cacciandone i tiranni. Chi non giura o non terrà fede al sacro patto sarà disonorato:

Giuriam d’Italia por fine ai danni,/Cacciando oltr’Alpe i suoi tiranni./Pria che ritrarci, pria ch’esser vinti,/Cader fra l’armi giuriamo estinti.

Se alcun fra noi, codardo in guerra,/Mostrarsi al voto potrà rubello,/Al mancatore nieghi la terra/Vivo un asilo, spento un avello:/Siccome gli uomini Dio l’abbandoni,/Quando l’estremo suo dì verrà:/Il vil suo nome infamia suoni/Ad ogni gente, ad ogni età.

Nel finale, poi, una moltitudine di voci inneggia festosa alla fine della dominazione germanica: Barbarossa è stato sconfitto nella Battaglia di Legnano e si acclamano i vincitori al loro ritorno:

Dall’Alpi a Cariddi echeggi vittoria!/Vittoria risponda l’Adriaco al Tirreno!/Italia risorge vestita di gloria!…/Invitta e regina qual era sarà!

C’è anche Arrigo tra i lombardi vittoriosi, è lui il salvatore della patria, ma è in fin di vita. Morirà in pace stringendo in pugno, vicino al cuore, il vessillo del Carroccio, simbolo della città liberata.

La Battaglia di Legnano, musiche di Giuseppe Verdi, libretto di Salvadore Cammarano. Rievocazione delle ultime fasi della lotta fra Federico Barbarossa, imperatore del Sacro Romano Impero Germanico e la Lega lombarda, formata dai Comuni dell’Italia settentrionale. Lotta che si conclude con la vittoria delle città comunali, in seguito alla battaglia di Legnano del 29 maggio 1176. Nell’opera i cori inneggiano alla patria oppressa e al desiderio di libertà dal giogo tiranno. Si fanno giuramenti per il fine della buona causa collettiva e per la libertà si è pronti a morire.

A questo spettacolo assiste il pubblico romano il 27 gennaio 1849, quando per la prima volta al Teatro Argentina viene eseguita la tragedia lirica in quattro atti tratta da La bataille de Toulouse di Joseph Méry. Si dice che la partecipazione fu tutt’altro che passiva: “Viva l’Italia, viva la Repubblica, Viva Verdi” si gridò a piena voce dalla platea e dai sei ordini di palchi. Era la Roma repubblicana e mazziniana che, sotto le insegne dei triumviri Saffi, Mazzini e Armellini, celebrava la nuova opera del maestro come una festa popolare. Ma era la norma nei teatri italiani dell’Ottocento, ancor di più nei territori ancora sotto il dominio dello Stato Pontificio o dell’Impero Asburgico, dove la rappresentazione di un’opera lirica diventava il pretesto per scatenare accese manifestazioni di carattere patriottico. E la musica, insieme al testo cantato a perdifiato costruiva le fondamenta di un’identità nazionale ancora incerta.

La Battaglia di Legnano è certamente, tra quelle del repertorio verdiano, l’opera più ispirata agli ideali risorgimentali: eroismo, amore, amor di patria, provvidenza divina, onore. Ideali che dovevano costruire quella coscienza collettiva che ancora mancava in un paese disunito da tanti secoli. Scritta sull’onda emotiva suscitata dalle Cinque giornate di Milano e composta proprio con il proposito di esaltare quel particolare momento storico: la vittoria delle truppe lombarde sull’esercito austriaco guidato dal generale Radetzky. Coi suoi squilli, ritmi marziali, patti sacri e giuramenti, un’atmosfera di battaglia, poteva davvero apparire come un appello insurrezionale.

Si sa che non fu semplice portarla in scena senza subire tagli o rimaneggiamenti a causa delle azioni della censura, pronta a intervenire di fronte a qualunque riferimento diretto alla situazione politica del momento. Infatti, il libretto, prima di essere presentato, subì qualche cambiamento, come sappiamo da una corrispondenza di Verdi con il musicista e direttore d’orchestra Cesare De Santis. Scriveva Verdi a proposito: “Conservare tutto l’entusiasmo di patria, libertà, senza mai parlare di patria e libertà, è cosa ben ardua, nonostante, si può tentare”. E più avanti: “Che il nuovo soggetto possa essere permesso da tutte le Censure, s’intende; è il motivo per cui lo si cambia”. Non a caso, per aggirare l’ostacolo, in un primo momento l’opera venne proposta con il titolo di L’assedio di Arlem.

Non solo. Come Alessandro Manzoni nel romanzo I Promessi Sposi, anche Verdi fa una scelta narrativa strategica. Per parlare della condizione presente (la dominazione austriaca sul Lombardo-Veneto) colloca le vicende in un’epoca storica lontana e passata (nei Promessi Sposi, la Milano del Seicento sotto il giogo gli spagnoli; nella Battaglia di Legnano, il Medioevo con le lotte dei comuni contro lo straniero Barbarossa). Così, benché il contesto descritto fosse differente, era comunque la patria oppressa a essere richiamata allusivamente attraverso questa efficace trasfigurazione di epoche. Era il pubblico che riportava al presente quelle storie ambientate in epoche così lontane nel tempo, si identificava negli eroici personaggi e si sentiva coinvolto nelle loro vicende.

Verdi divulgatore di ideali risorgimentali? Di certo era frequentatore di salotti culturali, come quello della Contessa Clarina Maffei a Milano, luogo d’incontro di poeti, artisti e letterati che dal 1848 divenne anche centro di elaborazione di idee politiche, prima fra tutte l’opposizione al dominio d’Austria. Qui circolavano anche le idee mazziniane. Tra il ’42 e il ’48 Verdi partecipò spesso a quegli incontri, negli anni in cui compose soggetti dalle forti implicazioni patriottiche come Nabucco, I Lombardi alla prima crociata, Ernani, Attila, La Giovanna d’Arco.

Già nel Nabucco (1842), infatti, con la sua musica, aveva iniziato a esercitare un’azione politica: in quel libretto c’era tutta la sofferenza di un popolo sottomesso e sulla scena, nelle parole cantate dal coro, il pubblico non poteva che riconoscersi nello stesso dolore. Il coro Va pensiero non è altro che la trasposizione di un’aria da melodramma in un inno patriottico che esalta la riconquista della libertà da parte del popolo ebreo soggetto al dominio babilonese. Gli spettatori del tempo non potevano che leggervi l’identica storia del popolo italiano sottomesso da quello austriaco.

Va, pensiero, sull’ali dorate/va, ti posa sui clivi, sui colli/ove olezzano tepide e molli/ l’aure dolci del suolo natal!

I Lombardi alla prima crociata (1843), invece, è un’opera giocata sul confronto tra i milanesi alla vigilia delle Cinque giornate e i loro antenati che combattono per liberare Gerusalemme dall’oppressione musulmana. I crociati innalzano un canto rivolto alla patria lontana che esalta l’orgoglio civico di tutto un popolo: Oh signore, dal tetto natio:

Oh signore, dal tetto natio, /ci chiamasti con santa promessa; /noi siam corsi all’invito di un pio/giubilando per, l’aspro sentier. […]

Oh fresche aure volanti sui vaghi /ruscelletti dei prati lombardi! /Fonti eterne! Purissimi laghi! /Oh vigneti indorati di sole.

In Ernani (1844), opera ambientata nella Spagna del Cinquecento, i temi risorgimentali emergono soprattutto nel coro Si ridesti il Leon di Castiglia dove di nuovo si inneggia alla rivolta contro Don Carlo, re usurpatore:

Siamo tutti una sola famiglia,/pugnerem colle braccia, co’ petti/schiavi inulti più a lungo e negletti/non sarem fin che vita abbia cor.

Certo, non tutti sono d’accordo nel sostenere la tesi di un Verdi concretamente impegnato. Diversi critici riconoscono in lui un artista poco attivo nei confronti della causa risorgimentale: non si arruolò come tanti suoi coetanei, come fece per esempio Francesco Maria Piave, suo librettista; non rischiò la vita come Goffredo Mameli, autore di Fratelli d’Italia, subito diventato inno alla patria e manifesto dello spirito libertario di un popolo da sempre oppresso, morto a ventidue anni dopo aver combattuto per la Repubblica romana. Inno qui cantato da Mario del Monaco:

Ma, forse, per compiere al meglio la missione a cui ognuno è chiamato in vita, è bene mettere a frutto i talenti, le facoltà ricevute in dote, e Verdi era un grande compositore. Pertanto, è possibile che lui stesso ritenesse di poter servire meglio la causa nazionale, non tanto con il fucile, quanto piuttosto con le opere. È la musica che parla anche per l’uomo Giuseppe Verdi, per il politico Giuseppe Verdi, per il patriota Giuseppe Verdi. Verdi esplica il suo patriottismo con le note, anziché con l’azione carbonara. Questa è la sua concretezza alla causa risorgimentale: il suo grande messaggio sono le sue opere, una testimonianza straordinaria.

E chi, allora, poco o nulla sapeva di ideali, ideologie o filosofie, quelle arie le cantava a memoria e nel teatro lirico manifestava i propri atteggiamenti nei confronti delle vicende politiche contemporanee: gridando slogan, cantando, facendo attività sovversiva.

Temi cari al Risorgimento si ritrovano anche in diverse opere di Gioachino Rossini come l’Italiana in Algeri e soprattutto nel Guglielmo Tell (1829) che racconta della Svizzera oppressa dal giogo asburgico e della ritrovata libertà dopo la cacciata dello straniero. Celebre il coro finale dove le voci crescono fino a ritrovarsi insieme e meravigliosamente armonizzate sulla parola “libertà”:

Tutto cangia, il ciel s’abbella, /l’aria è pura, il dì raggiante,/la natura è lieta anch’ella./Può allo sguardo un solo istante/or nuovo il mondo rivelare!/E in ogni cor pel santo evento/alzi un grido al ciel tonante:/Di tuo regno fia l’avvento/sulla terra libertà, o libertà.

Teatro alla Scala, 1988, Riccardo Muti:

Nella Norma di Vincenzo Bellini (1831) l’azione si svolge nelle Gallie, all’epoca della dominazione romana. Qui i druidi, guidati da Oroveso, da tempo tramano una rivolta contro Roma. Nel coro si inneggia all’odio per il nemico oppressore e al desiderio di libertà:

Druidi

Dell’aura tua profetica,/Terribil Dio, l’informa!/Sensi, o Irminsul, le inspira/D’odio ai Romani e d’ira,

Sensi che questa infrangano/Pace per noi mortal, sì!

Oroverso

Sì. Parlerà terribile/Da queste querce antiche,/Sgombre farà le Gallie/Dall’aquile nemiche,

E del suo scudo il suono,/Pari al fragor del tuono,/Nella città dei Cesari/Tremendo echeggerà!

Arturo Toscanini dirige la NBC Symphony Orchestra:

I puritani (1835), sempre di Vincenzo Bellini, è ambientata nell’Inghilterra del Seicento nell’epoca delle lotte tra seguaci di Cromwell, puritani, e sostenitori degli Stuart. Celebre è il duetto di sfida tra il puritano Sir Riccardo Forth e il nobile Stuart Sir Giorgio Valton, un grido di battaglia:

Suoni la tromba e intrepido/io pugnerò da forte:

bello è affrontar la morte/gridando libertà.

Piero Cappuccili e Nicolaj Ghiaurov, London Symphony Orchestra

In Caritea regina di Spagna di Saverio Mercadante (1826), invece, viene messo in scena il conflitto tra il Portogallo e la Spagna. Il portoghese re Alfonso vi ha dichiarato guerra. Il coro Chi per la patria muor diventerà un celeberrimo inno risorgimentale, soprattutto dopo che, si narra, verrà intonato dai fratelli Bandiera prima della loro esecuzione a morte:

Chi per la patria muor/Vissuto è assai;/la foglia d’allor/non langue mai/piuttosto che languir/sotto i tiranni/è meglio morir/sul fior degli anni.

E se la musica operistica ha certamente apportato un grande contributo alla nascita di un ideale collettivo di unità, di fratellanza, ci sono anche le canzoni a esprimere adesione ai valori e ai principi del Risorgimento. Molte di queste hanno per protagonisti personaggi dei quali si tramandano le gesta eroiche: da Ugo Bassi, frate garibaldino fucilato dagli austriaci nel 1849 dopo la caduta della repubblica romana, a Felice Orsini e Giuseppe Pieri, i due mancati attentatori alla vita di Napoleone III condannati alla ghigliottina.

Ma soprattutto è Giuseppe Garibaldi, il personaggio che più di ogni altro incarna lo spirito rivoluzionario. La figura dell’eroe dei due mondi, nell’immaginario risorgimentale, diventa un Gesù Cristo salvatore, o l’angelo vendicatore che combatte contro le ingiustizie sociali e politiche. L’Inno di Garibaldi è certamente il canto più noto che gli sia stato dedicato. Composto nel 1859, poco prima della Seconda guerra d’Indipendenza con il titolo di Canzone italiana, autore della musica è Alessio Olivieri, mentre le parole sono di Luigi Mercantini:

Si scopron le tombe, si levano i morti,/i martiri nostri son tutti risorti!/La spada nel pugno, gli allori alle chiome,/la fiamma ed il nome – d’Italia sul cor!

Veniamo! Veniamo! Su, o giovani schiere!/Su al vento per tutto le nostre bandiere!/Su tutti col ferro, su tutti col foco, /su tutti col foco – d’Italia nel cor!/ Va fuora d’Italia, va fuora ch’è ora,/va fuora d’Italia, va fuora, o stranier!

La interpreta Enrico Caruso

Altro canto dedicato a Garibaldi è Camicia rossa, testo di Rocco Traversa, segretario comunale piemontese, musica del milanese Luigi Pantaleoni. Noto dal 1860, diffuso subito dopo la spedizione di Garibaldi in Sicilia, verrà cantato anche durante la Resistenza dai partigiani delle brigate garibaldine.

La camicia (o giubba rossa) segno distintivo scelto da Giuseppe Garibaldi e dai suoi volontari fin dal 1843, era usato per i camici dei macellai per nascondere le macchie di sangue animale. Diventerà la divisa delle truppe garibaldine, protagoniste della nascita del Regno d’Italia:

Quando all’appello di Garibaldi/tutti i suoi figli suoi figli baldi/daranno uniti fuoco alla mina/camicia rossa garibaldina/daranno uniti fuoco alla mina/camicia rossa garibaldina

Garibaldi fu ferito, canzone che ricorda l’incidente accorso a Garibaldi nella battaglia dell’Aspromonte, è diventata memorabile e facilmente orecchiabile anche per via di Flik Flok, l’aria bersagliera su cui è intonato il ritornello:

Una libera interpretazione di Bruno Lauzi in Garibaldi Blues

Dello stesso autore, Luigi Mercantini, è noto anche il canto La spigolatrice di Sapri che racconta la sfortunata spedizione di Carlo Pisacane nel Regno delle due Sicilie attraverso la voce narrante di una lavoratrice dei campi, intenta nel lavoro della spigolatura:

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti.

Me ne andavo al mattino a spigolare,/quando ho visto una barca in mezzo al mare:/era una barca che andava a vapore;/e alzava una bandiera tricolore;/all’isola di Ponza si è fermata,/è stata un poco e poi si è ritornata;/s’è ritornata ed è venuta a terra;/sceser con l’armi, e a noi non fecer guerra.

Declamata da Arnoldo Foà

Altro celebre canto è La bandiera dei tre colori, di cui esistono più versioni. Di quella più breve le parole si dice siano state scritte nel 1848 da Francesco Dall’Ongaro, patriota e poeta. La versione lunga, invece, è del 1859, su testo di anonimo.

La bandiera tricolore nacque per decisione dei deputati della Repubblica Cispadana di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio Emilia il 7 gennaio 1797 e diventerà simbolo del popolo e della nazione durante il Risorgimento: “Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci […] ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’Etna; le nevi delle Alpi, l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani […]: il bianco, la fede serena alle idee […]; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch’ ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà” [Giosuè Carducci, discorso tenuto il 7 gennaio 1897 a Reggio Emilia per celebrare il centenario della nascita del Tricolore]:

La bandiera dei tre colori/è sempre stata la più bella,/noi vogliamo sempre quella,/noi vogliam la libertà.

O Venezia che sei la più bella, si riferisce al coraggioso biennio repubblicano (1848-49) di Venezia ribellatasi all’impero austriaco, e alla drammatica repressione con cui gli austriaci annientarono quell’insurrezione popolare. Insieme a Venezia si ricordano altre città simbolo del Risorgimento: Roma, meta degli ideali unitari, Mantova, Ancona.

Da tenere in nota che nel testo compare la famosa strofa traditori signori ufficiali che sarà spesso inserita anche nell’impianto musicale di O Gorizia, tu sei maledetta. Strofa che fu causa di celebri scandali nei teatri in cui Giovanna Daffini, o altri interpreti, la eseguivano coraggiosamente alla presenza dell’alta borghesia e della nobiltà dell’epoca. Non si può dimenticare l’esibizione di Michele Luciano Straniero al Festival dei due mondi, a Spoleto nel 1964.

O Venezia che sei la più bella/e tu di Mantova che sei la più forte/gira l’acqua intorno alle porte/sarà difficile poterti pigliar.

E quel giorno, entrando in Venezia/vedevo il sangue scorreva per terra/i feriti sul campo di guerra/e tutto il popolo gridava pietà.

Traditori signori ufficiali/e voi la guerra l’avete voluta/scannatori di carne venduta/e voi rovina della gioventù.

O Venezia, ti vuoi maritare?/E per marito ti daremo Ancona/e per dote le chiavi di Roma/e per anello le onde del mar.

La splendida versione di Francesco De Gregori e Giovanna Marini dall’album Il Fischio del Vapore

La canta anche Giovanna Daffini

Inno a Oberdan è un canto composto nella città di Trieste, scritto nel 1882 a seguito dell’impiccagione del triestino Guglielmo Oberdan, condannato per il suo proposito di attentare alla vita dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe. Si era procurato un paio di bombe all’Orsini, ordigni inventati da Felice Orsini, usati dallo stesso per l’attentato a Napoleone III. In contatto con il leader del movimento irredentista Matteo Renato Imbriani, Oberdan aveva preso la decisione che Trieste avrebbe potuto essere separata dal dominio austriaco in virtù di un martirio, il suo. Lo scoraggiamento degli esuli che avevano riposto in Garibaldi le loro speranze spinse Oberdan a organizzare l’attentato contro l’imperatore Francesco Giuseppe in visita a Trieste in occasione dei 500 anni di dedizione della città all’Austria. La Fidelissima era il titolo assegnatole dalla monarchia asburgica per essersi astenuta dalle rivoluzioni del 1848. La canzone diventerà popolarissima anche in seguito quando Oberdan verrà riconosciuto eroe e martire da parte di quanti non accetteranno la Triplice Alleanza tra Austria-Ungheria, Germania, Italia che influiva sulle possibilità di riunificazione di Trieste all’Italia.

Morte a Franz, viva Oberdan!/Morte a Franz, viva Oberdan!

Le bombe, le bombe all’Orsini,/il pugnale, il pugnale alla mano;/a morte l’austriaco sovrano,/noi vogliamo la libertà.

Morte a Franz, viva Oberdan!/Morte a Franz, viva Oberdan!

La cantano Milva,

I Gufi

e in una versione attualissima i Les Anarchistes.

Ma non solo canzoni politiche, il Risorgimento italiano è popolato anche da una schiera di canti, spesso in dialetto, che richiamano temi amorosi. Storie di madri, mogli, amanti e spose promesse. Di donne tradite e di donne per le quali si è pronti a sacrificare la vita, di donne abbandonate. Sono i sentimenti, gli amori, la vita reale e privata degli italiani che emergono nelle canzoni popolari meno patriottiche.

Tra le più note spiccano El pover Luisin (1859) e La bella Gigogin (1858). Scritta nel 1858 dal compositore milanese Paolo Giorza, quest’ultima si ispira ad alcuni canti popolari lombardo-piemontesi e non ci vorrà molto a che diventi anche tra i ballabili preferiti dagli italiani. Ma presto il suo ritornello riecheggerà di bocca in bocca in occasione della Seconda guerra di Indipendenza nel 1859 e nei cori garibaldini durante la spedizione dei Mille. Diventerà una canzone patriottica, infatti, per quel Dàghela avanti un passo che poteva far intendere l’invito a Vittorio Emanuele II di fare avanti un passo e prendere in mano le sorti d’Italia alla viglia della Seconda guerra d’Indipendenza. Ma prenderà poi il sopravvento, al ritmo di polka, il racconto più leggero e spensierato della bella Gigogin che si vuole maritare:

Bisogna, bisogna/ bisogna aver pazienza,/lassalla, lassalla/ lassalla maridà!

La cantano Gigliola Cinquetti

e I Gufi con il celebre Rataplan iniziale:

In El pover Luisin, scritta il dialetto lombardo, la protagonista racconta del giovane di cui è innamorata, partito per la guerra e morto dopo tre anni, che l’ha lasciata nel dolore e nel rimpianto:

Vegnüel cinquantanöv, /che guera desperada!/e mi per sta cuntrada l’ho pü vedù a pasà/e mi per sta cuntrada l’ho pü vedù a pasà.

La canta Nanni Svampa

E poi c’è Addio mia bella addio, attribuito a Carlo Alberto Bosi, è entrato a far parte della tradizione popolare poiché cantato in tutte le guerre che sono seguite. Anche qui il tema intimo e personale dell’amore per la fidanzata si mescola con quello della partenza per una guerra da combattere:

Addio mia bella addio,/che l’armata se ne va,/e se non partissi anch’io/sarebbe una viltà

Il sacco è preparato,/il fucile l’ho con me,/ed allo spuntar del sole/io partirò con te.

La cantano anche Luca Barbarossa e Raquel Del Rosario, Sanremo 2011

Queste canzoni dalle tematiche antiretoriche e legate al mondo degli affetti ebbero un notevole successo. Canzoni in cui gli affetti privati e familiari diventavano tutt’uno con il sentimento nazionale: “Il grembo del microcosmo familiare (madri, mogli, fidanzate, figli) è evocato come una piccola patria” [Pivato S., Bella ciao, p. 42]. Patria e famiglia. E così, un sentimento antico come quello dell’amore si mescolava con uno nuovo, l’amor di patria e il sacrificio per la sua difesa. Patria, amore, famiglia (e anche Dio). Ecco emergere alcuni dei temi portanti della canzone italiana, originati dal melodramma e dalla canzone popolare ottocentesca, che albergheranno stabilmente per lungo tempo nel repertorio musicale italiano. Il Risorgimento, laboratorio politico, sociale e culturale, non ci ha tramandato, dunque, soltanto canzoni patriottiche, canzoni da parata militare, canzoni di soldati in marcia, di soldati uccisi e immolati, di vessilli e di coccarde, di eroi da celebrare, di guerre e di battaglie vinte o perse, della riscossa e delle ribellione. Ha restituito il mondo popolare dei sentimenti, delle azioni quotidiane e domestiche, degli amori giovanili, dei dialetti, del desiderio alla libertà e alla vita di un popolo che in quel momento forgiava la propria identità. Anche cantando.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli