Ebbi ben presto abbastanza chiaro che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l’illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. La seconda si è sbriciolata ben presto, la prima rimane.

Fabrizio De André

 

Genova e la sua scuola cantautorale. Qui si formano la personalità, anarchica, disobbediente e scontrosa, e la poetica, metaforica e allusiva, del giovane rampollo Fabrizio De André, figlio delle buona borghesia. Affascinato dall’esistenzialismo francese, le sue prime esperienze musicali derivano dall’ascolto di Georges Brassens: «Brassens era un cantautore di protesta – confessa De André – e io mi riferivo a lui non soltanto dal punto di vista formale, ma anche per le tematiche» [Bernieri C., Non sparate sul cantautore, p. 114]. I dischi del cantautore francese, soprattutto, ispirano canzoni che nella loro leggera ironia sanno sbeffeggiare i ricchi e i potenti e perdonare gli ultimi. Coloro sui quali si accanisce il giudizio torvo della buona società, la morale bigotta, l’ingiustizia sociale.

De André, infatti, con parole di poeta – suggerisce Paolo Jachia – ha raccontato l’Italia dalla morte di Tenco e Pasolini al dramma delle minoranze zingare, palestinesi, sioux, le storie dei derelitti vittime della società borghese, la stagione ricca e tragica del Maggio francese e delle bombe italiane, fino alla squallida epopea di Raffaele Cutolo e dei vari mafiosi e tangentisti italiani degli anni ottanta e novanta [Cfr. Jachia P., La canzone d’autore italiana 1958-1997, p. 91]. Vicende legate alla storia d’Italia, ma dove la storia resta solo uno spunto che apre a De André la porta della rielaborazione personale, filtrata sempre attraverso la visione poetica e soggettiva della realtà.

Un canzoniere, il suo, vastissimo, composto nell’arco di quarant’anni, fra il 1954 e il 1998, impossibile da trattare con completezza, ma solo individuandone una, tra le tante, possibili diramazioni. Ovvero l’attenzione alle miserie degli ultimi della terra, la presa in carico delle situazioni di marginalità alle quali dare voce. “Scegliere il punto di vista dei miserabili – scrivono Cosi e Ivaldi -, partecipare del loro dolore e dare loro una voce significa condannare senza appello il sistema economico, politico e culturale che ha favorito quella condizione di marginalità” [Cosi C., Ivaldi F., Fabrizio De André. Cantastorie tra parole e musica, p. 48]. Canzoni a loro modo di protesta. Ma una protesta mai gridata, più spesso sussurrata, ammantata da un velo di struggente malinconia, di pietà, rispetto, amore e compassione per il prossimo. Chiunque esso sia, povero diavolo, donna di facili costumi, vagabondo, soldato semplice che muore in battaglia. Qual è il confine tra normalità e anormalità? sembra chiedersi De André nel tratteggiare le vite di questi personaggi alla deriva. Quale quello tra moralità e immoralità? Che ruolo ha la politica nell’esistenza delle persone, e soprattutto dei più indifesi?

Numerose le canzoni in cui il cantautore prende le difese di individui generalmente considerati “la feccia della società”, un microcosmo di derelitti sui quali egli volge uno sguardo che non giudica ma è comprensivo di un’identità a cui dare voce e dignità di esistere. Questi poveri cristi diventano un’umanità variopinta, un universo paradossalmente animato da piccoli e grandi eroi del viver quotidiano, capaci di trovare pace e libertà proprio stando ai margini, ben al di fuori delle convenzionali regole sociali.

In La città vecchia (in Canzoni, 1974) il cantautore dipinge scene di vita ordinaria ambientate in un quartiere popolare di Genova in cui i più dimenticati da Dio diventano figure care e amate. Pensionati, prostitute, ma anche ladri e assassini, i miserabili verso i quali non è necessario esprime alcun giudizio morale ma semplicemente accettarne l’umanità. Chi giudica è il vecchio professore borghese a cui si preannuncia una vita vuota e infelice, a meno che non impari a intravedere in questi umili le vittime di una società malata e ingiusta:

Se tu penserai e giudicherai/da buon borghese/li condannerai a cinquemila anni/più le spese/ma se capirai se li cercherai/fino in fondo/se non sono gigli son pur sempre figli/vittime di questo mondo

Anche Via del Campo (in Volume I, 1967) la celebre viuzza genovese considerata malfamata è popolata di personaggi ai margini della vita: gli umili, i diversi, i sottoproletari che, però, affrontano la loro esistenza con gioia e serena accettazione, “attraverso una sincera passionalità del tran-tran quotidiano, contro ogni moralismo del senso comune (borghese)” [Michelone, Fabrizio De André, la storia dietro ogni canzone, p. 142]. Protagonista è una giovane prostituta, una delle tante che vivacizzano la galleria di ritratti femminili deandreiani:

Via del Campo c’è una puttana /gli occhi grandi color di foglia /se di amarla ti vien la voglia /basta prenderla per la mano/e ti sembra di andar lontano /lei ti guarda con un sorriso /non credevi che il paradiso /fosse solo lì al primo piano.

Sempre difese le prostitute, come anche in questo caso, mai responsabili di scelte di vita deplorate e a volte obbligate, ma vittime di clienti e approfittatori, la società stessa che condanna chi è senza mezzi a vivere di illegalità. E proprio dal fondo della loro esistenza queste donne ci dicono che

“dai diamanti non nasce niente /dal letame nascono i fior”.

Le prostitute, nell’universo degli afflitti dimenticati da Dio, sono presenze a volte tratteggiate con pennellate leggere, a farne immagini di delicata femminilità, altre sono descritte con toni più cupi. Ma pur sempre presenze vitali, positive e autentiche, cartine di tornasole del perbenismo più sterile.

Come in La canzone di Barbara (in Volume I, 1967), dove una prostituta, o forse solo una giovane molto emancipata, osserva con disappunto le regole della vita matrimoniale e preferisce vivere l’amore fuori dagli schemi, con levità e spensieratezza:

Lei sa che ogni letto di sposa /è fatto di ortiche e mimosa /per questo ad un’alta età/Barbara /l’amore vero rimanderà /Barbara

O come le meretrici raccontate in  duménega (in Crêuza de mä, 1984) che vivono isolate in un quartiere di Genova, ma la domenica possono godere del diritto di passeggiare per le altre zone della città. Una processione laica, la loro, condannata dai benpensanti borghesi che le offendono e deridono al passaggio. Ma i denari degli appalti delle case chiuse servono a pagare i lavori per il molo, di cui tutti sono beneficiari. Inoltre, il più bigotto dei benpensanti, si ritrova la moglie tra le passeggiatrici. Ecco che i borghesi bacchettoni e dalla coscienza sporca ne escono beffeggiati e sminuiti, al contrario delle prostitute, vittime sacrificali, simbolo di marginalità ma paradossalmente superiori in virtù:

Quandu ä dumenega fan u gíu /cappellin neuvu neuvu u vestiu /cu ’a madama a madama ’n testa /o belin che festa o belin che festa /a tûtti apreuvu ä pruccessiún /d’a Teresin-a du Teresún /tûtti a miâ ë figge du diàu /che belin de lou che belin de lou

Quando alla domenica fanno il giro /cappellino nuovo nuovo il vestito /con la madama la madama in testa /cazzo che festa cazzo che festa/e tutti dietro alla processione /della Teresina del Teresone /tutti a guardare le figlie del diavolo /che cazzo di lavoro che cazzo di lavoro

Su tutte queste figure femminili emerge Bocca di Rosa (in Tutto Fabrizio De André, 1966), emblema dell’amore sacro e dell’amore profano insieme. È la donna che si dà all’amore per il solo piacere e non per il guadagno, irridendo e svilendo la mentalità borghese che condanna quel comportamento libero:

C’è chi l’amore lo fa per noia/Chi se lo sceglie per professione/Bocca di rosa né l’uno né l’altro/Lei lo faceva per passione

La sua presenza scatena invidie e gelosie femminili, oltre che desideri maschili, a stento trattenuti. Gli uomini però, nei suoi confronti, non mancano di un gesto pieno di rispetto: il saluto con il cappello in mano sul finale. Di lei si coglie l’aspetto vivace ed esuberante. “Si intuisce subito che De André simpatizza per Bocca di Rosa – scrive Guido Michelone – cantandola attraverso i toni e i sensi sia della malizia sia della tenerezza, come se un vento di primavera esali aria mefitica da un luogo tetro e lagnoso” [Michelone, cit., p.34].

È possibile che la canzone sia ispirata a Brave Margot di Brassens, storia di una giovane pastorella per cui tutti perdono la testa:

Quand Margot dégrafait son corsage/Pour donner la gougoutte à son chat/Tous les gars, tous les gars du village/Etaient là, la la la la la la/Etaient là, la la la la la/Et Margot qu’était simple et très sage/Présumait qu’c’était pour voir son chat/Qu’tous les gars, tous les gars du village/Etaient là, la la la la la la/

 Quando Margot si slacciava il corpetto/Per dar la tettina al suo gatto/Tutti i ragazzi, tutti i ragazzi del villaggio /Erano là, la la la la la la/Erano là, la la la la la la./E Margot, che era semplice e molto buona,/Pensava che fosse per vedere il suo gatto/Che tutti i ragazzi del villaggio /Erano là, la la la la la la/

Delitto di paese (1965), invece, è una canzone cruda in cui la figura della prostituta acquista toni più sinistri, protagonista di una storia maledetta. Insieme al suo protettore decide di uccidere un anziano cliente che, senza soldi per pagare il suo servizio, ci rimette la vita. Per il massacro i due chiederanno perdono, ma verranno condannati alla pena capitale. Nonostante il gesto efferato De André sembra stare dalla parte di questi reietti, per i quali immagina comunque un paradiso. Povera gente che non ha altro mezzo di difesa se non l’attacco, feroce, violento e in questo caso omicida. Come se di fronte alla miseria morale ed economica non ci fosse altra alternativa. Salvo poi scontare questa colpa con la morte, frutto di un potere che semplicemente afferma se stesso e la propria natura oppressiva. Un potere beghino:

E quando furono impiccati /volarono fra i beati /qualche beghino di questo fatto /fu poco soddisfatto.

Anche La canzone di Marinella (in Volume 3, 1968) ha toni più opachi. È la struggente storia raccontata con toni fiabeschi, di una giovane ragazza che trova l’amore intenso e profondo. Alla sua morte l’amato non trova pace. La canzone, che non ha come protagonista una prostituta, nasce, però, dalla lettura di un articolo su un fatto di cronaca realmente avvenuto nel Monferrino: l’uccisione, appunto, di una prostituta sedicenne. La giovane, una ragazza di campagna delle parti di Asti, che ha perduto i genitori ed è stata cacciata dagli zii, per sopravvivenza comincia a prostituirsi fino a che un delinquente senza scrupoli le ruba la borsetta e poi la getta nel Tanaro. In qualche modo De André, con il suo sguardo di benevolenza verso le figure dimenticate dalla Storia, con questa canzone trova il modo di ridare loro dignità. Anche a questa giovane e alla sua vicenda da trafiletto di giornale.

Canzone che dona a De André la prima vera notorietà e che in tanti reinterpretano.

Mina:

Renato Zero:

Tra gli emarginati della società ci sono anche i tossicodipendenti a cui De André dedica Cantico dei drogati (in Tutti morimmo a stento, 1968). Il drogato è senza Dio e senza amore, ossessionato da incubi, presenze macabre che intorbidiscono la sua esistenza. Il drogato vive nella totale fragilità domandandosi continuamente: “come potrò dire a mia madre che ho paura?”. Non ci sono vie d’uscita per lui, se non l’aiuto dell’ascoltatore, interpellato nel finale perché gli mostri una strada:

Tu che m’ascolti insegnami /un alfabeto che sia /differente da quello /della mia vigliaccheria

Canzone autobiografica in cui De André sembra elaborare la sua esperienza di dipendenza:

“Il cantico dei drogati – dice – per me che avevo una tale dipendenza dall’alcool, ebbe un valore liberatorio, catartico […]. Con il cantico mi rappresentavo e mi liberavo dall’imbarazzo di essere considerato un alcolizzato”, [Sassi C., Pistarini W., De André Talk. Le interviste e gli articoli della stampa d’epoca, p. 333].

Il mondo dei reietti a cui De André dà vita è popolato anche da una miriade di marinai, eterni viaggiatori, giovani e vecchi che trascorrono l’esistenza tra le acque, in approdo da un porto all’altro, in un continuo peregrinare alla ricerca di una nuova rotta o di un prossimo attracco.

In Crêuza de mä (in Crêuza de mä, 1984), De André li racconta in un momento di sosta presso la locanda dell’Andrea, ma presto arriva il momento di ripartire, tornare a guadagnarsi il pane nella fatica quotidiana della pesca e del viaggio in mare, il Mare Nostrum a cui l’album è dedicato: “è un’apologia della povera gente in lotta con il destino – scrive Guido Michelone -: chi è costretto a navigare, deve imparare se vuole sopravvivere” [Michelone, cit., p. 46]:

Umbre de muri muri de mainé /dunde ne vegnì duve l’è ch’ané

Ombre di facce facce di marinai /da dove venite dov’è che andate

In D’ä mê riva (in Crêuza de mä, 1984), il marinaio che sta per partire per un nuovo viaggio in mare saluta l’innamorata, al suono delle onde che si infrangono. Il canto è struggente e all’addio all’amata si unisce il saluto alla città che pian piano si allontana: Genova.

E ’nte ’na beretta neigra /a teu fotu da fantina /pe puèi baxâ ancún Zena/ ’nscià teu bucca in naftalina

E in una berretta nera /la tua foto da ragazza /per poter baciare ancora Genova /sulla tua bocca in naftalina

Smisurata preghiera (in Anime salve, 1996) è la canzone in cui De André celebra i valori di quanti hanno scelto di viaggiare controcorrente, al di fuori di qualsiasi maggioranza, in una vita senza compromessi, meschinità, astuzie e falsi perbenismi. Così, il marinaio errante diventa l’emblema di chi viaggia, “in direzione ostinata e contraria”, ben consapevole dei rischi, delle avversità di chi affronta la vita pur solitario, pur senza facili approdi, ma libero e senza costrizioni. Per loro il cantautore leva una pietosa invocazione:

ricorda Signore questi servi disobbedienti /alle leggi del branco /non dimenticare il loro volto /che dopo tanto sbandare /è appena giusto che la fortuna li aiuti /come una svista /come un’anomalia /come una distrazione /come un dovere

Marinai e pescatori. Appartengono alla serie dei personaggi solitari che si muovono secondo logiche individuali, regole proprie che li rendono liberi e per questo spesso mira di perbenisti, borghesi conservatori, ipocriti, rappresentati della legge e delle istituzioni in un paese che appare comunque deviato e dove il potere si rivela solo una forma di autoritarismo vuoto e incomprensibile.

In Il pescatore (in Volume I, 1967), De André racconta dell’incontro tra un pescatore e un assassino, un incontro carico di umanità in cui due persone si avvicinano senza che vi sia un giudizio o una presa di posizione. Un incontro spontaneo, dettato dalla genuinità e da una solidarietà che appare autentica e fraterna, alla quale non servono spiegazioni o preamboli. Una sorta di empatia, una fratellanza fatta di naturale senso della tolleranza verso il prossimo. Del resto, solo chi è senza peccato può permettersi di giudicare e scagliare la prima pietra.

L’arrangiamento della PFM, nel live del 1979, con lo straordinario assolo di violino.

La versione di Fiorella Mannoia

e quella di Piero Pelù.

Ci sono poi le minoranze etniche a cui dare voce. Come la popolazione dei Sioux, i pellerossa o indiani d’America che vivevano nelle grandi pianure centrali degli Stati Uniti e del Canada. Sul finire dell’Ottocento vennero rinchiusi in riserve e poi sterminati dalla violenza di un esercito oppressore, quello degli Stati Uniti.

Fiume Sand Creek (in L’Indiano, 1981) racconta le vicende di questa etnia straziata e condannata alla sparizione. De André narra l’episodio del massacro di un gruppo di indiani nel loro villaggio, bambini, donne, anziani, per mano del colonnello Chivington e si ispira a un episodio avvenuto realmente il 29 novembre 1864 al villaggio di Cheyenne a Arapaho. L’immagine finale dei bambini dormienti sul fondo del Sand Creek fa di questa canzone una amara denuncia contro l’assurdità della guerra e della violenza giocata, il più delle volte, sulla pelle dei più deboli.

La canta Luciano Ligabue, il 12 marzo 2000 in un concerto tributo a De André.

La canta Mia Martini.

La cantano i New Trolls e Loredana Bertè.

Un altro popolo, di cui De André difende storia e cultura è quello dei Rom. Khorakhané (in Anime Salve, 1996) è una parola che indica una tribù di origine zingara, una popolazione nomade che vive senza fissa dimora, quindi priva di vincoli di qualsiasi genere. Una tribù di perseguitati, accomunati agli Ebrei dal medesimo destino di morte, in migliaia persero la vita nei campi di sterminio nazisti. Ma “a forza di essere vento” della loro storia si è persa memoria. La canzone, nel dare voce a questo popolo, fa del loro stile di vita libero e incondizionato una metafora della vita. La vita è come il viaggio di uno zingaro, che si avventura nel modo senza una meta prestabilita. La meta, infatti, è proprio il continuo viaggiare, l’incessante desiderio di spostarsi:

porto il nome di tutti i battesimi/ogni nome il sigillo di un lasciapassare/per un guado una terra una nuvola un canto/un diamante nascosto nel pane/per un solo dolcissimo umore del sangue/per la stessa ragione del viaggio viaggiare

La cantano le voci femminili di Fiorella Mannoia (Genova, 12 marzo 2000)

e Ginevra Di Marco.

Prostitute, marinai solitari, etnie sterminate o emarginate, tossicodipendenti estromessi dalla società, perfino ladri e assassini. Sono i diversi, le persone che vivono al di fuori delle regole, esclusi dal consorzio umano, respinti e allontanati. Prinçesa (in Anime salve, 1996) rappresenta l’incarnazione più esemplare della diversità. La canzone trae spunto dal libro autobiografico Prinçesa, scritto da un trans brasiliano Fernanda Farias de Albuquerque in cui il giovane racconta la sua ricerca “a correggere la fortuna” verso la realizzazione dell’identità femminile, passando attraverso interventi chirurgici, emarginazione e persecuzioni sociali. La diversità e l’accettazione del diverso, infatti, sono tabù all’interno dei sistemi sociali prefabbricati in cui tutto risulti perfettamente etichettato e codificato. Senza rispetto per le complessità, le differenze, ciò che rende unico ogni individuo.

Il tema della diversità torna anche in Una storia sbagliata (1980), canzone dedicata a Pier Paolo Pasolini che diventa occasione per ribadire l’avversione del cantautore verso ogni tipo di pensiero maschilista e intollerante che confezioni a suo gusto, bigotto e perbenista, l’immagine della normalità: Storia diversa per gente normale/storia comune per gente speciale.

Questa ignoranza è la miccia che scatena una aberrante caccia alle streghe.

L’antimilitarismo è un altro dei temi chiave della poetica deandreiana, che si presenta come ripudio della guerra e della sua violenza cieca. Violenza che molto spesso si abbatte, di nuovo, sui più indifesi come le giovani donne che piangono i loro amati uccisi, e i bambini, vittime innocenti. O su coloro che pur nell’atrocità e insensatezza di un conflitto bellico riescono a restare umani. Ne è esempio il soldato Piero. L’antimilitarismo è anche esaltazione del pacifismo, nella dimensione dell’accettazione e comprensione dell’altro. Questa sensibilità e vicinanza si ritrova in canzoni come Andrea (in Rimini, 1978), un giovane che si suicida dopo aver perso l’amore “Ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia”, sullo sfondo della prima guerra mondiale. Il racconto di un amore omosessuale aggiunge al tema del rifiuto della guerra anche quello, di nuovo, della difesa della diversità:

Con la PFM:

Antimilitarista è tutto sommato anche Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (in Volume 1, 1967), su testo di Paolo Villaggio. Un antimilitarismo espresso con il linguaggio della satira e del ridico. Benché la canzone riveli un tono scherzoso il significato che emerge è, però, di nuovo l’avversione alle sopraffazioni, soprattutto se perpetrate ai danni di povera gente. Come la contadina che chiede denari per le sue prestazioni sessuali, che il re, da cialtrone, non intende riconoscere.

È mai possibile, porco d’un cane,/che le avventure in codesto reame/debban risolversi tutte con grandi puttane!/Anche sul prezzo c’è poi da ridire/ben mi ricordo che pria di partire/v’eran tariffe inferiori alle tremila lire

Ma è in La ballata dell’eroe (in Volume 3, 1968) che emerge tutta l’ostilità che De André prova nei confronti delle guerre e di quell’eroismo che porta solo onore alla patria ma nulla a chi la vita ormai ha perduto. Inno pacifista, ha come protagonista un giovane soldato morto e pianto dall’amata. Morto alla ricerca di una verità che, nell’insensatezza della guerra, non può esistere:

E quando gli dissero di andare avanti/troppo lontano si spinse a cercare la verità/ora che è morto la patria si gloria/d’un altro eroe alla memoria.

La straordinaria versione di Luigi Tenco.

Canzone che fa coppia con La guerra di Piero (in Volume 3, 1968), inno alla pace simile alle tante protest song che contestavano la guerra dell’America in Vietnam (su tutte, basti citare Blowin’ in the wind di Bob Dylan). Sulla eco di quei canti anche La guerra di Piero divenne un successo, diversi anni dopo la sua uscita. La canzone, però, deve l’ispirazione al precedente inno antimilitarista Dove vola l’avvoltoio (1958) di Cantacronache, riprendendone alcuni spunti.

Così la presenta Roberto Vecchioni: “Ci sono due uomini – dice -, uno davanti all’altro. Uno spara e si salva. L’altro non spara e muore. Ma chi è che vince? Vince sempre quello che non spara. Quello che non spara è Piero, l’altro non è nessuno” [in Cosi, Ivaldi, cit. p. 75].

La guerra di Piero racconta la storia di un giovane soldato che in un giorno di maggio, avvistato il nemico in fondo alla valle, invece di sparare, si sofferma a riflettere. Ragiona su quanto anche quel giovane possa vivere quell’incontro con immenso terrore. Il nemico, però, non gli usa la stessa cortesia e, velocemente, gli spara. L’istinto di solidarietà umana di Piero lo condanna. La canzone pur senza toni squillanti o slogan, racconta di fatto una storia di fratellanza e condivisione. Sentimenti che la violenza della guerra non perdona e che anzi demolisce, annientando sentimenti e umanità. Che sopravvivono in Piero il cui ultimo pensiero, prima della morte, è per l’amata Ninetta.

Canzone precorritrice dei tanti dibattiti sull’inutilità della guerra e sull’obiezione di coscienza, la canteranno in tanti.

Adriano Celentano:

Modena City Ramblers e Piero Pelù in Appunti Partigiani (2005).

L’avversione alla guerra si coglie anche in Girotondo (in Tutti morimmo a stento, 1968) in cui Faber immagina un mondo violentato dalle guerre e dall’uso delle armi nucleari che lo hanno reso sterile, senza verde, spento, privo anche di un posto in cui i bambini possano giocare. I bambini, unici superstiti in un pianeta distrutto dalla guerra sono le vere vittime e la loro filastrocca diventa un canto allucinato. Un canto di sopravvissuti che hanno incamerato l’odio e il senso di morte e riescono a giocare solo alla guerra, muovendosi in un ossessivo e caotico girotondo:

Abbiam tutta la terra Marcondiro’ndera/giocheremo a far la guerra, Marcondiro’ndà…

La canta anche Roberto Vecchioni:

In Sidún (in Crêuza de mä, 1984) la sofferenza per la morte di una giovane vittima questa volta ricade sul padre che piange il figlio. Sidún significa Sidone, terra fenicia oggi in Libano, territorio che negli anni tra il 1975 e il 1991 era terreno di scontro tra Siria e Israele. Il sottofondo del rumore dei carri armati porta in primo piano la tragicità della guerra, che distrugge alberi, spighe e futuro:

ciao mæ ’nin l’ereditæ l’è ascusa

ciao bambino mio l’eredità è nascosta

Al tema della lotta tra Stato e Mafia, invece, fa riferimento la canzone Don Raffaè (in Le nuvole, 1990). Canzone che denuncia la situazione di sottomissione dello Stato al potere delinquenziale della mafia e nel contempo la situazione delle carceri italiane. Protagonista è sì Don Raffaè, dietro cui si nasconde Raffaele Cutolo che fonda e dirige la Nuova Camorra Organizzata, boss mafioso che vive una condizione di assurda agiatezza all’interno delle carceri di Poggioreale. Ma anche e soprattutto il secondino, costretto ad assecondare le esigenze del boss (“un uomo geniale che parla co’ me”), di cui è peraltro servitore, tanto da richiederne più volte l’intercessione. Per un lavoro al fratello disoccupato, o una casa, o un abito da indossare a una cerimonia. Di nuovo Faber si mette nei panni dei più deboli, degli umili che in uno Stato incapace devono sopravvivere anche così, chiedendo grazia al parastato, alla più insulsa delle organizzazioni criminali.

La canta il rapper Clementino al Festival di Sanremo 2016.

Anche i ribelli, come il protagonista di Storia di un impiegato (1973), sono da annoverare nella collezione dei ritratti di personaggi in lotta contro la società perbenista e borghese, votata al mantenimento dello status quo. L’impiegato protagonista del concept album è un personaggio che agisce in solitudine, un rivoluzionario emarginato e proprio per questo incapace di realizzare il suo proposito. Negli anni bui del terrorismo, il suo scopo resta quello, onesto e giusto, di smascherare gli ipocriti, colpire le istituzioni, mostrare le pecche del sistema facendo emergere il marcio della società borghese con il suo perbenismo, la religiosità bigotta, la cultura fascista, la politica dei compromessi.

Per strada tante facce/Non hanno un bel colore/Qui chi non terrorizza/Si ammala di terrore/C’è chi aspetta la pioggia/Per non piangere da solo/Io sono d’un altro avviso/Son bombarolo. (Il bombarolo)

Samuele Bersani e Stefano Bollani:

L’album è certamente tra quelli che più di altri esprime l’impegno politico di De André, nonostante la storia sia filtrata da un linguaggio evocativo e onirico. L’idea del disco – dice De André – era affascinante: dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico [Castaldo G., Assante E., Fabrizio De André l’opera completa. Storia di un impiegato, p. 6]. Come anche De Gregori o Guccini in quegli stessi anni raccontavano la fine delle speranze di cambiamento che le rivolte del ’68 sembravano realizzare, De André mostra quanto la violenza sia un atto inutile e fine a se stesso. L’impiegato protagonista se ne rende conto solo in prigione, arrestato dopo aver partecipato alla preparazione di un attentato che non va a buon fine: nell’assurdo proposito di far saltare il Parlamento, la sua inadeguatezza lo porta a colpire un’edicola. L’individualità e la mancanza di un progetto condiviso gli rivelano l’enormità della sua goffaggine e l’impossibilità di cambiare le cose. In questo c’è tutto il crollo delle speranze che tutta una generazione di giovani aveva riposto nelle istanze di cambiamento del ’68 e la manifestazione dell’esito drammatico di quelle speranze, sfociate negli attentati, nelle morti assurde degli anni di piombo. Le considerazioni finali a cui il bombarolo giunge rinchiuso in carcere, lo conducono a rivalutare l’idea di uno sforzo collettivo, di una lotta comune necessaria per portare avanti battaglie importanti e decisive.

Tra i brani più significativi c’è Canzone del maggio, liberamente ispirata a Chacun de vous est concerné, della sindacalista Dominique Grange, inno intonato durante una manifestazione a Parigi nel Maggio ’68:

Même si le mois de mai,7Ne vous a guère touché,/Même s’il n’y a pas eu,/De manif’ dans votre rue./Même si votre voiture /n’a pas été incendiée,/Même si vous vous en foutez,/Chacun de vous est concerné.

Anche se il mese di maggio/non vi ha affatto toccati,/anche se non ci sono state/manifestazioni nella vostra strada/anche se la vostra macchina/non è stata incendiata,/anche se voi ve ne fregate/ognuno di voi è coinvolto.

Anche De André ne fa una canzone di lotta e chiama a raccolta tutti quanti, annunciando che chi non partecipa alla Storia, chi non si fa coinvolgere abdica a un dovere sociale, a un impegno che deve riguardare tutti per il bene comune. Faber è dalla parte degli studenti, degli operai, di chi partecipa alle proteste, di chi cerca di far sentire la propria voce per abbattere barriere, conquistare diritti e dare sostanza a un mondo migliore:

per quanto voi vi crediate assolti /siete per sempre coinvolti.

L’idea che si possa inventare un mondo migliore sottende a gran parte delle canzoni di De André, un mondo in cui l’uguaglianza tra gli uomini sia la condizione necessaria affinché scompaiano guerre e violenze, soprusi e ingiustizie sociali. Perché tutti possano avere un posto in cui stare: dagli emarginati, agli umili e agli ultimi, al popolo della strada e dei ghetti, ai diseredati del mondo, prostitute, poveri lavoratori, tossicodipendenti e malati. Matti, solitari e incompresi.

Naturalmente, la molteplicità delle opere e la varietà delle tematiche affrontate dal cantautore genovese sono tali per cui non si possano che suggerire alcune fra le numerose direzioni in cui esse si dipanano, e individuarne forse un tratto comune. Ovvero, una visione laica che le sottende, che nella poetica dell’autore si può tradurre in una massima, non un comandamento e nemmeno un codice, ma qualcosa radicato nel cuore di ogni uomo: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. La consapevolezza che non esista una verità assoluta non può che condurre a un atteggiamento di umiltà e di apertura verso il prossimo. Che è anche la straordinaria capacità di De André di immedesimarsi nell’altro, il più emarginato e disprezzato, addossandosene sofferenze e patimenti. Ribaltare, così, il consueto punto di vista sulle cose, mostrarne le diverse sfaccettature, la prospettiva dal basso, oppure da “oltre il confine prestabilito che qualcuno ha tracciato, ai bordi dell’infinito” (Cantico dei drogati).

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli