Se doveste mettere delle etichette su di me la prima sarebbe essere umano, la seconda pacifista e solo se ne potessi avere una terza sarebbe folksinger.

Joan Baez

 

Joan Baez la leggenda, Joan Baez la poetessa, Joan Baez la paladina dei diritti civili, Joan Baez la canzone di protesta, Joan Baez la voce che vibra. Icona di tante lotte per l’uguaglianza e la dignità umana, mai condizionata da ideologie, ha saputo dare voce a diseredati, oppressi, sfruttati, disperati della Terra, prendendo forza dalle parole di grandi uomini come Martin Luther King, Pete Seeger, Ira Sandperl, Bob Dylan.

Artista straordinaria, con le sue canzoni e le sue lotte ha acceso il fuoco rivoluzionario che dagli anni Sessanta ha reso l’umanità consapevole dei propri diritti e doveri. Quei Sixties colmi di inquietudini e di tanti fermenti, di assemblee, di marce pacifiste, di scontri per i diritti civili, di preghiere per una pace mondiale, di sogni per l’uguaglianza e la democrazia universale. Quei Sixties, lei li ha vissuti con la consapevolezza di dover dare voce a chi non l’aveva. E quel fuoco non lo ha mai spento. Con le sue battaglie per il pacifismo, per le minoranze, per la nonviolenza ha dedicato una vita intera a rendere il mondo migliore.

Joan Baez, la forza delle idee

All’anagrafe Joan Chandos Báez (New York, 9 gennaio 1941) viaggia parecchio sin da piccola. A dieci anni si trasferisce in Iraq con la famiglia e per la prima volta vede la povertà vera. Suo padre riceve dall’Unesco l’incarico di creare un laboratorio di fisica per l’Università di Baghdad. Albert Baez, messicano, è professore di fisica con dottorato in matematica, figlio di un pastore metodista, estremamente dedito al suo lavoro, ma anche dotato di una certa coscienza civile.

Rinuncerà, infatti, a diversi incarichi importanti, per il Ministero della Difesa, finalizzati allo studio e allo sviluppo delle armi atomiche, che condanna: “Mio padre – scrive Joan – aveva cominciato a chiedersi se con una bomba atomica che poteva portare alla distruzione totale, avesse ancora un senso una cosa come la difesa” [Baez, La mia vita. E una voce per cantare, p. 13].

Così, convinto pacifista, rifiuta lucrose offerte che avrebbero assicurato alla famiglia una vita di agi e sceglie la carriera del professore. La madre, Joan Bridge Baez, è scozzese, nata a Edimburgo ma cresciuta negli Stati Uniti: “Mamma era una bellezza bruna, sottile, spigolosa, un po’ vamp. Lei davvero non sapeva di essere bella” [Baez, La mia vita, p. 7]. Joan ha due sorelle, Pauline e Mimi (quest’ultima sarà anch’essa cantautrice e attivista). Ma un elemento fondamentale della famiglia è certamente la zia materna Tia. Nel 1954 sarà lei ad accompagnare le nipoti a un concerto che cambierà loro la vita: quello di Pete Seeger che in quegli anni cantava la musica del popolo, raccontava le storie dei disperati della Terra e le loro battaglie in piena rivolta contro lo star system e l’affermazione del potere dal basso. Ci vorrà qualche tempo, ma il seme era stato gettato. Quello della contestazione. E la musica di Joan partirà proprio da qui. Ma intanto lei ha ancora tanta strada da fare e prove da superare.

Alla scuola di Redlands in California i ragazzi la prendono in giro, per via del colore della pelle e le origini messicane. Non solo lì, anche alla Palo Alto High School. Lei risponde a quel clima di discriminazione con il suo primo atto di disubbidienza civile. Quel giorno a scuola si organizza un’esercitazione di incursione aerea e di attacco atomico.

Una bellissima foto della giovane Joan Baez

Al suono della campanella bisogna alzarsi e tornare a casa. Ma John si rifiuta, resta seduta al suo banco: “Protesto contro questa stupida esercitazione di incursione aerea perché è falsa e proditoria. Resto qui seduta al mio posto” [Baez, La mia vita, p. 35]. Questo le procurerà ulteriore emarginazione. Ma a lei sta bene così. E non tutto il male vien per nuocere: “Fu proprio questo senso di isolamento – scrive Joan–, questo sentirmi diversa che all’inizio mi spinse a coltivare la voce. Ero nel coro della scuola e cantavo da alto, secondo soprano, soprano e anche tenore, a seconda delle necessità” [Baez, La mia vita, p. 20]. In poco tempo va alla ricerca di una voce sua, una voce matura, una voce che sa vibrare. E suona l’ukulele.

Nel 1958 una svolta decisiva. La famiglia si trasferisce a Belmont, vicino a Boston. Il padre viene assunto al Mit di Cambridge. Joan si è iscritta alla Boston University e comincia a frequentare persone che si occupano di musica. Come Debbie Green che le fa conoscere antichi brani della tradizione inglese. Sono le Child Ballad. Tra queste Mary Hamilton, storia di una donna condannata a morte per aver concepito un figlio con il re;

o Come all ye fair and tender maidens, sui pericoli dell’amore;

oppure Silver Dagger, storia di una madre che difende la figlia dalla malvagità degli uomini, armata di un pugnale d’argento.

Infine Geordie (cantata anche da Fabrizio De André:

una ballata che racconta di un condannato all’impiccagione per bracconaggio, la cui fidanzata piange a si dispera chiedendo invano la grazia al giudice [Cfr. Caselli, Joan Baez].

Grazie all’incontro con Debbie, Joan prende il coraggio di esibirsi davanti a un pubblico nei cortili di Harvard. Da tempo lavora sulla sua voce, alla ricerca di un suono personale, e di quel vibrato che da subito la caratterizza. Ma è anche il repertorio che sceglie a renderla insolita nel panorama musicale di quegli anni. Sono gli anni dell’America postbellica, di un american dream fatto di auto sportive, elettrodomestici, vacanze e viaggi esotici. Un mondo perfetto, a uso e consumo di una nuova generazione di giovani cresciuti dopo la guerra. Che ascoltano musica commerciale, prodotta dall’industria dell’intrattenimento. Joan no. Joan si appassiona alla musica folk, quella che racconta di un popolo antico e della sue lotte. Canzoni e ballate che danno voce ai reietti, ai condannati, ai detenuti, agli emarginati. È il folk revival, questo vento che soffia sull’America e solleva polvere, sentimenti forti e storie vere. Come quelle delle Murder Ballads, le ballate degli assassini che uccidono per amore, per vendetta, per ribellione all’ordine costituito. Woody Guthrie e Pete Seeger per primi le cantano, insieme agli spirituals, i gospel, i canti degli schiavi d’America, le canzoni di protesta sociale. Poi arriverà la personalità stralunata di Bob Dylan.

Non solo nei cortili di Harvard, ma anche tutt’intorno ad Harvard Square. È un proliferare di coffee houses, luoghi di ritrovo in cui si beve caffè, si leggono libri e si ascolta musica. Sono il Caffè Yana, il Club 47, il Golden Vanity. Joan si esibisce spesso scalza, con i lunghi capelli neri sciolti, vestiti lunghi, lo sguardo basso, la vergogna ancora di incrociare gli occhi di un pubblico. Un giorno la sente cantare un grande impresario, Albert Grossman, che la invita nel suo night, il Gate of Horn. Quella sera, prima di lei ci sono due miti: la regina del folk Odetta e Bob Gibson. Da Odetta riceverà complimenti e sproni. Da Bob Gibson una proposta che le cambierà la vita: accompagnarlo alla prima edizione di un festival che si rivelerà un evento travolgente nella storia musicale americana: il Newport Folk Festival. È il 1959. Orde di giovani si accalcano per assistere alle esibizioni. Quando Joan intona Virgin Mary Had One Son

e poi il gospel We are crossing the Jordan River

si capisce che quel giorno è nata una stella. Ci tornerà anche l’anno successivo. Poco dopo, a New York, inciderà il suo primo album, Joan Baez (Vanguard Records) e conquisterà il Greenwich Village con i suoi primi concerti, tutti esauriti.

Il Time consacra la sua fama immortalandola in copertina. È così popolare da essere ormai fin troppo mainstream per il mondo underground del Greenwich Village che ormai non la riconosce più. Sembrano passate di moda le sue ballate e le storie d’amore tragico. Così, nel 1962 nell’album Joan Baez in concert qualcosa comincia a cambiare e il brano What have they done to the rain racconta la minaccia nucleare.

È Bob Dylan a mostrarle la strada e indirizzarla verso un nuovo repertorio: canzoni che raccontino il presente, i problemi sociali, la voglia di riscatto e la protesta della povera gente, i diritti negati, i soprusi, le violenze. La prima volta che Joan lo sente è al Cafe Yana di Cambridge, nel 1961. Lui ha appena cantato With God On Our Side, brano che rielabora il tema irlandese The Patriot Game, un’accusa all’ipocrisia della nazione americana e la sua legittimazione all’uso della violenza.

Joan resta trafitta: le canzoni possono veicolare messaggi, colpire le menti, come se fossero proiettili: “Le parole delle sue canzoni le sputava fuori – scrive Joan –. Erano originali e fresche, per quanto brusche e grezze. Lui era assurdo, nuovo e sudicio oltre ogni limite. Quando finì l’esibizione, lo sospinsero verso il mio tavolo e fu lì che avvenne lo storico evento del nostro incontro” [Baez, La mia vita, p. 77].

Insieme canteranno al Festival di Monterey, il 17 maggio 1963 proprio quel brano che aveva sconvolto Joan, With God on your side.

La coppia funziona, la voce graffiante di Bob e quella raffinata di Joan, così diverse parlano però la stessa lingua e il messaggio che lanciano arriva chiarissimo a chi li ascolta. Sono giovani di talento che hanno scelto di fare della canzone il loro impegno politico. E lei, che ha già una certa fama, non ci pensa due volte a dare un’opportunità a questo giovane poeta che le appare subito geniale. Saranno insieme anche al Newport Folk Festival del 1963. Un concerto epico che si chiuderà con un palcoscenico di grandi artisti come Peter, Paul and Mary, Pete Seeger, i Freedom Singers, Bob e Joan a cantare insieme Blowin’ in the wind

e We shall overcome, canzone gospel che diventerà un inno del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.

Quel momento fotografava ciò che nel mondo stava avvenendo: una spinta al cambiamento e alla rivolta dei giovani contro le prevaricazioni e le ingiustizie sociali. Niente avrebbe potuto esprimere meglio quella generazione come The times they are a-changin’ di Dylan: C’è una battaglia fuori/e sta infuriando/Presto scuoterà le vostre finestre/e farà tremare i vostri muri/ perché i tempi stanno cambiando.

Di lì a poco i due saranno insieme anche alla marcia per la libertà, al Lincoln Memorial di Washington dove Joan canta We shall overcome.

Insieme intonano When the ship comes in e altri spirituals.

Quel giorno, il 28 agosto 1963, mentre Martin Luther King teneva il celebre discorso I have a dream, due giovani bianchi erano alla testa della folla e intonavano canti corali: “Per il movimento – disse Harry Belafonte – era importante che due giovani bianchi dimostrassero che non si trattava solo di una questione di neri, ma che libertà e giustizia erano preoccupazioni per tutte le persone responsabili e per tutte le coscienze” [Caroli, Le battaglie di Joan Baez, p. 43].

Ma le carriere e le vite dei due sono destinate a dividersi. Bob non ha tutto l’impeto della protesta che anima Joan, anche se le sue canzoni resteranno per sempre simbolo del dissenso e del cambiamento sociale. E poi c’è la relazione affettiva che si interrompe chiudendo una delle pagine biografiche più intense della vita di entrambi. Lei la racconterà in Diamonds and Rusts: Tu infiammavi le scene/eri già una leggenda/il fenomeno senza maestri/il vagabondo primordiale/ti perdesti tra le mie braccia/E lì sei rimasto/a naufragare per qualche tempo.

Il loro ultimo concerto assieme sarà il 24 marzo 1965. Dylan era all’apice del successo, Joan in cerca di sé. Da tempo impegnata sui temi della nonviolenza, dell’uguaglianza, del rifiuto della guerra in Vietnam, aveva fatto dell’attivismo una parte fondamentale del suo lavoro, a differenza di Bob.

Un fatto grave, tempo prima, aveva risvegliato la sua coscienza: un suo concerto in Alabama era stato proibito ai neri. Così, nel 1962 Joan aveva fatto aggiungere una clausola al suo contratto in cui dichiarava che non si sarebbe esibita in luoghi preclusi ai neri. Di lì a poco avrebbe organizzato il grande evento al Miles College di Birmingham, con una grande affluenza di bianchi insieme alla comunità di colore accorsa per ascoltarla. Bianchi e neri si tenevano per mano intonando We shall overcome. Non solo. Per ribadire la sua vicinanza a quella comunità, in quei giorni partecipava alla messa in una chiesa battista. Invitata a salire sul pulpito intonava diversi brani gospel e spirituals come Swing Low Sweet Chariot.

Ci furono disordini per le strade con la polizia a sparare lacrimogeni contro la folla che si recava in chiesa. Una bomba esplodeva nel suo hotel. Martin Luther King, accorso per dare il suo appoggio, veniva arrestato. Da lì sarebbe partito tutto, la sua voglia di dare voce alle istanze degli oppressi.

Le battaglie di Joan, infatti, sono numerose e tutte combattute con la consapevolezza di stare dalla parte dei diritti negati. Nel 1966 si schiera a fianco di César Chavez, attivista gandhiano che, attraverso atti nonviolenti, sostiene la protesta dei contadini immigrati della California. Canterà per lui We shall overcome durante il suo sciopero della fame nel 1972.

Joan Baez con David Victor Harris (da https://stacks.stanford.edu/image/iiif/dy748tq2718%2F042_Harris_1336_10a_edited-1/full/!1000,1000/0/default.jpg)

Sempre nel 1966 a San Quintino partecipa una veglia di Natale contro la pena di morte.

Da tempo ha conosciuto Ira Sandperl, seguace del Mahatma Gandhi, sostenitore del radicale cambiamento nonviolento, con cui condividere battaglie e istanze. In particolare quella contro la politica americana e la sua sporca guerra in Vietnam. Intraprenderà lo sciopero fiscale, contestando il fatto che parte delle sue imposte fossero destinate agli armamenti.

Joan è tra le prime artiste a dare voce al movimento contro la guerra. Partecipa a raduni di studenti che occupano le università, tiene seminari sulla disobbedienza civile, fonda l’Istituto per lo studio della nonviolenza, con dibattiti, incontri, conferenze. Propone la nonviolenza applicata alla politica internazionale e la sua presenza darà grande visibilità alle forme di attivismo in America e poi in tutto il mondo.

Ma nel 1967 viene arrestata durante un sit-in in Oakland. In quel carcere è detenuto David Harris, leader del movimento contro l’obbligo di leva. Ne nasce una storia di idee e visioni del mondo condivise. E anche d’amore. Uscita dal carcere andrà a vivere con lui in una comune sulle colline di Stanford. Si sposano il 26 marzo 1968, il figlio Gabriel nascerà poco dopo, con David di nuovo in carcere. Per lui incide l’album David’s Album, dedicato a chi come il marito si batte per la libertà. Sarà in giro a cantare, da Denver a New York. Il matrimonio, però, dura solo tre anni. Joan non si risposerà più. Fragile e sospesa scriverà Love Song To a Stranger, esaltazione dell’incontro amoroso non passionale.

La sua carriera, invece procede spedita. Joan incide Baptism e nel 1969 è sul palco di Woodstock, la tre giorni di musica, pioggia e fango che sarà l’evento di un’epoca. Canta in piena notte e tra i tanti brani intona Joe Hill, canzone sulla difesa dei diritti sul lavoro dedicata al celebre sindacalista degli Industrial Workers of the World.

Poi To Bobby, canzone con cui chiedeva a Dylan di tornare a scrivere canzoni di protesta;

Sweet Sir Galahad, ballata scritta in ricordo dello spasimante della sorella che di notte entrava dalla finestra per andare a trovarla;

Drug Store Truck Driving Man che dedica a Ronald Reagan impegnato in una campagna a favore della leva obbligatoria per la guerra in Vietnam.

Infine We shall overcome, la canzone mito, il sogno di riuscire a cambiare il mondo.

Organizza poi diversi tour musicali: in Italia e in Giappone. In Italia arriva per la prima volta nel 1967, il 29 maggio. Da quel concerto trarrà l’album Joan Baez in Italy. Diventa amica dal giornalista Furio Colombo che seguirà a lungo il suo lavoro. Sarà lui a farle ascoltare brani come Un mondo d’amore, o C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones di Gianni Morandi, canzone contro la guerra in Vietnam che lei eseguirà.

E poi anche La donna cannone di Francesco De Gregori e La canzone di Marinella di De André, su richiesta di Gianni Minà.

Durante quel primo concerto in Italia dirà: “Voglio cominciare mettendo in chiaro una cosa. Sento di portare su di me la colpa dell’aggressione americana in Vietnam e combatto contro questa e ogni altra violenza”. Poi intonava Saigon Bride, storia di un uomo di Saigon che saluta la sua sposa e va a combattere. [Caroli, p. 56].

Nel 1970 torna in Italia, all’Arena Civica di Milano dal cui trae il live Joan Baez all’Arena Civica di Milano. L’album comprende brani memorabili come Ghetto, accorata presa di posizione contro i quartieri ghetto nelle grandi città in cui la gente viene abbandonata al proprio destino.

E lo spiritual Kumbaya.

Il legame con l’Italia diventa ancora più forte quando, nel 1970, Joan collabora con Ennio Morricone alla colonna sonora del film capolavoro di Giuliano Montaldo, Sacco e Vanzetti, sulla storia dei due anarchici condannati a morte negli Stati Uniti, nel 1927, in un clima di caccia alle streghe verso lo straniero. Joan interpreta il brano The ballad of Sacco e Vanzetti, il cui testo è tratto dalle lettere di Vanzetti, piene di dichiarazioni sulla forza dell’amore e di condanna verso ogni sopraffazione.

Ma è il brano Here’s to you a diventare mitico nel repertorio di Joan, tanto da trascendere la storia dei due protagonisti e diventare un inno per i diritti civili.

Canterà ancora nel 1989 a Modena, per l’Armenia al fianco di Tracy Chapman e di Francesco De Gregori con cui duetta in The Boxer.

Canzone che Joan canta da sempre, anche con l’autore Paul Simon durante la celebrazione del suo settantacinquesimo compleanno.

Nel 2008 è in Piazza San Marco a Venezia per Emergency a favore di Gino Strada.

Una svolta nella causa dell’impegno per i diritti civili arriva grazie all’incontro con Ginetta Sagan, partigiana, deportata, torturata dalla polizia fascista. Trasferitasi in America dopo gli orrori patiti nella Seconda Guerra mondiale diventa psichiatra e soprattutto una grande attivista. Nel 1972 sarà lei a chiedere a Joan di fondare sulla West Coast la sede di un’organizzazione nata anni prima in Inghilterra chiamata Amnesty International. Joan si butta a capofitto in questa nuova impresa. Andrà a New York, a Parigi per la prima campagna per l’abolizione della tortura.

Con Amnesty sarà anche a Danzica a sostenere Lech Walesa, leader del movimento Solidarnosc. Per lui scrive il brano Happy Birthday Leonid Brezhnev in cui condanna la corruzione in Urss, esalta Walesa e critica aspramente il presidente polacco Jaruzelski.

Tra le esperienze sicuramente più sconvolgenti nella vita di attivista di Joan c’è quella in Vietnam sotto i bombardamenti americani nel 1972. Ospite di un gruppo nordvietnamita assiste ai terribili “bombardamenti di Natale” ad Hanoi: undici giorni ininterrotti di bombe su città e villaggi. Joan ha un registratore su cui restano incise raffiche di mitra, sirene, pianti, lamenti, scoppi di bombe. Quando vengono catturati alcuni piloti americani chiede di andare in visita al campo dei prigionieri, per pregare e cantare per loro Kumbaya e The night they drove old dixie down.

Di ritorno in America inciderà l’album Where are you now, my son? “È il mio dono al popolo vietnamita – dirà – e il mio ringraziamento per essere ancora viva” [Caroli, p. 67]. Ecco il documentario sulla visita di Jane Fonda e poi di Joan Baez ad Hanoi:

Ma la protesta che Joan grida al mondo non si esprime solo nell’attivismo politico, nelle partecipazioni a sit-in, incontri, raduni, ma anche attraverso una voce inconfondibile che canta inni contro la guerra, contro le disuguaglianze, contro ogni forma di dittatura.

L’11 settembre 1973 in Cile il generale Pinochet metteva a segno un golpe militare che sovvertiva il governo democraticamente eletto. Il presidente Salvator Allende in quei giorni veniva ucciso e i sostenitori del suo governo costretti a subire torture indicibili. Joan non può stare in silenzio e incide un album in spagnolo in segno di vicinanza e solidarietà alle vittime del golpe cileno e in aperta protesta contro i fautori di quell’atto criminoso. L’album comprende brani tradizionali dell’America latina come La llorona,

Cucurrucucù paloma,

Guantanamera,

De colores

e canti di protesta come Esquinazo del guerrillero

e No nos moveràn dall’inno sindacale We shall non be moved.

C’è anche un omaggio alla Spagna vittima del franchismo con canzoni come Llego con tres heridas.

In omaggio al Cile non poteva mancare Te recuerdo Amanda di Victor Jara,

e l’universale inno alla vita, Gracias a la vida dell’eroina dell’impegno per il Sudamerica, Violeta Parra.

Joan fa di questo brano una dichiarazione d’amore alla vita e con lei diventa noto in tutto il mondo, interpretato anche con la grande artista Mercedes Sosa, voce degli esuli argentini durante la dittatura, voce dei tanti desaparecidos.

La versione di quel canto prodotta dalle due interpreti è vicina alla tradizione delle danze popolari sudamericane, un inno all’esistenza, alla gioia della vita, nonostante tutto. Un inno che ha travalicato ogni confine geografico e di significato diventando un simbolo contro i regimi dittatoriali di estrema destra ma anche contro l’imperialismo americano che li appoggiava e sosteneva.

Poco dopo l’uscita dell’album, nel 1974, per ribadire il suo impegno, Joan tiene un concerto in Venezuela. Ancora nel 1981 farà un tour in Argentina durante la dittatura militare di Videla, nel Cile di Pinochet, nel Brasile di Figueiredo. In quei Paesi non le è concesso di cantare in pubblico. In Argentina le sparano contro dei lacrimogeni costringendola ad andarsene dall’albergo. In Cile viene organizzato un concerto clandestino da un gruppo di studenti, la polizia circonda l’edificio ma non può fare nulla contro settemila ragazzi che vogliono partecipare al concerto. Qui canta il brano di Sting They dance alone che diventa Cueca sola o Ellas danzan solas in ricordo delle moglie e madri di desaparecidos cileni che ballano sole, senza i loro cari.

Canterà anche l’inno brasiliano per i diritti civili Pra não dizer que não falei das flores (noto come Caminhando).

La sua attività politico-umanitaria non si ferma. È al carcere di Sing Sing al raduno The war is over, mentre nel 1975 partecipa a un grande evento a Central Park per festeggiare la fine della guerra, insieme a Odetta, Pete Seeger, Harry Belafonte.

Nel 1977 Joanie o la “Madonna scalza”, come tutti la chiamano da sempre, debutta in Spagna, a poco più di un anno dalla morte di Franco in un clima ancora piuttosto teso nonostante le prime elezioni libere.  In questa occasione canta No nos moveràn, canzone da tempo censurata, e la dedica a Dolores Ibàrruti Gòmez, segretaria nazionale del Partito Comunista spagnolo, simbolo della resistenza antifranchista: “Uniti nella vita, uniti nella lotta, uniti nella morte, non ci smuoveranno!”. Canta anche El rossinyol, canto tradizionale catalano, dialetto bandito dal franchismo.

Non mancano anche le battaglie in patria dove Joan sostiene la causa degli omosessuali. Nel 1978, infatti, si esibisce contro una proposta di licenziare gli insegnanti omosessuali dalle scuole pubbliche della California. Il leader di questa lotta per i diritti degli omosessuali e la comunità Lgbt, Harvey Milk, funzionario del Comune di San Francisco, primo membro delle istituzioni americane dichiaratamente omosessuale, verrà assassinato per le sue posizioni. Joan sostiene le ragioni della comunità omosessuale anche scrivendo brani come Altar boy and the thief in cui descrive una coppia gay, senza vergogna che cerca di vivere la propria vita.

Nel 1985 partecipa al Live Aid, aprendo la sezione statunitense. La chiuderà Bob Dylan con Blowin’ in the wind. “Buongiorno, figli degli anni Ottanta – dirà Joan –. Questa è la vostra Woodstock ed era attesa da un pezzo. È bello che il denaro che esce dalle vostre tasche diventi cibo per nutrire i bambini affamati” [Caroli, p. 96]. Poi intona Amazing Grace

e We are the world: “Noi siamo il mondo, voi siete quelli che faranno un mondo migliore”.

Prende sul serio quelle parole e fa di tutto per testimoniare l’importanza dell’impegno umanitario. Nel 1986 festeggia i venticinque anni di Amnesty partecipando al tour Cospiracy of Hope con Sting, U2, Peter Gabriel. Nel 1988 è nel tour Human Rights Now. In quell’anno esce anche il suo nuovo album, Recently, con brani di Bono, Dire Straits, Peter Gabriel. Di quest’ultimo incide Biko, dedicato a un’attivista ucciso dalla polizia sudafricana.

Gli anni Novanta si aprono con un nuovo album, Play me backwards (1992), ma è soprattutto l’impegno nei Balcani la sua nuova sfida. Nel 1993 accoglie l’invito di Refugees International e corre verso una Sarajevo martoriata dalle bombe, prima artista ad addentrarsi in quei territori e a esibirsi dallo scoppio della guerra. Tra le macerie della città un violoncellista cerca di risollevare il morale delle persone suonando una dolce melodia. Joan si commuove e intona una struggente Amazing Grace. Per un istante la gente dimentica l’orrore della distruzione in cui è immersa.

L’album Gone from danger (1997) contiene il brano antimilitarista Reunion Hill.

Con l’11 settembre (2001) Joan decide di tornare a far sentire la sua voce, a predicare la nonviolenza nelle arene, nelle piazze, in mezzo alla gente spaventata e devastata dalle nuove guerre che sconvolgono il mondo.

Di fronte al terrore verso l’immigrato rimette in repertorio Deportee di Woody Guthrie, canzone a difesa delle minoranze, i migranti messicani importati per lavorare al costo di due soldi e poi rimpatriati quando non più necessari.

Con Michael Moore organizza un tour nei college americani per spiegare la nonviolenza e muovere i ragazzi a parteggiare per candidati pacifisti. Nel documentario di Moore Slacker Uprising Joan canta Finlandia davanti a una platea di giovani: This is my song, O God of all the nations/A song of peace, for lands afar and mine.

Celebra in un grande evento a Hyde Park i novanta anni di Nelson Mandela intonando la canzone anti apartheid Asimbonanga.

Nel 2008 pubblica l’album Day after tomorrow dove il brano che dà il titolo, scritto da Tom Waits, è una ballata sulla storia di un soldato in guerra che lotta per riuscire a tornare a casa.

Nel 2008 risuonano le sue parole sul San Francisco Chronicle a sostegno del futuro presidente Barack Obama “Se qualcuno può navigare le acque contaminate di Washington, sollevare i poveri e chiedere ai ricchi di condividere la loro ricchezza, quello è il senatore Barack Obama” [Caroli, p. 107]. Se ne pentirà, perché in fondo non è mai stato da lei parteggiare per qualcuno, per un partito o candidato politico. Ciò che Joan ha sempre davvero appoggiato è l’istanza della nonviolenza e chi l’ha praticata e sostenuta, al di là del partito, dello schieramento, dell’appartenenza politica. Nel 2014 torna in Sudamerica, questa volta libera di cantare senza censura e acclamata come un’eroina. Duetta con Leòn Greco in omaggio a Mercedes Sosa, in Cile viene accolta dagli Inti Illimani e duetta con Isabel Parra, figlia di Violeta, con cui interpreta Volver a los 17;

in Brasile duetta con Gilberto Gil e Milton Nascimento. Il tour le ispira un nuovo album interamente in lingua spagnola, Diamantes con molti brani registrati live.

Il 2018 segna la fine dei suoi tour in giro per il mondo: “Dico addio ai tour – dichiara a Repubblica –, sono troppo stancanti e la mia voce non è più quella di una volta”.

A Roma alle Terme di Caracalla canta con Gianni Morandi,

a Colonia duetta con Patty Smith in A hard rain’s a-gonna fall

e ogni volta stupisce il calore del pubblico di ogni età che non vuole fare a meno di lei.

Perché lei è stata al fianco di generazioni e generazioni a combattere sempre nuove battaglie. Senza ideologie, pronta a condannare ogni forma di violenza e di minaccia alla dignità umana, sempre in nome di un valore altissimo attribuito al principio di uguaglianza e di libertà. Coerentemente fedele alle proprie idee, mai soffocate da mode, tornaconti, convenienze. “Per molti anni di carriera – scrive Paolo Caroli – Joan è stata un immigrato irregolare messicano, un anarchico italiano condannato a morte, uno studente iraniano e molti altri ancora. Joan ha offerto la sua voce a chiunque avesse bisogno di una cassa di risonanza per gridare le proprie sofferenze e la propria voglia di fare del mondo un posto migliore” [Caroli, p. 16].

Tra le ultime testimoni di quel tempo in cui cantare significava incidere nella società, nella cultura, nella politica, nella storia, mancherà la sua presenza in giro per il mondo a ricordarci le lotte, le vittorie e le sconfitte che hanno cambiato la società. Ma sappiamo che Jonie non smetterà di cantare e di prestare la sua voce a nuove proteste (non ultima quella contro il “Nasty Man” Donald Trump.

Non smetterà di affermare il proprio impegno nel condannare ogni tipo di ingiustizia o sopraffazione. Di oggi e di domani.

Un interessante documentario la racconta.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli