Judi Collins nel 1968 (https://upload.wikimedia.org/wikipedia /en/e/e5/Judy_Collins_1968.jpg)

Continuo a tornare a queste vecchie canzoni classiche, spesso per trovare nuovi significati e nuove interpretazioni […]. Rappresentano una sfida indicibile: crea qualcosa di buono e senza tempo come quelle canzoni e avrai conquistato il cuore del tuo ascoltatore. Avrai anche aggiunto qualcosa alla storia dell’umanità. Judy Collins

 

Judy Collins (Seattle, 1º maggio 1939) abbandona un futuro da pianista classica per dedicarsi alla musica folk. Diventerà tra le maggiori interpreti e autrici raccontando, attraverso quelle canzoni popolari, e le sue composizioni originali, la storia dell’America e il presente di quegli anni, i meravigliosi e tragici Sixties, incancreniti da guerre e odio razziale. I folgoranti occhi blu di Judy fotografano le trasformazioni politiche e sociali che sconvolgono l’America e il mondo: la conquista di diritti e l’affermazione delle libertà, ottenute a suon di scontri, violenze, preghiere, marce per la pace, uccisioni. Lei non si limita a osservare e offre la sua arte di folksinger per dare voce a quelle battaglie. Per la nonviolenza, contro la guerra in Vietnam, per i diritti delle minoranze. Canta Guthrie, Seeger, Dylan, e questa è da subito una scelta di campo. È cantare la sofferenza, gli emarginati, è cantare gli ultimi. Nelle sue canzoni si riflette inoltre la storia personale. La storia di una donna che fin dall’età di quindici anni combatte contro depressione e dipendenza da alcol. Che combatte e resiste fino a rinascere.

Grazie alla musica.

L’incontro di Judy con la musica avviene molto presto. Nel 1939, a quattro mesi di età, la radio suona Over the rainbow. Il suo nome, le confessa sua madre Marjorie, lo deve a Judy Garland. Suo padre Chuck, rimasto cieco da ragazzo, è conduttore di programmi radio di successo che trasmettono canzoni dal Great American Songbook e letture di Ralph Waldo Emerson. Il nonno Holden Bowler le canta da sempre vecchie canzoni irlandesi. Dall’età di quattro anni viene mandata a lezione di pianoforte. A Denver, in Colorado, la maestra Antonia Brico è certa che Judy diventerà una concertista di successo: a dieci anni debutta in orchestra con il Piano Concerto n.10 di Mozart. Ma non è quella la sua strada. Un pomeriggio dell’estate del 1954, la radio trasmette la colonna sonora del film The Black Knight, una ballata dal titolo The Gypsy Rover. Una vecchia storia d’amore tra una giovane e un uomo misterioso. L’adolescente Judy ne resta rapita. Quella canzone cambierà per sempre la sua vita. C’era un mondo dietro quella canzone, un mondo chiamato “folk music”. Convincerà suo padre ad acquistarle una chitarra, e la sua insegnante ad abbandonare l’idea di lei concertista classica. Quel brano non mancherà mai nei suoi concerti.

Poco dopo usciva l’album American Folk Songs con canzoni incise da Barbara Allen, Woody Guthrie, Pete Seeger, Jo Stafford. Voci e canti che le spalancavano la porta verso quel mondo. “Io imparavo – dice – che questa cosa chiamata folk music esisteva da tantissimo tempo, che le radici del folk erano antichissime, probabilmente cresciute nella tradizione dei trovatori, che cominciava prima ancora dell’avvio della Storia” [J.Collins, Sweet Judy blue eyes, p. 24].

Ma l’adolescente Judy impara anche, molto presto, la solitudine e la sofferenza che portano alla depressione e a un tentativo di suicidio. Impara anche, dolorosamente, gli effetti dell’alcol e delle anfetamine, da cui suo padre è dipendente.

Dal 1955 la passione per la musica folk si diffonde in tutto il Paese. Judy va alla ricerca di testi, spartiti. Al Denver Folklore Center trova vecchie registrazione di canzoni folk inglesi, canti dei marinai. Ancora non sa che nei locali di New York e San Francisco solitari cantautori si esibiscono con la loro chitarra. Ma quello è il suo destino: “Sapevo che dovevo cantare quelle canzoni dolci e appassionate – dice -. C’erano canzoni sulla natura umana, canzoni politiche, canzoni dei trovatori da tempo dimenticati, canzoni di guerra e pace, di amore e crepacuore” [C., p. 39].

In quell’estate Judy si innamora di Peter Taylor, lavora allo Sportsland Valley Guest Ranch come cameriera, una sera intrattiene i clienti cantando canzoni folk. Poco dopo resta incinta di suo figlio Clark, che nasce nel 1957. Ora serve un lavoro vero. È Peter a spingerla verso la carriera della folksinger. Un’audizione al Michael’s Pub le fa guadagnare il suo primo impiego: “La stanza era silenziosa eccetto per la mia voce e la chitarra. Quando ebbi finito, applausi fragorosi riempirono il locale” [C., p. 49].

Cinque notti a settimana, cento dollari di paga: Judy è una professionista. Guadagna popolarità e qualche soldo ma, sera dopo sera, l’alcol diventa un compagno sempre più devastante.

Nel 1960 suona regolarmente nei locali del circuito folk, dall’Exodus, al Gate of Horn, al Michael’s Pub, al Gilded Garter. Con lei ci sono le maggiori interpreti femminili, tra cui Miriam Makeba e Odetta. Senza quest’ultima il movimento folk non sarebbe nemmeno esistito: “Vidi in lei – dice – la promessa di un mondo migliore per le donne, per i cantanti, per i neri, per i bambini, per tutti” [C., p.73]. E poi Joan Baez. “Joan era una voce straziante e gloriosa – dice –. Sceglieva soprattutto canzoni tradizionali. La fotografia sulla copertina del suo primo album ha catturato la sua essenza, regina del movimento popolare, scintillante e dai capelli scuri. C’era quel dolore nei suoi occhi, e la sua voce saliva come santi che ascendono” [C., p. 71].

Ma è New York, il Greenwich Village, il centro della cultura folk. I locali nascono tutti attorno all’Università. Bob Dylan suona le sue canzoni a ogni angolo. È lui a scriverle. Canzoni che parlano della guerra, di politica, dei problemi della nazione. “Le sue canzoni – scriverà Judy – sono così prive di qualsiasi tentativo di intrattenimento che al confronto fanno apparire sbiadito tutto il resto” [C., p.125].

A seguito della sua partecipazione a uno show televisivo, dove con Anathea mette in luce la splendida voce da soprano, Judy ottiene, nel 1961, il suo primo contratto con la Elektra e il suo primo album, Maid of constant sorrow.

Il disco presenta i brani che Judy ha raccolto durante le sue ricerche, che costituiscono il fondamento del suo repertorio: “Credo che questo album definisca il mio amore per le persone, la politica e la vita stessa – dice –. Ci sono canzoni sulla guerra, sulla passione che affiora dalle nostre antiche credenze e dalle speranze più primitive; canzoni sull’agonia dei giovani che muoiono, in tutto il mondo, continuamente; e anche sul miracolo” [C., p.90]. Diverse sono dedicate al padre e alle sue origini irlandesi: Bold fenian men e The rising of the moon onorano il popolo irlandese e la sua lotta per la liberazione dal giogo inglese.

Wars of Germany riguarda la tragedia della guerra vista dagli occhi degli ultimi,

mentre Tim Evans racconta un’altra forma di violenza cieca: la pena capitale. Protagonista è un uomo condannato a impiccagione per l’omicidio, non commesso, della moglie e della figlia neonata, nella Londra del 1950.

Ci sono poi canzoni sulle prove e i trionfi dell’amore. Il traditional inglese The Prickilie Bush, racconta di una giovane donna che sta per essere impiccata a meno che il suo amore non ripaghi un suo debito;

https://www.youtube.com/watch?v=KB_7A3DxDvI

Sailor’s life, storia di amanti lontani per lavoro.

Il folk scozzese Wild mountain thyme combina passione per la natura e una love story tra un innamorato e una giovane indecisa.

Come Nina Simone anche Judy resta colpita dalle canzoni di Jaques Brel che una sera ascolta in un club di New York e poi alla Carnegie Hall. Alla chitarra ripete gli accordi di Marieke

e della Chanson des vieux amants, che entreranno nel suo repertorio.

Il sesto album, In my life, inizierà con la versione inglese di La Colombe, canzone antimilitarista scritta da Brel contro la guerra d’Algeria.

Judy ascolta canzoni, conosce nuovi artisti e continua a seguire quelli che ritiene geniali, come Dylan. E prepara il suo secondo album, Golden apples of the sun. Alla chitarra c’è Walter Raim, la causa della fine del suo matrimonio con Peter. A partire dall’aborto, allora illegale, di un figlio illegittimo, seguito da una lunghissima causa per l’affidamento del figlio Clark. Da profonde crisi depressive e vani tentativi terapeutici.

Judy si è conquistata la fama di artista folk, interprete di antiche ballate tradizionali, ma in questo secondo album prende alcune piccole deviazioni che includono brani più contemporanei. Golden apples of the sun è ispirato al poema di William Butler Yeats The song of wandering aengus, basato su leggende celtiche: la storia d’amore tra un dio della mitologia irlandese e una fanciulla mortale.

Ricompaiono i canti dei marinai, tra i quali Bonnie ship the Diamond, che celebra le imprese della baleniera Diamond. Scritto forse in occasione del suo primo viaggio (1812) mentre salpava alla volta della Groenlandia.

Poco dopo, con altri grandi artisti, è invitata a esibirsi in uno speciale evento televisivo per il Presidente Kennedy, Dinner with the President, dove per la prima volta canta il brano pacifista Turn! Turn! Turn! di Pete Seeger che inciderà nel suo terzo album.

Mentre lo prepara, conduce una trasmissione radiofonica in cui intervista grandi artisti e si avvicina ai movimenti per la nonviolenza: era necessario affrontare i problemi reali della società americana anche attraverso la musica. “Intorno a noi – racconta – c’era una coscienza sociale che si stava risvegliando, contro la guerra in Vietnam, contro la segregazione, riguardo i problemi di lavoro, il blocco sindacale, l’immigrazione. Questi temi hanno ispirato l’espressione artistica e l’impegno politico” [C., p. 136]. I tempi stavano davvero cambiando.

Così Judy Collins 3 include Deportee, canzone di Guthrie sul dramma dei lavoratori messicani sfruttati,

e Bullgine Run, altra canzone sul lavoro dei marinai,

dal vivo davanti al presidente Kenndy,

ma anche diverse canzoni d’amore. The Hills of Shiloh parla di una donna che vaga cercando il suo amante, perso nella battaglia di Shiloh, nella guerra civile americana del 1862;

Farewell ha le dolci melodie delle prime canzoni di Dylan,

in contrasto con la cruda Masters of war

e The lonesome death of Hattie Carrol, ispirata all’uccisione di una donna afroamericana, nel 1963, da parte di un bianco ubriaco, condannato poi alla misera pena di sei mesi di carcere.

Il disco è il prodotto dell’esperienza al Greenwich Village, a contatto con i giovani cantautori e le angosce del presente. “Era ancora il tempo della segregazione – dice –; il Voting Rights Act era un sogno non realizzato. Nella maggior parte del Paese non era possibile registrarsi in un hotel bianco se si era di pelle nera, o essere guardate tranquillamente con un uomo di colore se si era una donna bianca. In sedici stati americani la legge proibiva ancora i matrimoni misti. La comunità della musica popolare sembrava essere uno degli unici posti in cui era normale stare insieme bianchi e neri” [C., p. 143]. L’uccisione di John F. Kennedy, il 22 novembre 1963, getta il Paese nello sgomento. Nessun concerto, niente musica in quei giorni, solo preghiere e pianti.

Nel 1964 Judy decide di prestarsi all’impegno politico per la causa dei neri al voto nella regione del Mississippi. Partecipa alle attività del Council of Federated Organizations e del Congress of Racial Equality per assicurare l’applicazione della legge sui diritti di voto negli stati con segregazione razziale. Proprio nel Mississippi, poco prima tre giovani attivisti erano stati assassinati dai militanti del Ku Klux Klan. Il terrore correva lungo le strade. “Potevo sentire la violenza e l’odio che incombevano nelle città che attraversavamo – rammenta –, facce bianche premute sulle finestre, uomini bianchi in piedi rigidi nei loro cortili, che guardavano da dietro i loro recinti, gli occhi ci avvertivano di andare a casa, dicendoci che non avremmo concluso nulla” [C., p. 162]. Successivamente il suo impegno sarà rivolto alla realizzazione di un album per raccogliere fondi per Women Strike for Peace, associazione femminista e pacifista di New York. Con l’aiuto di grandi artiste come Odetta, Joan Baez, Mimi Baez, Janis Ian, Judy crea Save the children – Songs from the earths of women, evento in cui insieme cantano Legend of a girl child Linda.

Infine, protesterà contro la guerra in VietNam cantando ai congressi e alle manifestazioni.

Lo stesso anno Judy si esibisce nel suo primo solo concert al Town Hall da cui viene tratto l’album The Judy Collins Concert. Ci sono canzoni di Johnny Cash, Neil Young, Elvis Presley. Canzoni come Red-Winged blackbird, sul duro lavoro in miniera,

e Coal tattoo, altra storia di minatori che perdono il lavoro.

E poi Medgar Evers lullaby, ninna nanna per il figlio di Medgar Evers, vittima di odio razziale.

Compaiono anche i brani tradizionali tipici del repertorio di Judy, come Bonnie boy is young, storia infelice di una donna e un ragazzo più giovane morto diciottenne;

Wild rippling water, storia di due amanti sulla riva di un fiume.

Judy Collins Fifth Avenue è il successivo album. Nasce da tanti stimoli, primo fra tutti l’ascolto di Mr. Tamburine man di Dylan a Woodstock.

Di Dylan registra anche le love songs Tomorrow is a aling time

e I’ll keep it with mine.

E poi l’impegno per le minoranze. Nell’album, infatti, si trovano pezzi come In the heart of the summer del cantautore di protesta Phil Ochs, visione di una città in fiamme devastata dagli scontri tra bianchi e neri.

E Thirsty boots, di Eric Andersen, canzone sul movimento per i diritti civili.

Non mancano i brani tradizionali, come So early, early in the spring, che rappresentano il fondamento del repertorio di Judy e anche una delle ragioni del suo canto: quella di preservare una memoria.

“Le canzoni tradizionali non sono nate dal niente – spiega –. Qualcuno da qualche parte ha inventato la melodia attraverso cui raccontare una storia, e quella storia è rimasta. Queste canzoni sopravvivono nella memoria di una cultura perché raccontano storie di emozioni ed esperienze universali, di amore, crepacuore, lutto, abbandono, vittoria e sconfitta, e perché sono adattabili a così tante epoche, a così tante persone. Una persona potrebbe aggiungere un verso; un’altra cambiare di poco una melodia. Questo è ciò che chiamiamo il processo popolare, in cui si prendono in prestito spunti per adattare il canto al tempo, alla persona, agli eventi” [C., p. 186].

Durante la registrazione del sesto album, In my life, il chitarrista Richard Fariña, muore in un incidente motociclistico. Aveva appena registrato Hard lovin’ loser, autore del testo con Mimi Baez. In questo album Judy si rivela vera scopritrice di talenti. Dopo aver ascoltato alcuni brani dello sconosciuto cantautore Leonard Cohen, che solo successivamente firmerà un contratto con la Columbia, decide di inciderli. Sono Suzanne

e Dress rehearsal rag, canzone brutale sul suicidio.

Insieme canteranno Hey, Thats No Way To Say Goobye.

Anche Judy, come diverse artiste del panorama internazionale, è affascinata oltre che dalla canzone francese, da quella tedesca di Weill e Brecht.

Incide, infatti, Pirate Jenny, dall’Opera da tre soldi.

Infine Marat/Sade, spettacolo di Peter Brook con canzoni sulla Rivoluzione francese.

Judy è pronta per realizzare il suo capolavoro, l’album Wildflower. Ci sono raffinate suggestioni come la ballata trecentesca del fiorentino Francesco Landini, Lasso! di donna vana innamorato,

e un brano che diventerà una hit internazionale e le farà vincere il Grammy Award: Both sides now. Lo scrive una sconosciuta cantautrice canadese, Joni Mitchell, resa celebre dall’incisione di Judy, di nuovo talent scout.

Ma la forza dell’album viene anche dalle prime sue composizioni originali. Canzoni sulla nascita, lo scorrere e la fine di un amore. Sono Since you’ve asked,

Albatross

e Sky Fell.

Who knows where the time goes, dal titolo di una canzone di Sandy Denny, leader dei Fairport Convention, è l’album che racconta un periodo che travolge la Storia di eventi ineluttabili. “Il coinvolgimento degli Stati Uniti in Vietnam si era trasformato in un disastro totale e stava facendo a pezzi il Paese – dice –. Martin Luther King Jr., nel quale avevamo investito tanta speranza, era stato assassinato a Memphis il 4 aprile. Il giorno dopo il suo assassinio Robert F. Kennedy fece uno degli ultimi discorsi della sua vita in un incontro politico a Indianapolis, inizialmente inteso come una manifestazione per la sua corsa alla presidenza, aveva poi ricordato al pubblico in lacrime, bianchi e neri in lutto, che anche lui aveva perso un fratello” [C., p. 6]. C’era la musica, colonna sonora di tanti giovani che marciavano contro la guerra, che contrastava il disinteresse e l’idealismo romantico di chi ancora sperava, o di chi si era rifugiato nella droga.

In quel momento la rivista Life raccontava l’artista Judy Collins come “la voce gentile in mezzo alla tempesta”, con l’idea che la sua musica potesse essere in netto contrasto con i conflitti violenti, sociali, culturali, politici e militari, che soffocavano l’America.

In realtà tutta la violenza di quegli anni lei la tratteneva dentro, mostrando esternamente quella voce e quell’immagine delicata: “Non mi rendevo conto quanto stessi camminando su un confine. Sapevo solo che nonostante tutto il successo stavo scendendo nell’incubo dell’alcolismo” [C., p. 258]. La vera tempesta era in lei.

In Who knows where the time goes Judy canta brani di autori che sanno mostrare le tragedie di uomini, donne, lavoratori, emarginati. Come Story of Isaac, canzone contro la guerra,

Bird on the Wire di Leonard Cohen

e I pity the poor immigrant di Bob Dylan.

Ma anche sue composizioni come My father dedicata al padre da poco mancato.

Ritornano i brani tradizionali come Pretty Polly, sull’omicidio sanguinario di una giovane donna. “Sono sempre stata attratta da questo tipo di canzoni – dice – perché parlano delle spaventose violenze che sono state perpetrate contro le donne da così tanto tempo” [C., p. 244].

Chiude l’album Someday Soon, canzone che le ricorda gli anni sulle montagne del Colorado, dove lavorava nei locali dei cowboy.

Tanto successo ottiene quanto nel profondo discende. La musica le dà la forza di reagire e cantare a teatro le canzoni di Solveig per il Peer Gynt di Ibsen le dà nuovi stimoli.

Whales and Nightingales è un album che esprime anche il suo pensiero ecologista. Le canzoni scelte “esplorano il potere della natura nelle nostre vite, l’idea che la vita sia sacra e che il pianeta, nella sua bellezza e fragilità, sia come le grandi balene, cacciate fino all’estinzione” [C., p.279]. Quella primavera avverrà la prima celebrazione della Giornata della Terra, un evento importante nel sollevare una coscienza ambientale. Il centro dell’album è Amazing grace, canzone scritta nel Settecento da un ex capitano di navi negriere che, convertito al cristianesimo, si batte per la fine della schiavitù. La versione di Judy voleva rappresentare un richiamo a quei valori in un momento di sconvolgimento sociale.

Live:

Nell’album compaiono altri brani tradizionali come lo scozzese Farewell to Tarwathie,

Simple Gift

e Gene’s song.

The patriot game è una canzone di protesta irlandese  dedicata a un giovane militante dell’Ira morto nel 1957.

Nel 1972, attiva nei movimenti femministi, la sua passione per la musica classica riemerge con la realizzazione di un film sulla vita della sua maestra di pianoforte Antonia Brico, pioniera, sua mentore, e tra le prime direttrici d’orchestra. Il film viene celebrato al Sundance Festival e aprirà il Women’s Film Festival al Whitney Museum di New York.

Parte I

Parte II

https://www.youtube.com/watch?v=s9vpQz6zuIc

Nell’album Judith Judy ritorna ai brani tradizionali come I’ll be seeing you, dal Great American Songbook,

ma ci sono anche incursioni nel mondo del musical, da cui proviene il pezzo Send in the Clowns,

e nuove originali composizioni come Song for Duke, scritta dopo il funerale di Duke Ellington

e Born to be breed, dedicata al figlio Clark, appena sedicenne, ma già con diversi problemi di dipendenza da droghe e alcol.

Nel 1976 Bread and Roses è il titolo del nuovo album che include brani di vari autori: da Duke Ellington a Elton John. Ma soprattutto Victor Jara, ucciso durante il colpo di stato cileno del 1973, che Judy ricorda cantando la sua Plegaria a un Labrador.

Il lavoro, la fama e la tranquillità sentimentale non calmano, però, la sua sofferenza: “Avevo avuto così tanto successo nella mia carriera – dice –, eppure avevo una richiesta: poter bere fino alla morte [C., p. 307]. Sapevo che stavo morendo, alcuni giorni velocemente, a volte lentamente. Contemplavo il suicidio ogni giorno” [C., p. 313]. Si disintossicherà dall’alcol e dai pensieri di morte al Chat Rehablitation Center for Alcoholics, all’età di 38 anni. È sobria quando suo figlio, alcolizzato, muore per asfissia, nel 1992.

Per lui registrerà Hard times for lovers con brani come la ballata Desperado,

e classici come Where or when.

Seguiranno tour e altri dischi, Times of our lives e Running for my life, e Home again, nuovi concerti, anche attualmente, e una propria etichetta musicale, la Wildflower records per permettere alla musica di diffondersi ed essere parte della vita delle persone. Perché “dopo tutti questi anni – dice – io credo ancora che la musica possa cambiare il mondo, e fintanto che ci sarà la musica, i sogni non moriranno mai” [C., p. 330].

In questa puntata della trasmissione dedicata alla musica folk, Rainbow Quest, Judy Collins canta e discorre di canzoni con Pete Seeger.

https://www.youtube.com/watch?v=BL7jtkDI__U

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli