Claudio Lolli, da https://viaggionelloscriptorium.files.wordpress.com /2016/04/claudio-lolli.jpg?w=550

Non è autore da classifica, ma nello stesso momento è in grado di attirare le grandi masse. Ha fatto dischi che hanno venduto poche migliaia di copie ed altri decine e decine di migliaia. Qualcun altro non sarebbe uscito vivo da questa schizofrenia industriale. Ma lui sa come sopravvivere. Ha passato tutta una vita ad imparare come salvarsi la vita. Ride di questi piccoli numeri. Jonathan Giustini

 

Claudio Lolli è poesia moderna, modernissima. È stato la voce di una generazione che scriveva sui muri: “decreto lo stato di felicità permanente”, quando invece si era infelici, fuori e dentro le università, giovani senza un futuro, quelli del Movimento 77. Ma il 77 con il suo rigurgito di violenza, sarà solo il punto di caduta di un processo che da molto prima stava sconfinando il Paese verso il degrado. Politico e culturale.

Lolli scriveva canzoni come cronache degli eventi tragici di quegli anni, e così li inscriveva nella memoria collettiva. Cronaca e poesia, un connubio che è riuscito a pochi.

Da dove partire? 1972-1973: gli anni della rivoluzione tradita, la stagione delle riforme mancate. Quelle che avrebbero potuto intervenire sulle disuguaglianze sociali ed economiche, acuite dalla crisi petrolifera. Nel 1973 determinerà la quadruplicazione del prezzo del prodotto e nel lungo periodo un fatale aumento del debito pubblico. Conseguenza anche di una pressante ricerca del consenso attuata attraverso una politica spregiudicata, a guida democristiana, che si esauriva nella “concessione di benefici alle singole corporazioni”, oppure con un grande sperpero di investimenti pubblici [Guido Crainz, Il paese mancato, p. 428]. Ondate di scioperi stavano sommergendo il Paese.

Il 1974, poi, un anno cruciale. La strage neofascista di Brescia che devastava un corteo sindacale, con i suoi morti faceva intuire quanto la storia si accanisse sugli anonimi, le persone comuni, la gente qualunque che, dal basso, presto avrebbe dato vita a nuove manifestazioni contro i vertici di un sistema politico malato e corrotto. In Piazza della Loggia, il 28 maggio, il terribile schianto uccideva otto persone e ne feriva numerose altre.

Poco dopo, il 4 agosto, una bomba esplodeva a bordo del treno Italicus, all’altezza di San Benedetto Val di Sambro. Risultato: dodici morti e più di quaranta feriti. Rivendicazione: Ordine nero. “I neofascisti non nascondono di essere gli esecutori – scriveva Giorgio Bocca –. Un volantino di Ordine nero proclamava: Giancarlo Esposti è stato vendicato. Abbiamo voluto dimostrare alla nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo, in qualsiasi ora, in qualsiasi luogo, dove e come ci pare. Vi diamo appuntamento per l’autunno; seppelliremo la democrazia sotto una montagna di morti” [Giorgio Bocca, Gli anni del terrorismo, pp. 291-293].

Diverse canzoni, in quegli anni, non potevano che farsi cronaca di questi fatti: racconti, testimonianze, diapositive, fotografie, cartoline da un’Italia del terrore.

Claudio Lolli, bolognese, esordiente per la Emi nel 1972 con l’album Aspettando Godot, suo modello dal principio erano le canzoni politiche di Ivan Della Mea, ma il suo approccio, in realtà, si lasciava alle spalle l’intento più propriamente ideologico. La canzone serviva a capire il mondo piuttosto che darne un’interpretazione concettuale. Un mondo, spesso, fatto di esistenze mediocri, dominato da una classe sociale depositaria di valori e stili di vita disprezzati dai giovani della sua generazione. In quel primo album Lolli scriverà Borghesia, ispirandosi alla sua famiglia, piccolo borghese e ottusa, corrotta da cinismo e arroganza, chiusa nei valori insipidi del guadagno e della messa domenicale:

Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia/Non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia

L’amicizia, sembra essere l’unica possibilità di salvezza, in questo mondo di affetti aridi. Lolli la racconta nella struggente Michel:

Ti ricordi, Michel di come era esclusiva la tenerezza che ci univa, e accompagnò la nostra infanzia fino ai giorni della nuova realtà.

Ma c’è anche lo smarrimento di fronte al vuoto e agli orrori della società moderna, dove nelle città i bambini muoiono per lavoro, dove si vive come morti nell’Angoscia metropolitana:

Le baracche hanno lanciato, il loro urlo di dolore, /circondando la città, con grosse tenaglie di vergogna./Ma il rumore delle auto, ha già asfissiato ogni rimorso, /giace morto sul selciato, un bimbo che faceva il muratore. /E la voce che mi esce, si disperde tra le case, /sempre più lontana, se non la conosci, è l’angoscia metropolitana.

Nulla sembra cambiare in questo Paese. E nelle elezioni politiche del 20 giugno 1976, nonostante il Pci ottenga il suo più grande successo di sempre, non basta a superare la Democrazia Cristiana che esce dalle consultazioni con diversi voti in più e la possibilità di dare vita a un nuovo governo. Che di nuovo ha ben poco, rinnovando, infatti, la carica di primo ministro a Giulio Andreotti. Questo governo – al quale dall’esterno concorre anche il Pci astenendosi – si distinguerà per un programma restrittivo, per rispondere alla nuova crisi economica che colpiva il Paese, con le industrie costrette a chiudere, gli scioperi, le proteste all’Alfa Romeo, alla Pirelli, alla Fiat. Il Pci si farà interprete di una politica di “solidarietà nazionale” e di austerity nell’intenzione di portare l’Italia fuori dalla crisi.

Ma già nel luglio 1975 Francesco Alberoni preannunciava una imminente esplosione di rabbia giovanile che si sarebbe manifestata all’interno delle università, “aree di parcheggio di disoccupati intellettuali che tirano avanti ancora per un po’ attraverso borse di studio e sussidi e poi con lavori precari”. [Francesco Alberoni, Scoppierà nel 1978 la contestazione n. 2 in Corriere della Sera, 6 luglio 1975, p. 2].

Nelle università, e anche nei diversi spazi giovanili aggregativi, stavano avvenendo azioni di violenza gratuita. Saccheggi, come al Parco Lambro di Milano, nell’estate del 1976, dove si svolgeva il Festival del Proletariato Giovanile, organizzato dalla rivista Re Nudo. Era il più importante evento musicale e controculturale italiano dell’epoca, ma anche la “Woodstock italiana” mostrava quanto la violenza stesse sopravanzando [Cfr. Romano Màdera, Ma non è una malattia, p. 27]. Una nuova contestazione, una nuova ondata di collera generazionale. E stavolta, accanto agli studenti, “ci saranno quelli che dalla scuola sono già usciti e sono andati a formare il grande esercito della disoccupazione intellettuale. I più frustrati, i più delusi, i senza speranza. I più pericolosi” [Gabriele Invernizzi, Da grande farò l’arrabbiato, in L’Espresso, 4 gennaio 1976, pp. 14]. Con le università diventate come parcheggi temporanei per intellettuali e studenti, “in una situazione di estraneazione privilegiata: dove il privilegio è quello di non lavorare, di avere tempo libero, eccetera, e dove l’estraneazione consiste nella completa separazione e inutilità sociale […]. Questo spiega la devianza, i comportamenti anomali, i surrogati mistici, il teppismo, la droga”. [Gabriele Invernizzi, Da grande farò l’arrabbiato, in L’Espresso, 4 gennaio 1976, p. 16]. Sullo sfondo, azioni di violenza inaudita mettevano in allarme sulla pericolosità di quelle masse giovanili: il massacro delle due ragazze del Circeo, l’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Un malessere reso ancor più acuto dalla diffusione sempre più inarrestabile della droga, l’Lsd e l’eroina in particolare, comparsa in Italia dall’inizio degli anni Settanta. Droga, solitudine, suicidio, dissenso, indifferenza, ecco le nuove malattie dei giovani, per i quali “speranza e illusioni si restringono a un orizzonte tragico – scriveva Walter Tobagi -, si trasformano in spinta di distruzione e autodistruzione, che poi significa sparare al nemico o iniettarsi una dose di eroina” [Walter Tobagi, Ricordando senza rabbia il ’68 lontano, in Corriere della Sera, 2 febbraio 1978, p. 3]. Nessuna differenza tra il giovane brigatista rosso che si arruolava per uccidere, pronto a sua volta a essere ammazzato, e l’eroinomane che si distruggeva di droga.

Inevitabile il disincanto, in un presente sempre più incomprensibile, caratterizzato da “spaesamenti diffusi e paure sia del presente che del futuro” [Guido Crainz, Il paese mancato, p. 559].

Crollava un universo di ideologie, di aspettative, di possibilità di un futuro diverso per quanti lo avevano sognato, nel sognare la rivoluzione dal basso e la centralità della classe operaia. L’industria e la fabbrica, proprio in quel finire degli anni Settanta, stavano andando in crisi.

Il 1° febbraio 1977 i giovani si mobilitavano a Roma, in seguito a un’irruzione di neofascisti all’Università. Un episodio che farà dilagare il malcontento e la rivolta anche in altre città italiane. Sono i giovani del Movimento del 77 con la sua doppia anima: quella creativa, fricchettona, controculturale e underground degli indiani metropolitani e quella violenta dei collettivi autonomi, le frange più estreme dei movimenti extraparlamentari di sinistra. Organizzeranno veri e propri blitz, chiamati sfondamenti, che li porteranno spesso a contatti violenti con le forze dell’ordine. Contesteranno i valori fondamentali della borghesia come quelli della patria e della famiglia, sostituiti con una pratica alternativa della famiglia allargata (le cosiddette Comuni), la libertà sessuale, la liberalizzazione delle droghe.

Una grande rivoluzione nel sistema della comunicazione contribuiva alla vitalità del Movimento: nascevano le prime etichette discografiche indipendenti (Ultima Spiaggia, Cramps, Harpo’s Bazar, Italian Records, Ira, Materiali Sonori) e le prime radio private per effetto di una sentenza della Corte Costituzionale. Asseriva l’incostituzionalità dell’articolo 1 della legge del 1975 che concedeva alla Rai un monopolio anche a livello locale. Le nuove radio democratiche divennero presto luogo d’incontro in cui voci diverse poterono esprimersi, sperimentando, per la prima volta, le grandi potenzialità di un mezzo che diventava interattivo. Era sufficiente telefonare alla redazione da casa e poter discutere in diretta, spesso di problemi concreti di cui la Rai non si occupava. Canale 96, Radio Popolare a Milano, Controradio a Firenze, Radio Sherwood a Padova, Radio Città Futura a Roma, Radio Alice a Bologna divennero strumenti di diffusione della nuova musica e furono un esempio di esperienza libera e autonoma rispetto ai partiti politici [David Forgacs, L’industrializzazione della cultura italiana, p. 222].

I militanti del Movimento del 77, la generazione dei diversi, degli indiani metropolitani erano gli zingari felici, “ubriachi di luna, di vendetta e di guerra”. A loro Lolli dedica l’album Ho visto anche degli zingari felici (EMI, 1976), una fotografia della crisi e del malessere giovanile di quegli anni, uno sguardo sul sociale da una prospettiva personale e intima. E lo fa con un flusso di musica ininterrotta che fluttua da un brano nell’altro. “Il disco – scrive Jonathan Giustini – si trasforma in piazza. Una grande arena aperta, accogliente, calda di fiati e di sole. Un centro d’incontro dove tutte le storie confluiscono per naturale palingenesi, per l’ineluttabile bisogno di mescolarsi e di confondersi in un unico grande flusso di movimento che anima questi anni in cui Claudio si trova a vivere e suonare” [Joanathan Giustini, La terra, la luna e l’abbondanza, p. 125].

E siamo noi a far bella la luna/con la nostra vita/coperta di stracci e di sassi di vetro./Quella vita che gli altri ci respingono indietro/come un insulto,/come un ragno nella stanza./Ma riprendiamola un mano, riprendiamola intera,/riprendiamoci la vita,/ la terra, la luna e l’abbondanza.

E poi:

Ma ho visto anche degli zingari felici/corrersi dietro, far l’amore/e rotolarsi per terra./Ho visto anche degli zingari felici/in Piazza Maggiore/ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

La cantano anche Luca Carboni e Riccardo Sinigallia:

Ma l’album si interrogava anche sui recenti fatti di cronaca. La canzone Agosto descriveva l’attentato all’Italicus e questa fotografia, nell’album dei ricordi dolenti del paese, si collocava idealmente di fianco a quella della morte di Pinelli e a quella della bomba alla Banca dell’Agricoltura. Pezzi di un unico puzzle, come se nulla fosse mai cambiato. Canzoni come metaracconto delle stragi italiane.

Agosto. Si muore di caldo/e di sudore./Si muore ancora di guerra/non certo d’amore,/si muore di bombe, di muore di stragi/più o meno di stato,/si muore, si crolla, si esplode,/si piange, si urla./Un treno è saltato.

Con la canzone Piazza, bella piazza si passa a un giudizio laconico e mortificante sul sistema politico italiano: “ufficiali, teste calve, politicanti un metro e mezzo senza le ali”, sono quelli che parteciparono ai funerali delle vittime di quella strage.

Piazza Maggiore è il simbolo di Bologna. La grande piazza circondata dai portici, che è mercato e festa di paese insieme. Davanti alla piazza si erge imponente la Cattedrale di San Pietro. Qui si celebrano i funerali di tutte le vittime delle stragi che hanno coinvolto la città, da quella del Rapido 904 nel 1984 in località Vernio, a quella della stazione ferroviaria, il 2 agosto 1980, fino a quella del treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro, nel 1974. Un numero impressionante di bare ogni volta allineate su quel sagrato.

Piazza Maggiore è vestita a lutto nel giorno del funerale delle vittime dell’Italicus: dodici bare. Davanti c’è il sindaco di Bologna, il presidente della Repubblica Giovanni Leone, il segretario della DC Amintore Fanfani, ufficiali, politici. Dietro di loro la città intera, prima silenziosa e raccolta, poi ostile: fischia, grida, a stento trattiene la rabbia verso i rappresentanti delle istituzioni.

Piazza, bella piazza, ci passò una lepre pazza…/si sentiva qualcuno urlare:/“solo fischi per quei maiali,/siamo stanchi di ritrovarci/ solamente a dei funerali.

Bologna tutta partecipa al lutto:

capivamo di essere tanti/capivamo di essere forti,/il problema era solamente/come farlo capire ai morti.

Piazza bella piazza, ci passò una lepre pazza… il ritornello ripetuto a ogni strofa è una filastrocca popolare toscana che la madre di Claudio Lolli, originaria di Grosseto, gli cantava da piccolo. Aggiunge un tono grottesco e sottolinea l’assurda follia di quegli eventi e di quell’oscuro momento storico.

Primo maggio di festa è la canzone che combina perfettamente il pubblico con il privato. Le celebrazioni per il 1° maggio 1975 coincidono con la fine della guerra in Vietnam, Saigon liberata, gli americani che se ne tornano a casa sui loro elicotteri. Ma coincide anche con la morte del padre del cantautore. Ed è la confusione dei sentimenti che predomina: gioia e sofferenza. Gioia collettiva, sofferenza privata, riflessione pubblica sulla morte, sulla guerra, sulla vita.

Primo maggio di festa oggi nel Vietnam/e forse in tutto il mondo,/primo maggio di morte oggi a casa mia/ma forse mi confondo.

Albana per Togliatti è di nuovo ispirata alla politica di quegli anni: le amministrative del ’75 e l’avanzare della sinistra, la sconfitta della Dc a causa del referendum sul divorzio. Poi le elezioni del 1976 che segnano la vittoria del terzo monocorde democristiano guidato da Andreotti. Le delusioni, l’amarezza, il ricordo malinconico di Togliatti, la nascita dell’ala dura e violenta, le schegge impazzite. La ricerca di un senso che sembra perdersi tra i fumi del vino che si sparge durante una festa vuota e spenta.

La sinistra vecchia e quella nuova, /Togliatti stai tranquillo, /le uniamo con il vino.

Il Movimento del 77 avrà vita breve e presto si schianterà contro lo scoglio del riflusso. Una sconfitta che metterà una pietra sopra al progetto movimentista della sinistra giovanile che abbandonava la partita tra delusioni, frustrazioni e inclinazioni al “lottarmatismo” a seguito dello scontro frontale con un Pci che non ne riconosceva le ragioni [Cesare Bermani, Una storia cantata, p. 157].

Agli zingari felici toccherà essere testimoni della sconfitta degli ideali di impegno e partecipazione sociale, delle possibilità della politica di cambiare le cose, delle istanze rivoluzionarie del 68. Nell’album successivo Disoccupate le strade dai sogni (1977), edito dall’etichetta indipendente Ultima Spiaggia, questi giovani sono ormai piombati in un incubo, Incubo numero zero, che li vede frustrati, incapaci di portare avanti un qualsiasi progetto di vita:

Disoccupate le strade dai sogni,/per contenerli in un modo migliore,/possiamo fornirvi fotocopie d’assegno,/un portamonete, un falso diploma, una ventiquattrore./Disoccupate le strade dai sogni,/ed arruolatevi nella polizia,/ci sarà bisogno di partecipare/ed è questo il modo/al nostro progetto di democrazia.

Sono i giovani a cui si chiede di sgombrare le strade, di togliersi dai piedi e levarsi dalla testa ogni sogno o progetto. Di dimenticarsi di essere stati felici. “Tu parla come preferisci – sembra dire Lolli -, usa la tua semantica falsamente codificata e che ti fa comodo, tanto io non accetto il tuo linguaggio. Nessuno me lo può impedire. Non accetto di venire normalizzato dal vostro modo di ordinare il mondo” [Giustini, La terra, la luna e l’abbondanza, p. 106].

È questa la ribellione estrema, utopica e lucida che, in Analfabetizzazione, passa proprio attraverso la rivoluzione del linguaggio. Che si fa poesia:

Ed il potere,/nella sua immensa intelligenza/nella sua complessità,/non mi ha mai commosso/con la sua solitudine,/non l’ho mai salutato come tale./Però ho raccolto la sfida,/con molta eleganza e molta sicurezza,/da quando ho chiamato prigione la sua felicità../Ed il potere da quel giorno m’insegue,/con le sue scarpe chiodate di paure./M’insegue sulle sue montagne,/quelle montagne che io chiamo pianure…

Poi ci sono canzoni come Autobiografia industriale che contestano, attraverso il gioco dell’ironia, il sistema della cultura e dell’industria discografica italiana, attraente come una donna opulenta e prosperosa, ma in fondo ingombrante e volgare. Riportano alla mente le passate critiche di Cantacronache alla canzonetta d’evasione e al business della canzone commerciale, artificiosamente costruita per intrattenere, divertire o commuovere:

L’arrangiatore,/dopo avermi ascoltato un pochino,/disse “non male,/è simpatico quel valzerino,/io ci vedrei,/sopra un primo e un secondo violino/e una viola che piange da sola,/perché no, una pianola,/qualche cosa che prenda/e che stringa alla gola, alla gola”./Il tecnico audio,/mi squadrò con un ghigno feroce,/ma il peggio è stato/quando ho fatto sentire la voce,/così piena di ragni di granchi di rane,/e altre cose un po’ strane,/una voce da regno dei più,/o da festival del sottosuolo,/una voce oltretutto/che mi accompagnavo da solo./Autobiografia industriale,/viva le tette dell’industria culturale,/tette opulente e dissetanti,/ma in definitiva un po’ troppo pesanti.

Anche se Lolli scriverà la maggior parte dei pezzi di quest’album anni prima, pezzi che avevano per tema la socialdemocrazia, la precarietà, la ricerca della felicità per una generazione troppo scontenta, di fatto il disco, con l’aggiunta del brano I giornali di marzo risulterà come la cronaca degli scontri del marzo bolognese del 1977 che determineranno la rottura tra sinistra storica e movimentista. Scenario: un grave fatto luttuoso. L’11 marzo a Bologna perdeva la vita lo studente Francesco Lorusso di Lotta Continua, ucciso, ancora una volta, dai proiettili sparati dalle forze dell’ordine. Radio Alice dava la notizia di questa morte alle 13.30 dell’11 marzo. Da lì si scatenerà la rivolta del Movimento, la zona universitaria presa d’assalto, rabbia e disorientamento. Nuove cariche della polizia, le facoltà che si organizzano in cortei, manifestazioni che irrompono per le vie della città. Colpi di arma da fuoco, feriti, vetrine in pezzi.

I giornali di marzo,/i giornali di marzo hanno capito,/i giornali di marzo,/i giornali di marzo hanno mentito./Gli uomini sono scesi a terra già in assetto da campagna,/prudenza delle forze dello Stato,/hanno replicato con lanci a ripetizione di candelotti lacrimogeni,/è stato centrato alla schiena cadendo immediatamente./Coi bottoni dorati e gli ottoni lucenti/fischiando la marsigliese,/mentre il vento fa il solletico ai sogni/rimasti impigliati nel cancello dei denti.

Radio Alice, la voce del Movimento, la voce della controinformazione, megafono per la musica di Claudio Lolli verrà messa a tacere alle 23.15 del 12 marzo 1977, in seguito a un’irruzione della polizia. Motivazione: associazione a delinquere, vilipendio, istigazione. “Radio Alice – scrive Jonathan Giustini – era sentita da tanta gente di Bologna, di Ravenna e zone vicine, come un bene comune da gestire insieme. Niente a che vedere con le radio militanti, bensì un progetto totalmente creativo dove chiunque poteva mettere dischi, parlare” [Giustini J., La terra, la luna e l’abbondanza, p. 103]. La radio di via del Pratello n. 41 era una radio libera. Claudio Lolli pochi giorni prima era stato invitato per un’intervista.

Clicca per ascoltare la cronaca dell’irruzione da www.radioalice.org

Il 16 marzo 1978, l’attacco allo Stato raggiungeva il suo culmine: Aldo Moro veniva rapito dalla Brigate Rosse. I cinque uomini della scorta falciati a raffiche di mitra. Il 19 marzo sui quotidiani campeggiava la foto di Moro prigioniero e l’annuncio delle Br della volontà di processarlo. Il 9 maggio il corpo del presidente della Dc veniva ritrovato a Roma in una Renault rossa in via Caetani. Era un mondo che crollava e lasciava in piedi una generale spoliticizzazione, forme di indifferenza, vuoti ideologici, afasia. Nel giro di pochi anni, sosteneva Ernesto Galli della Loggia, “a qualsiasi osservatore l’atmosfera della società italiana appariva completamente mutata. Ogni fiducia nella possibilità di un cambiamento spenta o agonizzante […], scematissimo e languente l’interesse per le ragioni dell’ideologia […]. Quella che solo poco tempo prima era stata giudicata una fra le società più politicizzate, o addirittura la più politicizzata dell’Occidente, sembrava esprimere ora un massiccio rifiuto della politica” [Ernesto Galli della Loggia, Il trionfo del privato, p. 6]. E questo per il convergere di numerosi fattori: per il crollo delle grandi speranze di cambiamento, spazzate via dalla crescente offensiva terroristica e da un reiterato atteggiamento repressivo delle istituzioni; per un modificarsi degli immaginari collettivi permeati da senso di sfiducia, disincanto, rifiuto di investire energie e intelligenze per modificare la realtà. Il futuro del Paese si nascondeva dietro una fitta nebbia. Questo, fino agli inizi degli anni Ottanta, quando la teoria del riflusso, del ritorno nostalgico al revival, a un passato goliardico di divertimento e spensieratezza, spazzeranno via ogni languore.

Lolli incideva Extranei (Emi, 1980), album che riassumeva la fine di un decennio vissuto nella dimensione politica, ora frantumata, senza aver lasciato alcun sistema di riferimento capace di rifondare un’identità.

Le canzoni parlano di personaggi estranei al mondo, che si sono persi, che non si riconoscono nel nuovo mood della normalizzazione, targato anni Ottanta:

E avrei voluto parlare di te,/ della tua liberazione,/ e avrei voluto parlare di noi,/ del perché siamo così estranei, così lontani, ma… (La canzone del principe rospo):

In Antipatici antipodi (Emi, 1993), Lolli continua a prendere le distanze da una realtà con cui non si vuole omologare, mentre la sua scrittura scende sempre più in profondità e scava trincee dietro cui nascondersi o difendersi, in una patria ormai “totalmente astratta”.

E sono questi gli antipatici antipodi /a metà tra il confine e la vacanza, /dove non basta sommare chilometri /per definire la lontananza, /verso questa terra di nessuno, /dove la solitudine forse /darà ancora dei frutti, /perché è impossibile mettere radici qui, /come è impossibile tornare tutti.

Seguiranno Nove pezzi facili (Emi, 1992), Intermittenze del cuore (THM/Tide Records, 1997) con Curva sud, canzone che parla del conflitto balcanico, ma che fotografa un’Italia impoverita di umanità, ridotta a curva da stadio, in cui campeggiano reclame, si inneggiano cori, bestemmie, insulti, si grida Forza Italia.

L’Italia è una macchina calda che va fuori strada,/un processo alla moda, da un tempo lontano un saluto romano,/un bambino di Napoli che salta e che ride, che urla e che dice/che “Duce”, che “Duce”, che “Duce”, tu sei la mia luce, /tu sei proprio l’unica luce che ho,/una dolce grandissima luce vera.

E poi Viaggio in Italia (Hobo, 1998) dove la canzone L’amore ai tempi del fascismo di nuovo racconta di un’Italia alle soglie del Duemila, cartolina berlusconiana, Paese dell’amore, in cui l’amore è solo mezzo di controllo, panacea, assuefazione al nulla:

Farsi scoppiare il tempo tra le mani/Per paura di non riuscire a fare niente/Per ritrovarsi in una specie di domani/Pieno di persone che sembrano “gente”,/Mettere in fila dei pensieri colorati/E tenerli insieme con parole di cristallo.

E poi Dalla parte del torto (Storie di note, 2000), La scoperta dell’America (Storie di note, 2006) e numerosi altri album in cui poesie, temi, sogni, riflessioni e immagini si riconcorrono, tasselli di una carriera lunga quarant’anni e più. L’amicizia, l’amore, la famiglia, l’essere giovani e l’essere vecchi, la crisi e la desolazione di fronte a una guerra, fuori o dentro, di fronte alla morte, alla rabbia, alla difficoltà del vivere. Le rivoluzioni e la normalità, il disinteresse e l’impegno politico, la protesta, la libertà e l’antifascismo, il rifiuto di ogni oppressione, la scuola. Professore liceale, Lolli a essa dedicherà Via col vento (Claudio Lolli, Emi, 1988), una delle canzoni più intense, che prende spunto dalla sua prima esperienza di insegnamento in un istituto professionale. Lì, i ragazzi, troppo precocemente, venivano avviati a una vita di sacrifici, immolati sull’altare del lavoro e di un futuro poco consapevole:

Studieremo/nella nebbia sui vetri/le probabilità/di futuro per gli innocenti,/innocenti come siete voi,/santi volgari ed ignoranti eroi/di un mondo che non vuole e comprerà/la vostra libertà. /Via col vento, via col vento,/se ne va il pensiero in questo piccolo tormento.

Quella di Claudio Lolli è una voce autentica che ha saputo svelare le trame di una sconfitta. Quella della sinistra, con i suoi valori e progetti di trasformazione sociale, culturale, politica. E ha saputo essere interprete di una diversità giovanile. A suo modo, mescolando sentimenti personali e realtà politica, raccontando la complessità del reale con una voce appena sussurrata. “Da ascoltare in solitudine come si leggerebbe un romanzo” [Claudio Bernieri, Non sparate al cantautore, p. 47]. Ma ha saputo anche tessere le fila di una storia italiana alla deriva, sempre sulla soglia di nuovi riflussi e di eterne dimenticanze.

Poeta, cantautore, musicista, professore di latino, vincitore della Targa Tenco 2017 come miglior album con Il grande freddo (La Tempesta Dischi). Disco che ha suggellato una carriera straordinaria di canzoni capaci di far riflettere, allora come oggi, sulla natura dell’essere umani.

Su quanto, là fuori, il mondo sia ancora freddo e ostile, ma non lontano da una possibile salvezza. Basterebbe appena che ognuno, nel suo personale viaggio nel mondo, portasse in dote una briciola di amore:

Un grande mondo certamente non bello/fatto di briciole dei nostri cuori/un grande freddo che si può sciogliere/solo con le lacrime dei nostri amori…

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli