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Natale: abbiamo pensato di affidarci alla parola di una personalità eccezionale del ’900, quella di Don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo e dei poveri braccianti della sinistra Po e partigiano durante la Resistenza.

Il racconto si svolge la notte della vigilia del Natale 1946: Don Andrea – anch’egli, come il suo autore, prete degli “erranti” e degli ultimi – si reca in una opulenta casa colonica a chiedere la grazia per il poveraccio che, in un momento di furore, ne aveva ammazzato il vecchio capofamiglia. La scena, qui, ricorda da vicino quella manzoniana del “pane del perdono” richiesto da Padre Cristoforo ai familiari dell’uomo che aveva ucciso, ma ben diversi sono i risultati ottenuti dai due religiosi.

E tuttavia, nonostante l’«inafferrabile tristezza che dà la giustizia soddisfatta degli uomini ben difesi e ben pasciuti», vale la pena seguire i passi e i pensieri di Don Andrea sulla neve fino alla sua chiesa: conducono ad avere ancora fiducia e speranza.

Irene Barichello


Una Vigilia solita: la solita nebbia che il freddo filigranava sui rami, sui fili della luce, sui baveri dei pastrani.

La gente usciva di casa lo stesso per le ultime provviste e gli ultimi auguri: entrava nella caligine e ne usciva frettolosamente senza muoverne lamento.

Anche se nevica, a Natale, chi ci fa caso?

Il bel tempo è in casa.

Quando la nebbia è così spessa, alle quattro si fa scuro: e siccome tutti vogliono rientrare prima del buio, anche don Andrea, quella Vigilia, aveva anticipato la funzione.

Dopo, a chiesa vuota, si era fermato per disporre la Messa di mezzanotte e per gli ultimi ritocchi al presepio; ma non poté andarci in fondo, perché l’Argia stava male e lo voleva subito.

Moriva di cuore quella povera donna, per quel suo disgraziato ragazzo, che, nel ’46, quand’eravamo un po’ tutti più cattivi del solito, aveva fatto fuori a randellate Poldo Fraccari, uno dei padroni di Ca’ Bruciata.

I soldi ci entravano fino a un certo punto anche in quella vicenda, che, come tante altre del tempo, era finita così per colpa degli animi che non ragionavano più.

Poche ore dopo, Dolfo Barbiani aveva già cantato davanti al maresciallo, sorpreso lui stesso del colpo.

L’aveva fermato per cautela, come avviene in simili casi, quando i primi che vanno dentro sono i soliti stracci, per uno dei tanti privilegi che accompagnano la miseria.

Dolfo viveva con la madre, non vecchia, ma già così malandata, che, a vederla, le si davano settant’anni, mentre non toccava i sessanta.

Le privazioni e i guai demoliscono: e l’Argia, che aveva perduto nel fiume il marito e il figlio maggiore, mentre traghettavano un gruppo di tedeschi, ne aveva collezionati tanti dell’una e dell’altra specie, che, a volte, per non sentirsi rodere, si era provata a bere anche lei, come fanno molti.

Il misfatto del suo Dolfo l’aveva inebetita. Per quanto ci pensasse, non riusciva a capacitarsi come il suo ragazzo avesse potuto perdere la testa a tal segno.

Due nel fiume e uno in galera: una madre ce n’ha abbastanza per morire.

E moriva di cuore, lentamente, logorata da lontananze che non riusciva a raggiungere né con la preghiera né con la speranza.

Voleva però rivedere Dolfo prima di chiudere gli occhi. Don Andrea se lo sentì ripetere anche quella sera tra i colpi di tosse e i deliqui, che si ripetevano quasi fosse la fine.

L’Argia stava seduta sulla vecchia poltrona di velluto rosso, che, alla morte di sua madre, le aveva regalato il parroco, con la sola compagnia del ceppo, che bruciava adagio adagio, gettando di volta in volta strane occhiate alla miseria e all’abbandono della stanza.

«Quei di Roma hanno respinto la domanda di grazia, perché i Fraccari non vi hanno messo la loro firma. Non vogliono che Dolfo torni. Hanno forse paura? Sì, ha perduto la testa una volta, ma ora è un ragazzo che capisce: lei ha visto le sue lettere e quelle del cappellano. Vorrei vederlo prima d’andarmene: il cuore mi viene in gola: mi sento soffocare. Don Andrea, torni dai Fraccari; se può, anche subito. Glielo chieda in nome del Bambino. Io no, sono una povera madre ai piedi della Croce: io no, non posso chiedere».

Il parroco passò in canonica per dire alla sorella che sarebbe tornato un po’ tardi: «Vado dai Fraccari per il perdono».

La sorella non capì se ci andava per Dolfo o per sé: levò dal fuoco la pentola, chiuse l’uscio e riprese il Rosario.

Ca’ Bruciata è la grossa fattoria dei Fraccari, che coltivano una larga fetta di terreno golenale, intersecata da lunghi canali e da prepotenti filari di pioppi.

Non dista più di tre chilometri dal paese, ma con quella nebbia e in una sera come quella, non era un camminare facile per don Andrea, che aveva più anni dell’Argia e non minori tribolazioni sulle spalle.

Non gli importava l’andare, né la notte: gli premeva di poter disporre di una parola di speranza per ricollocare una povera mamma sulla strada del Natale.

Lasciate le ultime case, si sentì meno solo.

La gioia natalizia, che filtrava dalle imposte socchiuse di ogni casa, che egli conosceva a una a una, gli sembrava così buona da dargli voglia di entrare.

Il silenzio della notte gli rassicurò il passo se non il cuore.

Le acque dei canali mandavano di volta in volta strani luccichii, come se invisibili astri vi si specchiassero nonostante la caligine.

I salici erano meno stagliati dei pioppi, i cui interminabili filari parevano scortarlo verso un misterioso appuntamento.

Non un alito di vento, non un lamento d’uccello, non un latrare di cani.

Gli sarebbe stato più facile ascoltarsi il cuore che il suono dei passi, che scivolavano sulla fanghiglia non ben assestata dal gelo.

Don Andrea scrutava la notte senza un pensiero preciso.

Era un viandante qualunque, che andava in questua di un po’ d’olio per la sua lampada.

Sua o dell’Argia? Non avrebbe saputo dirlo di preciso. Da tempo non riusciva a discernere ciò che era suo o della gente.

Ma possedeva ancora qualche cosa di suo il parroco di Casalbianco?

Dolfo, ai suoi occhi, non aveva quasi più volto. L’aveva visto ammanettato tra due carabinieri la sera stessa del delitto, ma non aveva avuto la forza d’andargli incontro e d’abbracciarlo.

Ora che camminava per lui nella notte, intendeva espiare anche quel momento di dubbio, che gli aveva paralizzato il cuore.

In Assise, gli avevano chiesto se Dolfo veniva in chiesa.

«In chiesa, no, o ben rare volte: ma è buono: un po’ grezzo, ma buono. Quando si fanno certe vite, ci si indurisce per forza».

«Non ci occorre di più – gli disse il presidente – sul conto del vostro buon parrocchiano».

E nel tono c’era un larvato compatimento per quel povero prete rurale che osava scusare un «comunista» e chiamar buono l’assassino di un vecchio, innocuo e indifeso.

Don Andrea presentiva che fra poco gli sarebbe toccata la stessa accoglienza dei padroni di Ca’ Bruciata, anche se era la notte di Natale.

Ma subito, quasi correggendosi: «Se Lui torna sempre, impossibile che qualche cuore non si apra».

Il furioso latrare dei cani lo annunciò ai Fraccari.

«Gente ancora in giro anche stanotte? Chi siete?».

«Sono il parroco: perdonatemi. Vorrei parlarvi».

La voce di dentro si rabbonì alquanto: i catenacci della porta carraia cigolarono, e, attraversato il portico, don Andrea si trovò nella grande cucina illuminata dall’acetilene e dal focolare, che pareva un falò.

La larga tavola era letteralmente sommersa da ceste, bottiglie, boccali e piatti con roba e roba.

Nessuno si alzò, ma tutti salutarono alla voce, con quella rumorosità che i rivieraschi sanno trovare anche senza l’ausilio del cuore, e che in altre circostanze non gli sarebbe affatto dispiaciuta.

«Vi scomodo nella sera più bella: ma faccio presto. E giacché ci siete tutti ed è la sera di Natale…».

«Non faccia complimenti, signor parroco. Lei è di casa, e cena con noi. Siamo già avanti col lavoro; lo vede dai vuoti; ma c’è da mangiare ancora per altrettanti. Ernesta, una sedia, un piatto, un bicchiere per don Andrea. Su, spicciati. Anche tu, Rosa. Dopo, discorreremo. Mezzanotte è lontana. Non capita spesso d’aver tanto onore.

Non ce lo faccia a metà il regalo».

«Anche voi, però, non mi dovete fare a metà il regalo che son venuto a chiedervi. Mi metto a tavola volentieri con voi e vi prometto di farle onore se voi acconsentite alla domanda di grazia…».

Il capoccia non lo lasciò finire: «Se è venuto per questo, poteva risparmiarsi l’incomodo. Chi rompe paga; a casa sua e a casa dei galantuomini. Dolfo è in galera e ci stia. E’ il suo posto: e mi meraviglio che un prete come lei venga a far l’avvocato di un delinquente, che ha massacrato nostro zio, che non gli aveva fatto alcun torto. Anzi, l’aveva chiamato a lavorare sul podere, scegliendolo fra molti. Altro che vent’anni di galera: la forca ci vuole, la forca!».

Parlava lui solo, Ferruccio Fraccari, conosciuto in paese per “Braccio di ferro”. I due fratelli assentivano: anche le donne, un po’ meno rumorosamente, ma assentivano.

Il prete non aveva nessuno dalla sua parte: gli stessi bambini lo guardavano senza simpatia: il guastafeste.

«Non sono venuto per Dolfo: l’Argia muore, e vorrei darle questa consolazione prima che chiuda gli occhi».

«Ah, ci pensa adesso? Prima no: prima li ha cresciuti come bestie. Come si semina chi raccoglie. Solo invidia per gli altri, per gente come noi che si tira il collo da mattina a sera, e ci chiamano i “sciür”!? guardate le mie mani».

«Non vi do torto, Ferruccio. Ma se uno sbaglia: se uno perde la testa: se non ha avuto una famiglia come la vostra: se l’Argia non è come vostra madre; ma se le risparmiate una nuova pena, se le date un sollievo, preparate la protezione per i vostri figli».

Sentendosi nominare, i tre più alti, due maschietti e una ragazza, sospesero lo sgranocchiare del torrone per fissare il prete, che pareva volesse riprender fiato, appellandosi a loro.

Le donne non fiatavano: andavano dalla tavola al focolare, dal focolare ai fornelli, con volto sospeso e vuoto.

A Ca’ Bruciata, l’opinione era fatta da uno solo, come gli affari. Al morto, nessuno aveva voluto bene: ma siccome volevano bene più del necessario alle robe dello zio, bisognava coprire la segreta soddisfazione della sua inopinata dipartita, mostrandosi implacabili.

«I nostri figli non hanno bisogno della protezione di nessuno. Hanno braccia e voglia di lavorare: e la strada dei Fraccari è solida, signor parroco, anche se ci vedete poco in chiesa. Stanotte, però, nessuno manca. Se favorite, vi facciamo posto sulla macchina che inauguriamo stanotte per venire a Messa».

Tanta feroce sicurezza, che metteva allegramente insieme la millecento nuova e la vecchia Messa di mezzanotte, gli tolse la calma.

“Braccio di ferro” non aveva ancor finito l’invito, che don Andrea era già in piedi. Nessuno doveva pensare che un prete potesse venire accompagnato all’altare da gente che negava così atrocemente la pietà.

«Domando scusa a tutti. Ho fatto la strada con tanta speranza: torno a mani vuote. All’Argia ci penserà il Bambino a darle un conforto senza che io glielo chieda. Per voi, per voi dovrò pregarlo. Non sempre il più povero è colui che non ha da mangiare».

La tenebra che saliva saliva, mentre la nebbia continuava a scendere, gli tolse a poco a poco la violenta rivolta della mente, lasciandogli l’animo sommerso in quella inafferrabile tristezza che dà la giustizia soddisfatta degli uomini ben difesi e ben pasciuti.

Non sarebbe entrato dall’Argia, pur passandole sulla porta. Certi dinieghi non si vanno a raccontare a una creatura che resta in vita solo per un’attesa.

Ma in chiesa, alla Messa, come avrebbe potuto parlare della bontà del Salvatore, quando una famiglia aveva chiuso fuori il Signore a quel modo?

Il primo segno delle campane lo sorprese nel messo di un dibattito che minacciava di sommergerlo.

I Fraccari avevano fatto saltare l’argine della sua poca fede: e Dio glielo veniva ricomponendo nell’esultanza del suo campanile, che gli restituiva la certezza dell’Avvento.

«Se Egli viene, se niente lo ferma, perché io che, in fondo, non sono che “una voce che grida nel deserto”, non dovrei gridarlo alla mia gente, che il Salvatore, proprio questa notte, viene per Dolfo in galera, per l’Argia la morente, per “Braccio di ferro” il fariseo, e per un povero prete di poca fede?».

 Don Primo Mazzolari (Cremona, 13 gennaio 1890 – Bozzolo, 12 aprile 1959)