Dall’ardente romanzo di Jack London “Martin Eden”, caro alle generazioni battagliere del Novecento, il regista Pietro Marcello ha tratto una libera rivisitazione filmica che ha messo in luce alla 76ª Mostra del cinema di Venezia le doti interpretative di Luca Marinelli nelle vesti del protagonista.

In linea col film l’attore, premiato con la coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, ha pronunciato le parole “Viva l’umanità viva l’amore!”, ringraziando Jack London per avergli offerto un personaggio così emozionante e dedicando il premio “a coloro che sono in mare a salvare altri esseri umani che fuggono da situazioni disperate”. Non a caso queste parole. Perché il clima di questo film appartiene all’oggi, all’inquietudine, alla perdita di quei valori umani e rivoluzionari che nel primo Novecento animarono tante lotte contro le ingiustizie del capitale rampante e rapace.

Martin Eden fu un libro caro agli umiliati e offesi, ai militanti delle battaglie sindacali e dei soviet quando i poveri, gli sfruttati combattevano per i loro diritti. La figura del marinaio-scrittore rappresentava la voglia di emancipazione del popolo, nel conflitto sfrenato tra padroni e lavoro tra proletari e classe dominante.

Il regista con piglio originale sposta la storia in un tempo mobile e metaforico, più astratto che preciso, suggerendo un’immagine emblematica di continuità del prepotere di classe sugli emarginati oggi divisi, catturati e indifesi da un potere sempre più avido e astuto. E ci riesce soprattutto nella prima parte suscitando analogie con gli affanni dei precari di oggi.

Una scena del film (da https://hotcorn-cdn.s3.amazonaws.com/wp-content/uploads/sites/2/2019/08/26175315/martin-eden-recensione-film-pietro-marcello-luca-marinelli-venezia-76-jack-london-5.png)

Marinelli, incarna con bravura il protagonista Martin dallo sguardo sognante, dal desiderio ostinato di crescere, di sapere e di descrivere ciò che vede. Egli rappresenta il desiderio di riscatto sociale di tanti, attraverso la cultura. Ma anche l’impegno contro le ingiustizie che lo circondano e le delusioni del perdente.

L’ammirazione per la bellezza e la conoscenza lo porta ad amare Elena (Jessica Cressy), la bella coetanea borghese. Ne fa un mito e una meta, ma la logica di classe, aperta o sotterranea gli sbarra il passo, prepotente come una barriera d’acciaio.

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“Sei un ignorante. Devi studiare”, esige graziosamente la ragazza. E questo andrebbe bene ma poi aumenta il prezzo. “Devi farti una posizione se vuoi essere accettato dalla mia famiglia”. I genitori Orsini d’alto rango e arroccati in campo liberale sono grati al marinaio per aver salvato sulla banchina del porto di Napoli il fratello di Elena, coinvolto in una rissa. Lo hanno accolto con eleganza, come ospite di riguardo, ma di fronte all’ipotesi di un matrimonio e alle idee progressiste del futuro scrittore prenderanno le distanze.

Marinelli rende con intensità l’idea del marinaio che vuole scalare la montagna letteraria e che ricorda in questo suo iter non facile la biografia dello stesso London.

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Lo vediamo iniziare il faticoso viaggio per acculturarsi, raggiungere il livello dell’amata e accontentare la febbre creativa. Legge, studia, e per campare sale sulle navi, lavora in officina e nei campi. Scrive poesie e racconti e accetta con eroica pazienza i numerosi rinvii dei suoi manoscritti da parte degli editori e dei giornali. Fino a che non riesce a spuntarla. Dopo la prima pubblicazione altre seguiranno e con esse arriverà finalmente il successo.

Eccolo scrittore affermato, invitato a cena dalle eccellenze cittadine, oratore e frequentatore di circoli privilegiati.

I consigli dell’amico Russ Brissenden (Carlo Cecchi), intellettuale socialista, nemico della società borghese e mecenate, lo spingono ad unirsi alle lotte sociali. Egli lo incita a trattare le problematiche scottanti del proletariato e gli dà un consistente aiuto economico. Gli articoli militanti però mettono in crisi il rapporto con gli Orsini e una falsa fama di pericoloso socialista lo allontana sempre più dalla fidanzata.

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“Perché – dice lei – scrivi sempre di cose cupe?”. “È la realtà”, risponde lui e cerca anche di accompagnare la ragazza nei quartieri poveri per aprirle gli occhi. A poco a poco però lo isola anche il divario tra le parole d’ordine dei circoli politici e il suo credo individualista ispirato al darwinismo di Spencer. Russ cerca di convincerlo a fuggire dall’ambiente cittadino divenuto ostile e a riprendere i suoi viaggi marini.

Nelle sequenze di vita, sullo sfondo del porto e dei vicoli di Napoli, si mescolano come in un caleidoscopio visioni di oggi e contrappunti di immagini e fotogrammi d’epoca, materiali di repertorio del passato. Questo apporto surreale crea una magia narrativa che è uno dei pregi del film. Scugnizzi laceri, madri indigenti e paesaggi degradati, voci e grida si alternano a scene di cronaca come quel lembo di storia dei fascisti picchiatori. La presenza della miseria, del lavoro duro, delle migrazioni ritorna come un leit motiv.

I volti dei pescatori, degli operai sono sempre gli stessi, segnati dalla fatica, dal purgatorio quotidiano, uguale l’indifferenza strafottente e festaiola della ricchezza. Il mix di tempi e luoghi avvalora le similitudini e le associazioni del pensiero.

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Marcello sceglie Napoli come cuore della vicenda anziché la California del romanzo per il suo valore simbolico, per l’espressività del dialetto, il calore umano della gente, il richiamo al Mediterraneo. Ci mostra il volto di una città che continua a essere sofferente nei suoi meandri e nei suoi conflitti sociali. “È come un valore aggiunto”, dice Marinelli. Qui il mare è luogo di bellezza e di tormenti attualissimi e consente di evocare migrazioni e naufragi.

Abbiamo seguito con emozione la battaglia instancabile dell’autodidatta Martin, questo suo viaggio partito da lontano, dalle vele e dalle stive, che ricorda quello di tanti giovani talenti dei giorni nostri frustrati dalla società. Ma, raggiunta la notorietà, assistiamo al tracollo dei suoi miti sul suo volto dolente.

È la seconda parte del film. Il suicidio dell’amico Russ Brissenden lo sgomenta. L’addio di Elena dopo un tira e molla estenuante lo abbatte. L’icona irraggiungibile dei suoi sogni gli appare alla fine in tutto il suo vuoto. Viene a mancargli anche l’appoggio del mondo del lavoro che lo considera un traditore. Gli resta l’amore sincero della popolana Maria (Carmen Pommella), una creatura semplice ma incapace di sostituire l’antica passione visionaria per Elena.

Questa caduta del personaggio che perde il suo carisma, soffocato dai ruoli e assedi mondani si proietta sullo stesso attore, trasformato in una sorta di star televisiva contemporanea, capricciosa e artificiosa. Il narcisismo di Martin, in bilico tra l’essere e l’avere, rappresenta in qualche modo ciò che vediamo giornalmente sui nostri schermi piccoli e grandi: attori, letterati, politici, impegnati nella recita di sé stessi, nelle fiction, nei social. Martin ne è cosciente e nel finale cerca la morte in mare, fuggendo da un mondo che vuole travisarlo e svuotargli l’anima. Da un punto di vista filmico però la sequenza di questo suicidio, sorta di ritorno del marinaio alle origini, è forse per lo spettatore troppo sfruttata, per essere all’altezza degli altri bagliori illuminanti del racconto.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice