Quante cose può dire una favola per adulti! Lo vedremo nel film fantasy di Guillermo del Toro La forma dell’acqua, quadruplo premio Oscar a Los Angeles del 2018 (miglior film, miglior regia, scenografia e colonna sonora) e già premiato col Leone d’Oro al Festival di Venezia (2017). Il regista messicano, visionario e cultore del gothic, qui usa il linguaggio fantastico a lui caro per esprimere liberamente delle verità molto sentite nel mondo americano contemporaneo e fuori dai suoi confini. Ambienta la storia negli anni ’60 perché –dice – «parlano dell’oggi, delle minoranze di genere, di maschilismo tossico, di dominazione, di razzismo, di abuso di potere, di divisione, di guerra fredda di tutto quello di cui si parla al giorno d’oggi!».

Nel film, Elisa e Zelda sono addette alle pulizie in un laboratorio di Baltimora gestito dai servizi segreti dove si svolgono esperimenti riservati. Siamo nel 1963, in piena Guerra fredda americana e in piena sfida spaziale con l’Urss. Elisa (Sally Hawkins) è una giovane donna affetta da mutismo e questo handicap la isola e la pone in uno stato di inferiorità, ma la sua fantasia è viva e così il forte bisogno d’amore. La collega Zelda (Octavia Spencer) afroamericana, che ben conosce la negritudine e il machismo anche nel matrimonio, la capisce e sostiene. Insieme affrontano la squallida routine di scope e ramazza e le difficoltà ambientali di sudditanza e pregiudizi. Giunge nei locali sotterranei un misterioso carrello blindato che suscita la curiosità di Elisa. Viene a sapere che racchiude un ospite squamoso, uno strano soggetto, catturato in un fiume dall’agente Richard suo superiore e destinato a manipolazioni top secret. La ragazza riesce ad aprire il contenitore e vedere il “mostro” (Doug Jones) che si dibatte con furia. Il prigioniero maltrattato e torturato dall’agente rampante (Michael Shannon) rispecchia, malgrado le sembianze anomale, la sua stessa solitudine. Di qui, in lei nasce un sentimento di pietà e di amore. Gli offre un uovo ponendolo sul bordo della vasca. Torna poi a trovarlo e ne progetta la liberazione con l’aiuto di Zelda e di un amico fidato, vicino di casa. Giles (Richard Jenkins), un gay anticonformista e un artista, è anche la sua guida e confidente.

La condizione di immigrato rende sensibile il regista Del Toro al tema della diversità. Egli in qualche modo la rappresenta nel personaggio anfibio, considerato dai veri “mostri” del laboratorio (l’agente e il generale) una “risorsa” da utilizzare. Si vedrà che la creatura contesa fra americani e russi, e destinata all’eliminazione dagli opposti programmi di competizione stellare, possiede sensibilità e intelligenza. Non facciamo fatica a decriptarla come simbolo delle varietà etniche e razziali ingiustamente discriminate negli Usa. Il prigioniero è inoltre considerato una “cosa”, non diversamente dalle due operaie sfruttate e trattate come “merce-lavoro” o eventuali prede sessuali dai superiori. La sua liberazione non può avvenire che per una iniziativa dal basso. Il film è infatti una risposta dal “basso”, che dà valore a quelle umili lavoratrici ribelli. È poi importante l’accento posto sulla figura femminile, sulla capacità della donna di superare per amore ogni limite e distanza sociale precostituita. La disponibilità istintiva a “sentire” il legame tra le creature del cosmo e la solidarietà verso gli “umiliati e offesi” proviene dalla predisposizione materna e dalla storia stessa del pianeta femminile, dalla memoria secolare sempre aperta degli abusi subiti. Non a caso vedremo Elisa abbracciare di getto la causa dell’uomo-anfibio. Altro simbolo è quello dell’handicap. Il mutismo della ragazza ha un ruolo significativo. Esso rappresenta la debolezza fisica, ma anche la forza della volontà che rende la mancanza una risorsa. Il mutismo come silenzio, è il contraltare delle parole usate come menzogna. Elisa va oltre le parole. Organizza il rapimento dello strano amico acquatico e, innamorata, si unisce a lui anche fisicamente. L’amplesso tra i due, eco lontana dell’antica fiaba La bella e la bestia, è una stilizzazione emozionante dell’impossibile su cui trionfa l’Eros. Del Toro attribuisce a ogni oggetto, personaggio e situazione, al di là dei travestimenti della trama, un senso metaforico di attualità che gioca col “mostruoso” e fabulistico, mirando a denunciare il conflitto tra amore e odio nella società.

La raffinatezza della forma studiata di esterni ed interni, il colore degli arredi e dei costumi, sempre legati ai significati, non eliminano il peso del reale accanto al fine allegorico. La forza delle sequenze è proprio nel contrappunto e nella contaminazione tra realismo e immaginazione. La figura del “mostro” ne riassume il sorprendente risultato. I due partner della coppia sono eroi trasfigurati dall’amore che rende bello anche il fauno, dio del fiume. L’acqua che li accoglie è elemento fluido e simbolico di natura, di unione contrapposto alla divisione distruttiva, alle armi, alla violenza. I sotterranei dove si svolgono le attività top secret, spazi tenebrosi e surreali, sono anche un luogo di fatica quotidiana. La sporcizia allude a quell’altra, quella in alto, del potere cieco e prepotente che si personifica nel “cattivo”, l’agente pragmatico e cinico, il maschio picchiatore agli ordini dei militari e del sistema. L’inserimento delle spie russe che vogliono impadronirsi della “risorsa” riflette l’ambiguità e l’intercambiabilità delle ragioni di stato. Nella schiera degli oppressi che si ribellano, l’omosessuale Giles e la colf di colore Zelda, rappresentano la discriminazione. L’uomo-anfibio fa pensare agli emigranti vittime dell’intolleranza di Trump. Lo scienziato della base (Michael Stuhlbarg) è la voce dell’ecologia. Ma al centro dell’intreccio, motore di emozioni, c’è soprattutto la Hawkins con il suo volto espressivo. Incisiva e toccante, comunica la passione interiore “parlando con gli occhi” e conquistando lo spettatore. Fatti, sorprese, aspettative, finale onirico, tutto confluisce nello slancio romantico di un messaggio alla Victor Hugo in difesa della persona e della pluralità del mondo.

Serena d’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista