Se questo è un uomo. Era il titolo di un libro di Levi sulla shoah. Ma oggi la barbarie continua. Quest’uomo nel nuovo film di Aki Kaurismaki, “L’altro volto della speranza”, si è trasformato in un giovane meccanico siriano che ha perso tutto nei bombardamenti, la casa, la famiglia e vagabonda alla ricerca della sorella Miriam, che le circostanze dell’esodo hanno diviso da lui in una frontiera straniera. Khaled (Sherwan Haji) fugge di Paese in Paese, avanti e indietro. Respinto, ritorna, lo picchiano, lo arrestano lo imprigionano, dalla Turchia alla Grecia, alla Slovenia, all’Ungheria, alla Serbia, all’Austria alla Danimarca e infine, imbarcato su un mercantile in partenza, approda in Finlandia.

Crede di avere fortuna in un Paese che ha fama di civiltà. Ma anche qui la sua sorte di rifugiato senza permesso è grama. Selezioni, rifiuti, centri d’accoglienza squallidi come carceri. Gli danno del tu, lo trattano come un inferiore. È la sorte dei fuggiaschi in tutti i tempi, quella narrata da Voltaire, e da tanti scrittori, il destino degli ebrei erranti, degli armeni, dei neri.

Il volto della speranza è solo la fortuna. Il caso può essere favorevole. Gli fa incontrare un rappresentante di camicie, Wilkrom (Sakari Kuosmanen), che confida nella probabilità, che cerca una chance nel gioco per uscire dalle sue difficoltà economiche e la trova. Il vincitore, portato per carattere alla solidarietà, assume poi la gestione di un ristorante fallito “La pinta dorata” e vedendo Khaled steso a terra vicino ai suoi cassonetti, dopo averci litigato e averlo preso a pugni, lo assume come tuttofare. La generosità gli porterà bene e gli affari andranno a gonfie vele aggiustando alla fine anche il suo rapporto in crisi con la moglie (Kaija Pakarinen).

L’aiuto degli umili è sempre una forza. Il popolo della solidarietà è fatto di barboni, suonatori girovaghi, donne di pulizia, marinai che chiudono un occhio, da altri rifugiati di altri Paesi pronti a dividere una sigaretta e un cellulare, come l’iracheno. È una schiera che conosce gli stenti e la sofferenza. In agguato sono i naziskin coi loro coltelli, mentre incombe l’indifferenza burocratica fatta di regolamenti. Se Aleppo e la Siria non rientrano nei canoni delle zone a rischio che giustificano l’assistenza per gravi disastri umanitari, la legge obbliga i fuggiaschi a ripartire e tornare nel pericolo.

Khaled non ci sta. Si sottrae al rimpatrio forzato e ha la fortuna di trovarsi davanti al ristorante del futuro benefattore. Sarà la salvezza temporanea. Ma, ritrovata con gioia la sorella, un nuovo agguato di naziskin lo costringe di nuovo alla fuga.

Così la storia resta sospesa. Lo vediamo ai piedi di un albero davanti a un fiume insieme al cane, mentre Miriam sta per entrare al posto di polizia per chiedere asilo.

Non c’è mai un sicuro lieto fine, ci fa capire Kaurismaki, la vita del migrante è sempre solitaria e appesa a un filo. E ci viene in mente un film significativo del 1980 di Markus Imhoof, La barca è piena, che ha per soggetto un gruppo di ebrei fuggitivi in Svizzera e il loro calvario con un finale drammatico e un punto interrogativo. Una storia con protagonisti diversi ma uguale disumanità che si ripete.

Il film, premiato per la miglior regia al Festival di Berlino 2017, è severo, pulito, sintetico, veridico. Ci proietta dentro una situazione, dentro un personaggio e più personaggi in modo lineare, facendoci provare il sapore dell’umiliazione e della paura, della vita precaria, il trasformarsi della normalità in una strada piena di incognite dove ogni minuto cela un tranello.

Il cittadino di un Paese normale, con una vita stabile, i parenti, una certa sicurezza viene trasformato in persona priva di diritti, sbalestrata, maltrattata, confusa. Alla domanda della responsabile per i rifugiati sulla religione professata, Khaled, che deve riempire un modulo, risponde di non essere né islamico, né suddita, né sciita, né buddista e neppure ateo. È niente, perché la sua persona è ridotta a niente.

Il regista Aki Kaurismaki (da http://www.quartaparetepress.it/public/uploads/2017/ 04/DSC_0067.jpg)

Nello stile preciso del regista c’è però posto anche per l’humour, l’altra faccia di ogni storia triste. Momenti comici mostrano i cambiamenti del ristorante per aumentare il guadagno, il camuffamento dei camerieri buffamente equipaggiati per adeguarsi al sushi, la cucina giapponese che va di moda e paga. Divertente la figura caratteristica del capo cameriere Calamnius (Ikka Koivula). Questa chiave anima la comunicazione. La naturalezza del tono senza enfasi premia il linguaggio narrativo, quello della vita di tutti i giorni, a volte quasi astratto ma attento a registrare l’anomalia sotto la superficie della normalità. Nell’apparenza puntuale finlandese, scova i pericoli, i fattori di disturbo, come la ricomparsa rabbiosa dei razzisti. Così si delinea, ai nostri occhi, l’immagine riuscita e allarmante di una vecchia Europa ormai raggiunta dalle contraddizioni globali del mondo.

In Finlandia gli esuli sono ventimila.

Chissà, pensiamoci, potrebbe succedere anche a noi gente tranquilla, ci ricorda Kaurismaki col suo film, facendo scorrere accanto all’inquietudine begli esempi di sostegno umano.

Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista