J’Accuse, titolo italiano L’ufficiale e la spia, Leone d’Argento della Giuria alla 76ª mostra di Venezia, è un bel film severo e tempestivo in un momento politico in cui ogni valore etico sembra traballante.

“Ho voluto rappresentare lo scontro tra la fedeltà alla ragion di Stato e quella alla verità” dice Roman Polansky. Ma non è solo questo. È un’accusa contro l’antisemitismo. Infatti il capitano alsaziano Alfred Dreyfus (Louis Garrel), il protagonista, vittima dell’ingiustizia, è ebreo. Come tale già pregiudizialmente malvisto negli ambienti militari francesi di fine ’800, carichi di pregiudizi e sciovinismo. All’antisemitismo cristiano e a quello economico si era aggiunto quello nazionalista che giudicava gli ebrei per la loro coesione religiosa e comunitaria incompatibili con l’esigenza patriottica. Sappiamo a quali tragiche conseguenze porteranno questi orientamenti e pretesti.

Il caso Dreyfus è una storia vera, uno dei gialli più clamorosi di fine Ottocento che anticipa le persecuzioni e il clima che sfocerà, nei crimini contro gli ebrei, nei lager e massacri dell’intero secolo successivo i cui malefici rigurgiti spuntano anche ai giorni nostri.

La narrazione parte dalla prospettiva del colonnello Georges Picquart (interpretato a puntino da Jean Dujardin), prima accusatore, poi difensore di Dreyfus, che sarà spinto non dalla simpatia verso il mondo ebraico, ma dal senso dell’onore e della giustizia. Per questo si metterà in gioco per ribaltare otto anni di ingiuste sentenze e di carcere duro per l’innocente accusato di aver passato informazioni al nemico tedesco.

Il film (ispirato al romanzo di Robert Harris) è ottimamente costruito con ambientazioni e particolari incisivi dal punto di vista narrativo ed espressivo e personaggi gestualmente e psicologicamente indovinati dagli attori.

Polanski è maestro nel narrare mostrando i connotati di un’epoca, rievocando i quartieri parigini delle istituzioni in cui la giustizia obbedisce ai venti politici, a leggi autoritarie, ad intrighi. Ci fa sentire il fruscio delle scartoffie, negli uffici dei servizi segreti, entro le cui fosche mura e corridoi, si tessono macchinazioni e cancellature censorie. Comunica il tanfo che intride quelle stanze e che acquista nella narrazione un valore simbolico. Il rimando ai servizi segreti deviati di sempre e ovunque, di ieri e di oggi, è evidente. Il contatto con l’attualità serpeggia continuamente. L’uso delle manipolazioni e del falso riporta anche ai giorni nostri, all’inganno divenuto sistema generale in cui l’opinione pubblica è nutrita da notizie menzognere difficili da correggere. Nella scena iniziale assistiamo alla degradazione di Dreyfus. Nel vuoto opprimente del cortile dell’Ecole militaire di Parigi, si succedono le fasi umilianti della spoliazione dalla divisa e della sciabola spezzata. La disperazione del capitano è riassunta nel suo grido dignitoso “Condannate un innocente” ma non infrange il muro di ostilità dei commilitoni schierati, il dileggio della gente assiepata in lontananza ai cancelli.

Roman Polansky (da https://www.amica.it/2019/11/23/roman-polanski-film-weekend/)

Parlando del passato, Polanski si riferisce sempre ai pericoli del presente, l’abbandono della via della ragione. C’è sempre un’opinione pubblica frustrata e scalmanata, montata dalla retorica fanatica o demagogica, imbevuta di ignoranza, pronta ad accogliere la propaganda sballata. Come dimostrano le scritte “Morte agli ebrei” sui muri e le vetrine dei negozi.

Passo passo, di fotogramma in fotogramma, entriamo nei meandri dei fatti e nella presa di coscienza di Picquart. Promosso da capitano a tenente colonnello e capo dell’Ufficio di Statistica dei servizi segreti per aver denunciato il traditore, egli scopre che l’informatore era un altro. È il maggiore Ferdinand Esterházy di famiglia nobile, soggetto ambiguo e debitore incallito. Le prove false, il famoso bordereau, sono state fabbricate dal generale Sandherr e dal suo aiutante Henry. Pur edotti dell’errore doloso, i capi dello Stato maggiore preferiscono che la verità resti insabbiata. Corrotti o complici, il film li inquadra uno per uno, il ministro della guerra Mercier, il generale De Boisdeffre, il comandante Du Paty de Clam , i generali Gonse e Billot, gli esperti grafologi. A tutti sta bene che l’innocente condannato languisca in Guyana nell’isola del Diavolo coi ferri ai piedi, in una straziante solitudine. L’importante è l’omertà, la carriera, l’ondata patriottarda e clericale, sullo sfondo della diffusa discriminazione antisemita. Mentre il generale Gonse ordina a Picquart di tacere sulle sue rivelazioni, classificando il punito come uomo pur sempre spregevole per le sue origini, il colonnello Henry si dice pronto a uccidere chiunque, anche un innocente, se il comando viene dai superiori.

Polansky racconta di aver tratto quest’ultima battuta da una conversazione avuta col capo dell’esercito francese sulla logica dell’esercito. Il dovere dell’obbedienza. “Dovete uccidere qualcuno e voi ubbidite e se poi si scopre che c’è stato un errore, non è colpa vostra”. Ma Picquart è un soldato retto, non si dà pace e si getta con coraggio in una nuova indagine. Per questo andrà incontro ad una serie di minacce concluse con l’arresto. Verrà spedito in Tunisia in zona di guerra. Pagherà di persona per la sua lotta per la trasparenza.

L’entrata in campo a favore di Dreyfus di Emile Zola, noto giornalista e romanziere naturalista, fa grande scalpore. Con la sua lettera aperta al presidente della repubblica Felix Faure sulle colonne del quotidiano l’Aurore, diretto dal repubblicano radicale Georges Clemenceau, grida contro gli accusatori dell’innocente. “È mio dovere parlare, non posso essere complice”.

Il giorno dopo appare sul giornale la celebre «petizione degli intellettuali» che reca tra i firmatari a favore di Dreyfus professori della Sorbona e numerosi artisti tra cui Manet. La Francia si divide in colpevolisti e innocentisti. Anche lo scrittore Marcel Proust si impegna a far firmare il manifesto, nel quale ci si dichiara pubblicamente dalla parte di Zola e quindi di Dreyfus.

Lo Stato maggiore risponde facendo arrestare il maggiore Picquart, per denigrazione dell’esercito, e scatena sui giornali nazionalistici una violenta campagna contro ebrei, democratici e liberali. Lo stesso Zola, accusato di diffamazione e vilipendio delle forze armate, sarà condannato a un anno di carcere e a un’ammenda cospicua. Dovrà darsi alla fuga per evitare la prigione.

Il vibrante intervento di Zola, l’influenza di Clemenceau, le prese di posizione di importanti letterati e uomini politici, la confessione di Henry e le prove schiaccianti dei falsi alla base delle imputazioni contro Dreyfus, portano dopo otto anni allo smascheramento dell’errore giudiziario e delle colpe degli alti gradi. Ma l’ufficiale liberato dall’inferno solo con la grazia non avrà il riconoscimento degli anni perduti e pur riabilitato resterà col suo grado di capitano.

Picquart, divenuto ministro, non può farci niente. In un colloquio gli spiega che il clima politico non consente la buona riuscita di nuove iniziative processuali.

Non c’è un lieto fine, ma la realtà delle cose. Deve arrendersi all’ipocrisia di una società politica e militare di destra. Un unico risarcimento a quel volto segnato dalla sofferenza: l’onore.

Ci resta dunque, a conclusione di questa storia filmica avvincente e significativa, l’amaro messaggio finale, valido anche per i nostri troppi pubblici enigmi e stragi di Stato irrisolte: la lotta della verità per sopravvivere ai poteri occulti e alle ingiustizie è estenuante, ma irrinunciabile.

Serena d’Arbela, giornalista e scrittrice