“Sorrida! Sorrida un po’… di più, di più”, dice Michela (Micaela Ramazzotti) al vecchio imbronciato che ha davanti.

Il nuovo film di Gianni Amelio “La tenerezza” ispirato dal libro di Lorenzo Marone “La tentazione di essere felici” è una storia emblematica che fora la superficie della normalità. Vi penetra cogliendo non solo il malessere manifesto, ma le chiusure, le fragilità nascoste ingigantite da una società deprivata di ideali, dominata dall’egoismo e dalla carenza di affettività. Appartiene alla sfera individuale ma rispecchia il sociale.

Dice il regista in un’intervista. “La tenerezza è vicinanza; riconoscimento del volto dell’altro, della sua fisicità, del suo essere al mondo”. È questo il concetto che anima questo racconto. Incontriamo un avvocato, Lorenzo (Renato Carpentieri) dalla carriera spregiudicata, vedovo di carattere discutibile, con i suoi errori, le insolvenze familiari, le inadeguatezze al ruolo paterno. In vecchiaia raccoglie ciò che ha seminato, l’indifferenza e il rancore dei figli, la solitudine. La figlia Elena (Giovanna Mezzogiorno), traduttrice in tribunale, sembra intransigente e indurita dalle esperienze negative e il figlio Saverio, meschino e ostile al padre, è ossessionato dal denaro.

Pensiamo all’istinto materno animale che a volte è anche paterno. Accarezzare, proteggere, nutrire di cibo gli uccellini in attesa, difendere dagli estranei, insegnare a sopravvivere. Per questo è necessario il contatto. Anche nella comunità umana è importante saper entrare in sintonia fisica e mentale abbracciando e dialogando. La famiglia è il primo focolare dove si accendono o si spengono gli affetti. La mancanza di amorevolezza inaridisce sul nascere i primi slanci dell’anima.

Amelio afferra questo tema dei rapporti umani, oggi banalizzato nel cinema, nella tv, sul web, smarrito tra gli effetti spettacolari della fantascienza aggressiva e dell’horror, irriso nei dialoghi sfrontati dei blog che azzerano l’etica, sorvolato dalle sequenze fuggitive di soli fatti e dai prodotti gelidi del noir a se stante. Torna a scovarlo nel cuore della città partenopea. La vicenda narrata può considerarsi tipica della vita di tutti i giorni. L’anziano protagonista, reduce da un infarto, rivendica il suo diritto scontroso di single. Non vuole vedere i figli che ritiene ingrati, ma cerca il nipotino, figlio di Elena, già impertinente, che lo sopporta a fatica. Un giorno s’imbatte in una ragazza, vicina di casa, spontanea e gioiosa che gli offre l’occasione di un rapporto amichevole anche col marito Fabio, un giovane ingegnere, e i due bambini. Attraverso il terrazzo che li divide e unisce, i vicini simpatizzano e si frequentano.

Nella foto di Maria Laura Antonelli (Agf) il regista Gianni Amelio ed il cast con Renato Carpentieri, Micaela Ramazzotti, Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno

Questa nuova apertura scioglie l’animo di Lorenzo, gli fa ritrovare il gusto della comunicazione. L’attore Carpentieri, nella parte di Lorenzo, rende bene la situazione di tanti anziani chiusi ostinatamente come patelle aggrappate alla roccia, ma alla fine capaci di dischiudersi sotto l’azione di un benefico calore.

Avviene però qualcosa di drammatico e inaspettato a sconvolgere il quadro. Fabio, spara improvvisamente alla moglie e ai bambini e si uccide. Il film ci mostra ciò che non è così raro nella cronaca quotidiana. Eppure quello che si nasconde sotto la normalità continua a sorprenderci. La fretta dei ritmi sociali non ci permette di prevenire, di prevedere.

L’omicida celava un tarlo segreto, come già s’intravede quando reagisce con rabbia esagerata alle insistenze di un vu’ cumpra’. In un colloquio con Lorenzo l’abbiamo udito confessare il suo scetticismo, la sua incapacità di parlare con i figli. “Io non ci riesco. Non so cosa dire”.

Napoli fa da sfondo espressivo al tono del film, ai sentimenti con i suoi palazzi e i suoi vicoli, con il suo idioma. La scoperta della città, delle strade e dei mercati, con la gente, con il tribunale e i suoi tipi va di pari passo, con naturalezza, alla rappresentazione dei caratteri dei personaggi. Inquadra la vecchiaia, la solitudine di tutti, giovani, vecchi e bambini. In tutti manca il senso dell’altro. Ci sono anche i migranti clandestini e ambulanti, gli infermieri compiacenti e la madre dell’assassino (Greta Scacchi) che non ha capito niente e si consola con il possesso di un posto nella cappella funeraria di famiglia. C’è l’amante di Lorenzo, la sensuale Rossana (Maria Nazionale), che non lo rimpiange quando si rifà vivo, ma gli rinfaccia “Quando uscivi di qua cantavi”.

Il romanzo da cui è tratto il film

Fra tutte le figure, Michela è la più riuscita, una presenza portante che riflette la giovinezza, la semplicità, la dolcezza. Il marito la ritiene infantile, perché è ingenua, solare, dimentica le chiavi. Forse per questa leggerezza è riuscita a non inquinarsi nelle relazioni conflittuali della routine e a trasmettere speranza.

Fabio, a cui il bravo Elio Germano dà autenticità, si scopre invece intimamente teso ed inquieto, un figlio unico infelice come molti contemporanei. Secondo la madre è stato bloccato da un trauma infantile, ma il film ci suggerisce di più. C’è, all’origine, una sordità familiare, una voglia di tenerezza respinta. Un male che è alla base di tutti gli scontri tra persone o del loro vagare come monadi.

Mentre Michela lotta tra la vita e la morte, Lorenzo sosta al suo capezzale facendosi passare per padre. Spera che si risvegli, ma la donna non ce la farà. Elena, colpita da questo trasporto del genitore, capisce quanto ha perduto con la sua rigidità. Non ha mai perdonato al padre i suoi tradimenti e il dolore inferto alla madre. Ora capisce che non vuole perderlo e gli va incontro. Lo difende al commissariato di polizia quando gli contestano la falsa identità dichiarata in ospedale (“ha fatto un gesto buono”) anche quando lui, scorbutico, rifiuta l’aiuto (“sono fatti miei”).

Ma, nel finale, il padre la ritrova, la raggiunge sulla panchina. È una sequenza intensa, le loro mani si incontrano e restano unite. Il commento della scena è nei versi di un poeta arabo “La felicità non è una meta ma una casa dove tornare”. Elena ripete: “Tornare, non andare”.

Il ritorno è una luce nel buio, la conclusione di una trama attuale e riflessiva che lascia un’indubbia eco nel pubblico.

Serena D’Arbela, scrittrice, traduttrice, giornalista