Una seduta del Gran Consiglio del Fascismo
Una seduta del Gran Consiglio del Fascismo

Fra i gerarchi presenti alla «storica» seduta del Gran Consiglio che decretò in sostanza la fine del fascismo e si concluse aprendo la strada al colpo di stato ordito dagli ambienti militari e monarchici, ce ne fu forse un terzo che si lasciò trascinare dalla corrente. Uno di questi – quel Tullio Cianetti di cui ora escono le memorie (ndr: questo articolo è uscito su Patria indipendente n. 12/13 del 24 luglio 1983) e che si era trovato a fronteggiare gli scioperi dell’Alta Italia come presidente della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria – subito dopo aver votato l’ordine del giorno Grandi scrisse all’ex duce per abiurare quel gesto di rivolta. È un episodio estremo, sintomatico tuttavia del clima di disorientamento e svuotamento in cui erano caduti in gran numero gli esponenti del regime nel momento, inevitabile, della resa dei conti. I membri del Gran Consiglio – rimasti assenti in quanto tali persino nell’ora dell’intervento in guerra – rappresentavano certamente lo strato più elevato ed esposto della dirigenza fascista, il deposito di tutta una tradizione, che risaliva al 1923. Guardando a questo livello e a quanto accadde in uno con la defenestrazione di Mussolini, già all’indomani dei fatti ha preso piede una tesi, a lungo coltivata, relativa alla fuga e scomparsa degli uomini che fino allora avevano attorniato il loro capo e che erano rimasti più o meno inerti o attivi al vertice del Paese lungo tutta o quasi tutta la dittatura. Una tesi dal carattere «populista», che ama insistere sull’abbandono del campo della lotta, sul rigetto di ogni pubblica responsabilità (di fronte alla nazione e allo stesso Pnf), sul tradimento e sulla viltà.

Squadristi fiorentini (da https://it.wikipedia.org/wiki/Squadrismo#/media/File:Squadra_d%27azione_Disperata_di_Firenze.jpg)
Squadristi fiorentini (da https://it.wikipedia.org/wiki/Squadrismo)

Quella tesi appunta la maggior parte dei suoi strali su un contrasto patente (e in questo senso è veritiera): il gran partito dei fasci (di combattimento), che aveva messo al primo posto la grandezza della nazione e la fedeltà ad essa dei suoi gregari, spinta fino al supremo sacrificio, si era rapidamente dileguato e dissolto, senza colpo ferire e per un mese e mezzo – il periodo del governo militare impersonato da Badoglio – era rientrato nell’ombra. Sempre guardando le cose in questa prospettiva, il 25 luglio presenterebbe tutte le caratteristiche, almeno in prima istanza, di un conflitto interno alle istituzioni del regime, che ora si affloscia su se stesso e, secondo alcuni, si «suicida» collettivamente.

In realtà il movimento e quindi il regime fascista furono qualcosa d’altro, e di più, nelle origini, nel corso e nel declino della loro parabola. Nella forma e nella sostanza furono un «fascio della borghesia», che si era realizzato il 28 ottobre del 1922, e tornò a sfasciarsi il 25 luglio del 1943. II combattentismo, il mussolinismo, il bellicismo dei fasci e dei gerarchi furono un aspetto non secondario del costume di tutta una classe politica, per circa un ventennio; e il loro risvolto coreografico si condensò a un certo punto, negli anni trenta, fino sulle soglie della guerra e oltre, nei canoni dello staracismo. Ma non bisogna lasciarsi ingannare: fu certamente più rilevante la portata di classe del dominio fascista, testimoniata dalla durezza e dalla durata dello scontro con la resistenza antifascista e proletaria.

Ciò che a Mussolini non era riuscito fu appunto il superamento della lotta delle classi, che si era ritrovato di fronte in più occasioni e segnatamente, con esemplare evidenza e forza, nella fase di massima tensione della guerra. Nel 1943 si ha insomma, e precipita, un duplice moto centrifugo, che batte in breccia l’unanimismo della propaganda, della retorica e delle informazioni ufficiali. In poche settimane diventa chiara e si esplicita drammaticamente la spinta centrifuga dei lavoratori (per il pane e per la pace) e dei capitalisti, dei gruppi conservatori, per disfarsi del fascismo e preparare un’alternativa ai pericoli interni e internazionali.

Col 25 luglio, in effetti, divenne più che mai evidente la scissione e quindi la diaspora dell’ex gruppo dirigente dello «Stato mussoliniano». Si potrebbe ricostruire una tipologia dei differenti comportamenti degli ex gerarchi, delle loro avventure individuali, spesso tragiche, qualche volta obiettivamente farsesche o intimamente crepuscolari. Alcuni trovarono immediato riparo all’estero, in Paesi neutrali, altri cercarono un rifugio più o meno clandestino in Italia, come avrebbero potuto fare dei privati cittadini, altri ancora si appoggiarono immediatamente alla Germania nazista, i più elevati socialmente rientrarono nelle pieghe della continuità statale assicurata dalla monarchia; alcuni incapparono nella vendetta della repubblica sociale.

Giacomo Acerbo, ministro delle Finanze dal 6 febbraio 1943
Giacomo Acerbo, ministro delle Finanze dal 6 febbraio 1943

Ogni diaspora ha anche la sua geografia politica: Acerbo, stando alle sue memorie si trovò in breve fra «due plotoni di esecuzione», Bottai si rifugiò per qualche tempo nella Legione straniera, Cianetti andò a fare il colono nel Mozambico, e Carlo Scorza, che aveva tentato di opporsi a Grandi, ed era rimasto in minoranza, riuscì ad evitare, come parecchi altri, di essere preso nella morsa della guerra civile, e si nascose a lungo in America Latina.

In realtà, solo che si guardi un poco oltre la cronaca, appare chiaro che il 25 luglio furono gli apparati del partito e della milizia a non reggere l’urto, a rappresentare in modo più o meno intenso ed emblematico il disfacimento della compagine fascista.

L’opera di sganciamento era già stata avviata da qualche tempo: particolarmente rappresentativo è   l’itinerario del conte Volpi, che in altri tempi aveva sostenuto, mediato, consigliato l’avvento e la politica del fascismo e che era stato dimissionato giusto il 30 aprile da capo della Confindustria, stante il suo crescente distacco da un potere ormai in difficoltà e chiaramente perdente. Erano i «notabili» del regime, più o meno mescolati alla borghesia dei grandi affari e più o meno opportunisticamente rivolti all’ovile regio, che se ne andavano.

Ha scritto Roland Sarti a proposito di Volpi: «Per Volpi e, in genere, per gli industriali, Mussolini e fascismo erano un binomio indissolubile perché, se nel fascismo riconobbero il movimento di massa capace di ribaltare il sistema liberale in senso a loro favorevole, in Mussolini videro il capo capace di frenare le tendenze radicaleggianti del movimento fascista». Prima di tutto il resto, questo complesso rapporto, mai del tutto tranquillo, era dunque entrato in crisi. Ma qui bisogna fare attenzione: sono i colpi di maglio ricevuti in guerra, sul fronte militare, che mostrano la debolezza intrinseca del sistema; ed è la sottrazione di consenso popolare all’interno, con gli scioperi del triangolo industriale, che precipita la caduta del fascismo.

locandina fascista FIATSe si ha chiaro questo sfondo di carattere generale, allora si può meglio precisare la dinamica dei singoli gruppi di potere raccolti intorno alle singole personalità; mentre bisogna anche considerare che col 25 luglio si mettono in moto ulteriori tendenze, e più accelerate, alla disgregazione molecolare di quell’organismo sempre composito e scarsamente organico che era stato il «regime». È questo il fenomeno centrale, di cui la resa, la fuga, la diaspora, l’infedeltà non sono che epifenomeni in un certo senso inevitabili dal momento in cui il partito, il governo, le organizzazioni di massa e di facciata, la stessa milizia volontaria per la sicurezza nazionale, risultano essere nulla più che una sovrastruttura estranea alla continuità dello Stato che si riaffermava, per quanto poteva, per altre vie.

Ma il senso e l’ampiezza, la profondità della sconfitta, a maggior ragione, risultano a questo punto in tutta la loro verità.

AutarchiaUn folle veggente, G. A. Fanelli, scrivendo su «Nuovo Occidente» giusto il 24 luglio, si era espresso in questi termini: «Durante la grande guerra abbiamo visto silurare e fucilare gente di ogni grado, borghesi e militari. Si ricorra (ora), se necessario, a questi mezzi a cui solo può affidarsi la salute della Patria minacciata». In queste parole (ristampate nel libro Agonia di un regime) acuto era il senso del fallimento bellico e civile e della radicalizzazione politica, cui si andava incontro.

Nella crisi italiana del 1943, dal seno stesso del fascismo sconfitto nei suoi metodi e nei suoi obiettivi stava affiorando un certo oltranzismo da seconda o terza ondata, che si sarebbe raggrumato, dopo l’8 settembre, intorno al redivivo Mussolini e agli uomini di Salò. Per quanto le linee d’insieme storiograficamente accertate siano chiare, un vero e proprio studio di tipo sociologico sulla scomposizione, dissoluzione, reviviscenza della gerarchia fascista – centrale e periferica– non è stato neppure ipotizzato. I maggiori esponenti del regime, che avevano tenuto in mano con maggiore o minore competenza le redini del governo e dello Stato, furono quelli che cercarono di salvare il salvabile, la vita e la borsa: una prima volta votando contro Mussolini, una seconda disperdendosi quando si vide che l’operazione Grandi non aveva comportato tutto quanto si era proposta. D’altra parte, ai livelli inferiori, i comportamenti furono diversi (anche in rapporto con gli eventi militari, differenti nel Nord e nel Sud, con il biforcarsi dell’amministrazione dello Stato, ecc.), e di qui nasce l’impegno di una parte del «quadro intermedio» e «provinciale» del fascismo, nel disordine feroce della Repubblica sociale.

L’atto decisivo fu insomma – sotto lo stimolo di un doppio fallimento, interno ed esterno – il 25 luglio. Fu allora che la compagine statuale e sociale tenuta assieme, costruita, rappresentata dalle gerarchie fasciste esplose frantumandosi e giunse a un vero e proprio stato di scissione. Si è detto delle scelte di classe della maggioranza dei membri del Gran Consiglio, detentori in un modo o nell’altro di una grossa fetta del potere economico e politico. Subito o poco dopo i responsabili periferici, gli ex segretari federali e simili, le fasce subordinate dell’amministrazione, una gran massa di piccola borghesia in orbace si trovò stretta fra il collaborazionismo pro-tedesco (la continuità della guerra di Mussolini) e un atto di coraggio e di chiarezza che la portasse sui binari per molti fino a quel punto del tutto ignoti, ma non nuovi, della Resistenza.

 (da Patria indipendente N° 12/13 del 24 luglio 1983)