È uscito per i tipi della Araba Fenice edizioni, a cura di Angelo Mattanò, un bel libro che raccoglie le memorie del partigiano Nicola Mattanò, dal titolo “Un soldato italiano in Jugoslavia”.

Il testo, snello e scorrevole è il risultato della sistemazione dei racconti orali di Nicola, partigiano della “Divisione Italia”, operante in Jugoslavia, fatti al figlio nelle sere d’inverno davanti al focolare.

Nicola organizzerà personalmente i racconti in un manoscritto, con l’aiuto di Pietro Cervellera, per consegnarli, prima di morire, al figlio Angelo, con la raccomandazione di pubblicarli.

Il memoriale prende le mosse dalla sua chiamata alle armi con l’arrivo nella caserma di San Remo, da cui chiederà di essere trasferito a Bolzano, per essere aggregato al battaglione di scorta ai treni destinati in Grecia.

La paura, la fame, l’esasperato autoritarismo degli ufficiali, che riproducono le modalità di controllo e di comando sui soldati proprie della prima guerra mondiale, fanno da sfondo alla sua esperienza di militare di truppa, che culmina con il ricovero in ospedale a Belgrado, dove verrà salvato da un medico civile jugoslavo.

Quindi, dopo l’otto settembre, il campo di prigionia tedesco, la fuga, la solidarietà e l’ospitalità della popolazione locale che permetterà a Nicola di nascondersi temporaneamente nei villaggi e nelle fattorie della zona, dove per ricambiare lavorerà nei campi.

Il 9 ottobre 1944, il nostro protagonista accetterà di essere reclutato da un ufficiale partigiano per essere aggregato alla Divisione Italia.

Il partigiano Nicola, parteciperà alla Liberazione di Belgrado e Zagabria e il 9 maggio 1945 all’assalto, a guerra finita, al covo di Ante Pavelic, il fondatore del movimento nazionalista e collaborazionista degli Ustascia. Un’operazione a cui concorsero alcuni reparti della Divisione Italia nel tentativo di arrestare il “duce croato”, che si concretizzò in una cruenta battaglia di due giorni, culminata nella rottura dell’accerchiamento dei reparti partigiani da parte dei fascisti croati (Pavelić riuscì a fuggire dapprima in Austria, quindi a Roma e infine in Argentina).

Quindi il ritorno a casa di Nicola, a Lungro di Calabria, una piccola comunità Arbresh ai piedi del Monte Pollino, dove vivrà tutto il resto della vita, lavorando come bracciante.

Il libro, traslazione scritta dei propri racconti orali fortemente voluto dal protagonista, mette a nostra disposizione una straordinaria e ben fatta operazione di memoria da prima di tutto emerge il carattere innaturale della guerra.

Nicola ci dice come in questa dimensione l’uomo si muova in base a propri istinti; e il continuo richiamo alla paura e alla fame sono la materializzazione della volontà di sopravvivere. Così la promessa a se stesso di non levarsi più le bende dai piedi, nel caso riuscisse a cavarsela, la dice lunga sulla presenza di spirito del protagonista.

Non solo. La scelta di aderire alla Resistenza, per Nicola come per molti soldati italiani, rappresenta il culmine di un percorso di presa di coscienza, sia per uscire della clandestinità, dove è costretto dopo la fuga dal campo di prigionia, sia di rivendicazione convinta di essere dalla parte giusta. E, in questo senso, è una scelta fortemente ponderata, frutto di una riflessione attenta e profonda, a dimostrazione che la presa di coscienza non è mai immediata.

Non basta toccare con mano il male assoluto per decidere di combatterlo. Una volta, però, che si inizia a combattere si cambia irreversibilmente.

Non a caso la seconda parte del libro, quella in cui si racconta l’esperienza partigiana, si caratterizza per un racconto più rapido e vivace, con un evidente cambio di stile e di linguaggio, che regala pagine entusiasmanti.

Entusiasmo e voglia di lottare che Nicola non perderà mai più.

Entusiasmo e voglia di lottare che Nicola seppe sempre preservare e che mostrava quando lo incontravo in paese di ritorno dai campi.

Lui, dentro una vecchia camicia militare, fresco nonostante la fatica e la lunga camminata, rispondeva con un sorriso al mio saluto e cavava fuori dal suo inseparabile tascapane un frutto maturo per offrirmelo e invitarmi a parlare di tanti argomenti, tutti legati dal filo rosso della libertà.

Gioacchino Martino