Azioni di guerra contro i civili fotografate dall’Esercito tedesco (sito Eccidi nazifascisti Regione Toscana) da http://www.toscananovecento.it/custom_type/le-stragi-naziste-in-toscana/

I comuni di Fivizzano e Casola in Lunigiana sono due territori della Lunigiana orientale, nella provincia di Massa Carrara. Nella zona, all’indomani dell’8 settembre 1943, si sviluppò un forte movimento resistenziale, sostenuto dalla popolazione locale. I nazifascisti per eliminare le formazioni partigiane organizzarono numerosi rastrellamenti; il primo fu quello del 4 e 5 maggio 1944, operazione compiuta nel comune di Fivizzano, Casola in Lunigiana e nel confinante territorio di Lucca, a Minucciano e Giuncugnano. Il rastrellamento causò la morte di 23 civili nel comune di Fivizzano, una vittima a Casola e 6 nel lucchese (4 a Minucciano e 2 a Giuncungano).

L’azione sistematica di cattura venne attuata per eliminare le forze partigiane presenti nelle zone limitrofe alla strada statale 63 del Cerreto, che collegava Centro e Nord Italia, e l’allora strada statale 445, collegante la Lunigiana alla Garfagnana (più a sud). I nazifascisti avevano il timore di perdere il controllo del territorio, a causa delle numerose puntate partigiane che in più occasioni avevano bloccato il traffico sulle due strade, e al contempo miravano a distruggere il paese di Mommio di Fivizzano, villaggio situato a pochi chilometri da Massicciano, una zona dove i partigiani della banda Marini-Azzari avevano un campo di transito e dove avevano fatto paracadutare un lancio alleato nella notte del 30 aprile 1944. C’era la banda Marini, comandata da Domenico Azzari “Giulio Candiani”, capo della missione alleata Rutland, paracadutato nel territorio il 22 ottobre 1943 per portare una ricetrasmittente, c’era Angelo Sante Marini “Diavolo Nero”, attestato tra il Monte Argegna, Regnano di Casola in Lunigiana e Mommio di Fivizzano, e c’erano altri due gruppi nel comune di Minucciano e Giuncugnano, e la banda di Almo Bertolini “Oriol” nei dintorni di Sassalbo.

Il rastrellamento venne effettuato da circa 2.000 soldati appartenenti alla 135ª Brigata da Fortezza della Luftwaffe; dalla II, III, IV, V, Compagnia del reparto esplorante motorizzato della Divisione Paracadutisti Corazzata “Hermann Göring”; da un reparto del Battaglione Lupo della “X Flottiglia Mas”; da un reparto di reclute della Divisione San Marco; da militari appartenenti alla Guardia nazionale repubblicana di Fivizzano, Pontremoli, Lucca; da squadristi di Piazza al Serchio, Castelnuovo Garfagnana e Carrara; e da alcuni militari della Guardia di Finanza, utilizzati come soldati nel posto di blocco sulla statale nei pressi di Fivizzano. L’azione venne organizzata e diretta dal colonnello Kurt Almers, comandante della 135ª Brigata da Fortezza della Luftwaffe di stanza a La Spezia.

Secondo i documenti da me ritrovati presso l’Archivio di Stato di Genova, le truppe nazi-fasciste erano divise in 5 colonne provenienti da Carrara, La Spezia, Pontremoli, Reggio Emilia e dalla Garfagnana. Ad Aulla si concentrarono le forze provenienti da Pontremoli (queste ultime alloggiate su un treno proveniente dalla stessa città), da La Spezia e da Carrara, formando un unico gruppo. Giunta in località Cormezzano di Fivizzano, la colonna proveniente da Aulla si divise: una parte del gruppo della X Mas, insieme alle reclute della Divisione S. Marco, prese la SS 445 del Passo dei Carpinelli per poi dividersi ulteriormente nei pressi di Casola in Lunigiana: le reclute della San Marco si diressero verso Regnano mentre i militi della X presero la strada per la Garfagnana, in direzione Albiano-Sermezzana (comune di Minucciano). A Giuncugnano e Minucciano, provenienti da Castelnuovo Garfagnana e Piazza al Serchio, giunse su ben 10 autocarri un reparto nazifascista, comandato dal prefetto di Lucca Mario Piazzesi: il gruppo era formato da militi della Guardia Nazionale Repubblicana di Lucca, squadristi di Castelnuovo Garfagnana e Piazza al Serchio, al comando del segretario del fascio repubblicano Francesco Diamantini e da tedeschi. Sempre secondo alcuni documenti conservati all’Archivio genovese, il rastrellamento sarebbe avvenuto anche all’interno della Valle del Taverone in direzione Comano e Licciana, ma consultando gli archivi comunali delle due località non risultano vittime del rastrellamento, e d’altronde i testimoni che ho potuto intervistare hanno smentito la presenza di truppe nazifasciste nella Valle del Taverone nei giorni del rastrellamento.

Come ho anticipato, pochi giorni prima del rastrellamento era stato realizzato il lancio di un rifornimento alleato: il carico si era disperso in parte nel pianoro di Massicciano, a nord di Mommio, e in parte nel centro abitato. Complice la fame e la grande confusione di quel periodo, la popolazione del paese aveva nascosto una gran quantità del carico caduto sul villaggio. Il comandante partigiano Domenico Azzari, in un’intervista del 1987 che ho ritrovato, sostenne di avere organizzato una riunione con tutti i capi famiglia del villaggio allo scopo di farsi ridare quanto era stato preso dai paesani, proprio per evitare alla popolazione il rischio di ritorsioni dei nazifascisti, se avessero trovato il materiale. Purtroppo, affermava Azzari, gli abitanti non si erano preoccupati e così una parte del lancio fu ritrovato dai nazifascisti nelle case durante il rastrellamento.

Un simbolo della X Mas

Le dichiarazioni di Azzari sono avvalorate da un testimone; si tratta di Giovanni Tonetti, abitante di Tenerano, un’altra frazione fivizzanese. Tonetti mi disse: «Conobbi il comandante Azzari durante una commemorazione dell’Eccidio di Tenerano (settembre 1944, ndr), iniziai con lui un dialogo per farmi raccontare quello che aveva passato durante la lotta partigiana, lui mi parlò anche di Mommio e gli vennero le lacrime agli occhi: quel partigiano si rimproverava di non essere stato duro con gli abitanti del villaggio, di non aver saputo impaurirli: egli pensava che il paese fosse stato distrutto a causa del materiale trovato nel borgo».

Ma basandosi sugli elementi acquisti dalla ricerca storica, la Divisione Hermann Göring, uno dei corpi d’élite dell’esercito della Germania nazista, molto meticolosa, pianificava ogni operazione senza lasciare nulla al caso. Di Mommio di Fivizzano, per esempio, aveva già i nomi delle persone da cercare. E anche la completa distruzione del borgo probabilmente non avvenne affatto per il ritrovamento del materiale nascosto dai paesani, tutto era stato deciso prima della partenza dell’operazione. A Mommio c’era una spia, la cui casa infatti non venne incendiata mentre tutto il resto del paese venne dato alle fiamme e minato: 70 delle 72 case vennero distrutte.

La scoperta più interessante delle ricerche sui fatti accaduti, infatti, è stata il ritrovamento della sentenza penale del 1946 contro due fascisti di Fivizzano. I giudici comminarono 11 anni di carcere al sergente del Battaglione Lupo della X Flottiglia MAS e all’altro imputato 24 anni di carcere e la confisca dei beni patrimoniali. Su quest’ultimo nella sentenza si legge: “il (omissis) era un fascista della prima ora, tesserato del partito nazionale fascista dal 1920, partecipante alla marcia su Roma del 1922, aderì al partito fascista repubblicano e successivamente fu capitano della brigata nera d’Apuania”. E si mette in evidenza la sua durezza: ad Antonio Fiori di Mommio a cui i nazifascisti avevano sfasciato la casa disse: «Io sono con loro e ciò che fu fatto è stato fatto bene!». Un’altra testimone, Maria Farina, depone: «Ho visto a Mommio il (omissis) con il fucile insieme ad altri militari». Secondo altri testi, dopo i fatti del 4 e 5 maggio il (omissis) era tornato a Mommio e davanti alle macerie del villaggio aveva detto «Ve la siete cercata, avrebbero dovuto fare di più!». Sui fatti di Mommio e in generale sul rastrellamento del 4 e 5 maggio 1944, tuttavia, non è mai stata fatta giustizia, nonostante i processi istruiti nel dopoguerra. Gli imputati in un primo tempo condannati hanno beneficiato dei vari indulti e amnistie, le pene scontate furono irrisorie, anzi, ridicole.

Del comandante la 135ª Brigata da Fortezza della Luftwaffe dal settembre 1943 fino alla fine della guerra, il colonnello Kurt Almers, classe 1897, non si ha notizia di provvedimenti al termine del conflitto. Alcuni componenti della Divisione Hermann Göring sono invece stati giudicati colpevoli dei fatti di Mommio e condannati da tribunali italiani solo negli anni 2000: per Wilhelm Karl Stark e Karl Georg Hans Winkler la sentenza divenne definitiva nel 2014 mentre Ferdinand Osterhaus morì prima della pronuncia. Ma se da un punto di vista storico il processo ha sancito dei colpevoli per i fatti di Mommio, anche per gli ex nazisti non si può parlare propriamente di giustizia, ultra novantenni, non hanno fatto neppure un giorno di galera.

Due anni fa, la sezione Anpi di Casola in Lunigiana-Fivizzano “Hans e Sophie Scholl”, in collaborazione con l’amministrazione comunale, ha creato all’interno del borgo di Mommio un “Sentiero della Memoria”: chi arriva nel villaggio potrà leggere sui pannelli collocati lungo le strade quanto accadde tra il 4 e il 5 maggio 44; vi si narra la storia delle vittime; si ricostruiscono le fasi del rastrellamento; si raccontano le vicende dei partigiani Guido Savina e Ottavio Alberolo Manfroni, che nei pressi di Massicciano, con una mitragliatrice, fermarono la colonna dei nazifascisti, dando ai combattenti partigiani la possibilità di fuggire e lasciare la zona. Entrambi vennero feriti, catturati e fucilati. Sui pannelli è riportata la storia di Ivo Menini, giovane carabiniere e partigiano che, insieme a un gruppo di ribelli locali, ingaggiò battaglia contro i nazifascisti per poi sganciarsi e nascondersi in una grotta del territorio. Ivo, resosi conto che i nazisti erano ormai vicini al loro ricovero, uscì dalla grotta ed attirò l’attenzione dei tedeschi verso di sé. Riuscì a salvare i compagni ma venne preso dai soldati della “Hermann Göring” e fucilato. Aveva 20 anni.

Per chiudere questo articolo ho scelto due testimonianze da me raccolte. Pierina Gherardi, figlia di Pietro Gherardi, una vittima di Sermezzana di Minucciano (LU) mi ha raccontato: «Quando arrivò la Decima ero nella pancia di mia mamma, nacqui ad agosto, fu lei ad aprire la porta. Erano in due, uno di loro la minacciò, avrebbe voluto sparargli, l’altro lo fermò e gli disse “ma non vedi che è pregna!”. Presero mio padre e suo fratello e li fucilarono poco dopo. Negli anni successivi, ogni tanto mi sedevo lungo una stradina di Sermezzana, ed aspettavo mio padre, che non sarebbe mai arrivato, tutti avevano un papà, ma il mio non sarebbe mai passato a prendermi per mano. I fascisti uccisero altri due fratelli in località Trippalla, uno di loro (Ezio Morosini, ndr) venne legato ad una camionetta e trascinato lungo la strada fino a Carpinelli, quando arrivò lì, lo fucilarono».

E Osvaldo Morosini, figlio di Pellegrino Morosini, di Trippalla di Minucciano, mi ha detto: «Mio padre venne ucciso il 4 maggio, aveva fatto più di tre anni di guerra senza essere mai stato ferito, ma tornato a casa da pochi giorni, venne preso e fucilato dalla decima, io avevo poco più di un anno. Suo fratello Ezio venne ucciso il giorno dopo al Passo dei Carpinelli. La loro unica colpa fu quella di vivere vicino ad una casa in cui viveva la moglie di un partigiano e forse, non trovandolo, si sono avventati su degli innocenti!».

Ai 4 uomini fucilati a Trippalla e Sermezzana, i militi della X Mas, Battaglione Lupo, levarono gli occhi e le orecchie dopo morti.

Daniele Rossi, ricercatore e presidente della sezione Anpi di Casola-Fivizzano “Hans e Sophie Scholl”