Il partigiano Renato Tisato

La Repubblica italiana gli scrive nell’aprile 1957; nell’algido linguaggio della burocrazia gli comunica l’apertura di una inchiesta formale a suo carico, convocandolo presso il distretto militare della sua città, Verona, per rispondere di “azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, agendo in correità con altri, che hanno cagionato mediante fucilazione la morte” di alcuni gerarchi fascisti.

Renato Tisato ha 37 anni; laureato in filosofia a Bologna nel novembre 1940 e, nel 1949, entrato nei ruoli della scuola pubblica, quell’anno insegna storia e filosofia all’Istituto Cairoli di Pavia, dopo essere stato supplente a Verona, Rovigo, Voghera.

Non sappiamo con quale animo egli legga la lettera raccomandata a firma del Ten. Col. Vincenzo Feo, recapitatagli tramite il Provveditorato agli Studi di Pavia.

Sappiamo però che il professore – Tisato sarebbe diventato assistente volontario all’insegnamento di pedagogia dell’Università di Pavia nel 1958 – tempo quindici giorni stende una nota in cui, punto per punto, risponde agli addebiti che gli sono mossi relativi all’esecuzione dei gerarchi fascisti avvenuta il primo maggio 1945 presso Forte Azzaro a Verona.

Non sappiamo se, elaborando la sua riposta, Tisato si confronti con altri.

Anche in questa circostanza e anche con i pochi colleghi pavesi che gli sono compagni e amici, Tisato non rompe il radicale silenzio da sempre osservato sulla propria scelta partigiana.

In base alle successive ricostruzioni, Tisato, tenente di leva del regio esercito, immediatamente aderì all’appello del partito comunista clandestino e si fece partigiano gappista a Verona, dove era nato il 19 febbraio 1920, figlio di un commesso di negozio e di una maestra elementare, per diventare poi, novembre 1944, Comandante della Brigata Verona Libera. Nome di battaglia Redi.

Tisato si mette alla macchina da scrivere, strumento principe del suo immenso lavoro di ricercatore e pedagogista che lo vide autore di oltre 20 titoli per Utet, Feltrinelli, La Nuova Italia e case editrici europee.

E risponde.

La sua risposta non è quella di chi voglia discolparsi, rannicchiandosi nel ruolo di spaurito e incolpevole esecutore; né di chi voglia minimizzare l’accusa, cercando una qualche clemenza dalla Repubblica per la quale, pure, ha combattuto.

La sua risposta è quella di un partigiano che, anno 1945, riconosce nel CLN “il solo governo legittimo” e che, nel ruolo di ufficiale, ha partecipato alla Assemblea dei Partigiani della Zona Pianura, immediatamente successiva al 25 aprile.

L’Assemblea partigiana, scrive Tisato, “operando collegialmente” si riunì per discutere del “disarmo, della smobilitazione delle formazioni, della creazione di una polizia partigiana, della prima sistemazione dei partigiani smobilitati” (cit. fascicolo Tisato Biblioteca Universitaria di Pavia), e votò “all’unanimità i nomi degli otto che successivamente venivano fucilati, dopo il prelevamento dal carcere e la formazione del plotone di esecuzione composto dei partigiani della Brigata Stella Rossa che presidiava la zona” (cit. fascicolo Tisato Biblioteca Universitaria di Pavia).

La risposta di Tisato è la risposta di un resistente il cui animo non conosce smobilitazione, e che, giudicati “per la loro posizione politica e gerarchica” i fascisti fucilati a Forte Azzaro “responsabili della guerra civile”, rivendica a sé l’azione militare.

Nella minuta scrittura dei tasti Olivetti, conclude, duramente sottolineando di ritenere il proprio comportamento di allora “degno di un ufficiale cosciente e coerente”.

Il processo a Tisato andrà in prescrizione per amnistia; ma le storie, e le facce, dei tanti ex combattenti partigiani inquisiti arrestati processati, persino sottoposti a carcerazione preventiva, e tra essi il caso atroce della partigiana Lulù [1], segregata il 30 maggio 1953 nel manicomio criminale di Aversa, matricola 207, non gli danno pace, e senza tregua ne accompagnano i passi dalla sua casa alla aula universitaria dove tiene lezione, fino al modestissimo studio dove implacabilmente scrive e lavora.

Forse mai Renato Tisato si è sentito tanto solo.

Primissimi anni sessanta, egli abita in via Bona di Savoia periferia nord di Pavia; gli sono vicini di casa Ludovico Geymonat, già partigiano dal nome di battaglia Luca, 105° Brigata Pisacane, per un tratto docente all’Università di Pavia, con cui collabora per le sezioni pedagogiche della “Storia del pensiero filosofico e scientifico” e per la  redazione del manuale “Filosofia e pedagogia nella storia della civiltà” (Garzanti 1965); Franz Brunetti, all’epoca funzionario del Provveditorato agli studi, costretto a nascondere la propria identità di militante comunista, ed oggi professore emerito dell’Università di Pavia , e Franco Alessio, allievo di Mario Dal Pra, già partigiano giellista, nome di battaglia Procopio e di Ludovico Geymonat.

Forse Tisato confida loro qualcosa della sua storia di comunista e partigiano?

Forse parla del suo legame di lotta con il gappista Lorenzo Fava, ammazzato nell’assalto al carcere Degli Scalzi di Verona, cui egli stesso, dopo la Liberazione, 29 luglio 1945, rese l’estremo saluto? [2] Forse qualche parola filtra nella afasia della sua storia, strozzata dalla guerra fredda e dalla grande restaurazione degli anni 50?

Probabilmente sì, se Franz Brunetti consegnerà una delle rarissime foto di Renato Tisato alla sezione Anpi di Pavia, se Laura Beretta, laureata con Tisato nel 1973, ne riscoprirà il fascicolo presso la Biblioteca Universitaria di Pavia. Se io ne rivedo la figura stagliata tra il buio della sera e la luce della casa e sento la voce di mio padre che, accompagnandomi a conoscerlo – ancora non andavo alle elementari – dice “Renato è stato partigiano”.

Nell’appartamento in via Bona di Savoia, mentre lavora alla sua scrivania, Renato Tisato morirà nel 1977. La nomina ufficiale a professore stabilizzato arriverà solo all’indomani della morte.

Annalisa Alessio, vicepresidente Comitato provinciale Anpi Pavia


[1] Zelinda Resca, tratta in arresto nel ’51 per fatti di guerra connessi alla Resistenza bolognese, sottoposta ad un anno e mezzo di carcerazione preventiva, processata a Bologna nel ’52, incarcerata a San Giovanni in Monte, tradotta nel manicomio criminale di Aversa, matricola 207, il 30 maggio ’52, liberata il 30 dicembre e assolta nel dicembre 1955.

[2] “Eroe, per noi, è chi non già imprime un suggello suo personale alla volontà di molti, ma riassume in sé queste volontà collettive e, luminosità della propria intelligenza, fa assurgere alla chiarezza della coscienza quelle verità che nei più sono ancora sentite oscuramente come impulsi istintivi. Ma non basta questa superiorità di comprensione per creare l’eroe; è necessario che quest’uomo, conscio di aver compreso quelle che sono le vere esigenze del popolo, sia pronto a rinunciare alla propria indipendenza pur di attuare quelle esigenze. Questa rinuncia raggiunge poi la perfezione quando per essa l’eroe dissolve la propria esistenza nel sacrificio supremo. Per questo noi possiamo con assoluta sincerità proclamare Lorenzo Fava eroe della nostra fede”. ( cit. Renato Tisato, fascicolo Tisato Biblioteca Università Pavia)